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«Perché Cosa Nostra fa la guerra al Cavaliere», di Eugenio Scalfari

OGGI debbo scrivere di mafia e lo farò perché è quello il tema che incombe. Ma non posso cominciare il mio argomento senza prima segnalare l’evento politico che si è svolto ieri a Roma dove centinaia di migliaia di persone, giovani in gran parte, hanno affollato le strade della città, la grande piazza di San Giovanni e tutti gli spazi circostanti con una manifestazione autogestita che aveva come obiettivo il ritiro della legge sul processo breve, delle leggi ad personam e insieme le dimissioni di Berlusconi.

Sì, il vero tema che ha portato in piazza quel fiume di gente erano le dimissioni di Berlusconi. Forse è un tema poco politico o forse è troppo politico. Una politica si identifica con una persona? Si deve discutere del peccato ma non del peccatore?

Ci sono diverse opinioni in proposito. I politici di lungo corso di solito preferiscono parlare del peccato: è un concetto astratto, raffigura un male e va condannato, ma il peccatore si può redimere e se lo fa merita perdono.

Ma se il peccatore è recidivo? Se non si pente mai? Se risponde reiterando?

C’è una soglia oltre la quale esplode la rabbia e questo è uno di quei momenti. Dicevano che i giovani sono indifferenti, ma le strade di Roma ieri non davano quest’impressione. La manifestazione non era di partito o dei partiti, è nata su Internet e si è autogestita. Guardate il risultato.

Quando si parla di territorio e di democrazia che nasce dal basso, bisogna poi andarci su quel territorio e batter le mani a quella democrazia che nasce dal basso e che chiede sbocchi politici e strumenti politici per affermarsi.

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Ed ora parliamo di mafia. Leggendo la deposizione di Spatuzza al processo d’appello di Dell’Utri, Silvio Berlusconi ha commentato lapidariamente: “Tutte minchiate”. Dell’Utri dal canto suo ha osservato: “La mafia ha deciso di attaccare il governo e spera di farlo cadere”. Il commento di Fini è stato ovvio: “Se non ci saranno riscontri seri le dichiarazioni di Spatuzza saranno soltanto parole prive di peso”. Quanto all’opposizione, nelle sue varie sfumature il giudizio è stato pressoché unanime: “Spetta ai magistrati accertare la verità”.

Che cosa dice la pubblica opinione? Stando ai sondaggi la maggioranza relativa si affida alla magistratura, una minoranza consistente suggerisce al premier di dimettersi, un’altra minoranza anch’essa consistente condivide la parola “minchiate” a proposito di Spatuzza; infine un 20 per cento degli interpellati non sa e non gli importa di sapere. Ma quando si arriva alle intenzioni di voto si scopre che il consenso verso il governo è ancora sopra al 50 per cento e il Pdl e la Lega sono posizionati a quota 49 per cento. Se si votasse domani con questa legge elettorale la coalizione guidata da Berlusconi vincerebbe ancora largamente.

Siamo dunque in pieno enigma e il suo scioglimento sembra ancora piuttosto lontano. Le ripercussioni sulla governabilità consentono soltanto un modesto “tira a campare” che del resto coincide con la politica economica attendista di Giulio Tremonti. Voli pindarici non sono all’ordine del giorno, semmai un piccolo cabotaggio e una ripetitiva melina.

Sul tavolo dell’attualità domina comunque la pesante accusa mafiosa contro Berlusconi e Dell’Utri, una sorta di gravissima chiamata di correità per un patto che sarebbe stato stipulato nel ’93 e sarebbe stato adesso tradito dai due eminenti contraenti e questo è il punto che la dinamica processuale dei prossimi giorni ci impone di esaminare.

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L’attacco mafioso contro il governo è un fatto reale. Si svolge attraverso il pentito Spatuzza e anche attraverso le carte provenienti dalla famiglia Ciancimino. Per ora si tratta di “pesi leggeri”, ma nei prossimi giorni saranno chiamati a deporre i fratelli Graviano, già da tempo incarcerati sulla base del 41 bis. I Graviano sono i capi di un pezzo rilevante del sistema mafioso. Spatuzza è un loro dipendente. Ha scelto di pentirsi ma non li ha affatto rinnegati, anzi ne ha riaffermato non solo la dipendenza gerarchica ma un affetto familiare “come fossero i miei padri” ha detto e ripetuto dinanzi al Tribunale.
Dal canto loro i Graviano, pur senza sponsorizzare le sue accuse contro Berlusconi-Dell’Utri, non l’hanno sconfessato né infamato ma hanno ricambiato con affetto il suo affetto.

La loro imminente deposizione sarà dunque fondamentale per capire se le cose dette da Spatuzza sono “minchiate prive di peso” oppure “minchiate pesanti” cioè condivise da boss potenti. Il che non significa necessariamente che il famoso patto sia veramente esistito, ma che l’organizzazione terrorista mafiosa si considera in guerra con Berlusconi.

Il perché è chiaro: il governo, il ministro dell’Interno e la Procura di Palermo stanno colpendo assai duramente in questi mesi la struttura del potere mafioso. Ieri è stato arrestato un boss molto potente, Giovanni Nicchi; la polizia è sulle tracce di un altro boss ancor più potente, Messina Denaro. I Graviano stanno già scontando l’ergastolo. A questo punto è possibile che tutto quel che resta di Cosa Nostra passi al contrattacco. La chiamata di correo sarebbe così l’atto più rilevante di questa strategia. Ma la semplice denuncia di un patto tradito non basta a dare sostanza a una situazione processuale capace di sboccare in un rinvio a giudizio. Ci vogliono riscontri che l’accusa dovrà produrre.

L’accusa, ecco un punto molto importante da segnalare, è incardinata nella Procura di Palermo; quella stessa Procura che sta guidando con perizia ed efficacia l’azione contro i latitanti di Cosa Nostra. Non si tratta perciò – come Berlusconi continua invece a gridare – di toghe rosse che complottano contro di lui. Si tratta invece di magistrati che, proseguendo il percorso a suo tempo aperto da Caponnetto, Falcone, Borsellino, hanno smantellato pezzo per pezzo il potere mafioso. Sarebbe prematuro dare per vinta questa guerra, ma certo passi avanti notevoli sono stati compiuti, al punto che la situazione siciliana risulta oggi migliore di quella calabrese e forse anche di quella pugliese.

Tutto ciò per dire che la Procura e il Tribunale di Palermo meritano il massimo di credibilità. Spetta a loro di guidare la repressione contro la mafia e spetta a loro indagare sulle chiamate di correo che Spatuzza ha anticipato.

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Ho accennato domenica scorsa al precedente Andreotti. Torno ora a parlarne perché esso – sia pure in circostanze molto diverse, ci può fornire utili criteri per capire quanto sta avvenendo.

La Dc in Sicilia si trovò inevitabilmente a fare i conti con la mafia. Lo sbarco americano del 1943 si era appoggiato anche ad alcuni clan mafiosi che avevano tutto l’interesse di accreditarsi verso il nuovo potere. La strategia è stata sempre la stessa: la mafia desidera esser nelle grazie del potere politico dominante, utilizzare la sua “porosità”, fornire favori e riceverne in contraccambio. Il caso Giuliano fu da questo punto di vista esemplare: il bandito dava noia agli agrari e la mafia lo eliminò. Inutile dire che gli agrari erano molto influenti dentro la Dc siciliana.

Nella Dc siciliana ci furono dei coraggiosi combattenti contro la mafia, alcuni dei quali pagarono con la vita. Ma ci fu anche una consistente zona grigia a contatto permanente con la mafia. Poiché la Dc era un partito fondato sulle correnti e poiché la mafia predilige i poteri forti e non quelli deboli, la zona grigia democristiana fu inizialmente quella affiliata alla corrente fanfaniana.

Poi sopravvennero alcuni cambiamenti che sarebbe lungo ricordare e la zona grigia della Dc in Sicilia si intitolò ad Andreotti. Cosa Nostra all’epoca era guidata dalla famiglia Badalamenti e da altre sue alleate. Tra gli uomini d’onore il più importante era Buscetta, uomo di peso e di cervello. Nella zona grigia spiccavano i cugini Salvo, esattori delle imposte in tutta la Sicilia occidentale; Lima e Ciancimino.
Scavalchiamo gli anni: cresce la statura nazionale di Andreotti, si precisano i suoi obiettivi politici, la zona grigia ai suoi occhi perde terreno perché Andreotti deve costruire una diversa immagine di sé. Per di più la vecchia dirigenza di Cosa Nostra entra in crisi di fronte all’attacco dei Corleonesi. Il commercio della droga, fino ad allora marginale, diventa prevalente negli interessi della nuova mafia.

Questi mutamenti convergenti dettano ad Andreotti una politica rigorosamente antimafiosa. I Corleonesi gridano al tradimento. Lima viene ucciso. Una spietata guerra di mafia ha inizio e culmina con la vittoria dei Corleonesi.

Passano altri anni. Il potere di Andreotti è ormai in declino. I pentiti cominciano a parlare di lui. Cominciano i processi e terminano dopo alterne vicende come sappiamo. Andreotti si difese nei processi e alla fine la spuntò: non c’erano tracce sufficienti a configurare reati. Le poche tracce riguardavano un periodo molto lontano nel tempo e caddero per consunzione.

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La mafia vuole colludere con il potere. Ama il potere poroso, penetrabile, corruttibile, ricattabile. Vuole favori e offre favori. Quando si considera tradita si vendica. Con la lupara, con la chiamata di correo, col ricatto. E quando fiuta che il potere colluso sta traballando, allora lo abbandona. Se intravede i lineamenti di un nuovo potere emergente, gli apre la strada per procurarsi benemerenze ed entrare in contatto.

Questa è la storia e spesso si ripete. Comincia con reciproci ammiccamenti, prosegue con scambio di favori, si crea un equilibrio, entra in crisi l’equilibrio, la convivenza diventa difficile, subentra la guerra.
Questa è la dinamica tra i poteri, al di sopra dei quali ci dovrebbe essere lo Stato. Quasi mai i partiti sono lo Stato e di rado lo sono i governi. Perfino la magistratura talvolta non si identifica con lo Stato. La nostra scommessa questa volta è affidata alla magistratura. Se essa si identificherà con lo Stato forse questa guerra sarà vinta.
da www.repubblica.it