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“Emissioni, la bufala governativa. Non è vero che l’Italia paga di più”, di Fabrizio Fabbri

Clima. Va avanti da mesi una campagna disinformativa in cui si sente solo la campana dell’esecutivo. Ora uno dei membri del Comitato che ha assegnato i crediti di gas serra rimette in fila le informazioni.
Ottocentocinquanta milioni di euro: questa la cifra che l’Italia sarebbe costretta a pagare per far funzionare le sue industrie rispettando la direttiva europea sulle emissioni. La colpa sarebbe del governo Prodi che ha permesso alla Commissione Ue di penalizzare l’Italia. Cifre e accuse che tornano d’attualità nel primo giorno di apertura del summit sul clima, che cerca un accordo proprio sulla riduzione delle emissioni dei gas serra. Terra pubblica la testimonianza di prima mano di uno dei membri del Comitato che ha lavorato al piano emissioni, per rimettere in fila gli eventi e confutare le manipolazioni.

La Direttiva Ets, che regola le quantità di gas serra emessi dalle attività industriali, prevedeva che ogni Stato membro presentasse alla Commissione Europea, entro il giugno 2006, una richiesta di diritti di emissione per il periodo 2008-2012, il cosiddetto secondo Piano nazionale di assegnazione o PnaII. La definizione del tetto complessivo e la ripartizione per singoli impianti venne effettuata da un Comitato costituito da funzionari del Ministero dell’Ambiente e di quello dello Sviluppo Economico. Con un articolo del Sole 24 Ore dell’agosto scorso a firma Jacopo Giliberto, è partita una campagna di disinformazione che ancora dura. Si accusa infatti l’ex ministro Pecoraro Scanio di avere scientemente negoziato un tetto di emissioni per l’Italia inferiore ai fabbisogni, nonostante gli avvertimenti ricevuti contro tale impostazione dal direttore generale del Ministero dell’Ambiente, Corrado Clini, presidente del Comitato di assegnazione.

La volontà di fare i primi della classe e il velleitarismo avrebbe portato, secondo le notizie basate sostanzialmente solo sulle dichiarazioni del direttore Clini, a negoziare un piano di appena 201 milioni di tonnellate/ anno a fronte di una raccomandazione, che lo stesso direttore generale avrebbe inviato al Ministro, di portarlo ad almeno 230 milioni. L’aver ignorato questi saggi consigli avrebbe causato l’impossibilità di garantire la costituzione di un’adeguata riserva per le imprese che avviano la propria attività successivamente all’invio del piano alla Commissione. Per far fronte a questo problema, quindi, il precedente governo si è impegnato ad acquistare sul mercato le eventuali quote mancanti per garantire la competitività dei nuovi entranti rispetto agli esistenti a cui le quote sono state assegnate a titolo gratuito.

Questo atteggiamento irresponsabile – secondo i sostenitori del complotto verde – sarebbe stato accolto con grande entusiasmo non solo dalla Commissione, ma anche dalle aziende francesi e tedesche che, avendo ricevuto più dei propri fabbisogni, disporrebbero di quote da vendere al nostro Paese. Risultato: una spesa pubblica variabile tra i 550 e gli 880 milioni di euro che finirà sulle bollette energetiche degli utenti. Per rimediare all’imperizia del precedente governo, in autunno sia il Presidente Berlusconi che il ministro Prestigiacomo hanno cercato di esercitare pressioni sulla Commissione per ottenere la revisione del secondo piano nazionale. In qualità di capo della segreteria tecnica dell’ex ministro Pecoraro Scanio nonché membro del Comitato di attuazione della Direttiva Ets fino all’agosto 2007, vorrei confutare le fondamenta di questo fantasioso teatrino. Nel primo piano nazionale (2005-07) , il tetto annuale medio è stato di poco oltre i 223 milioni di tonnellate. Problema elementare: se la Commissione aveva già indicato la necessità di portare le emissioni complessive attorno ai 190 milioni di tonnellate l’anno, quale valore può avere il suggerimento di chiedere un tetto annuo di almeno 230 milioni di tonnellate? Ma non basta.

La prima bozza del secondo piano nazionale per il periodo 2008-2012, firmato dai ministri Pecoraro Scanio e Bersani, viene inviata alla Commissione nel dicembre 2006 e prevede un tetto complessivo di 209 milioni di tonnellate l’anno di cui oltre 18 milioni destinati ai nuovi entranti. A maggio 2007 la Commissione rimanda indietro il piano chiedendo di ridurlo di circa 13 tonnellate l’anno portandolo quindi a circa 195 che diventeranno successivamente 201 a seguito dell’ampliamento del campo di applicazione ad altri impianti e attività. Nella revisione del Piano, il Comitato ha deciso di ridurre anche la riserva complessiva dei nuovi entranti di circa 7,5 milioni di tonnellate. Germania e Francia sono effettivamente riuscite ad ottenere quote superiori ai propri fabbisogni, ma solo per il periodo 2005-07, quando a negoziare c’erano gli stessi funzionari del ministero dell’Ambiente ma a guidarlo era il ministro Matteoli.

Visto che la Direttiva Ets non prevede la possibilità di portare in dote al PnaII le quote eventualmente residue del PnaI, l’ipotesi che l’Italia finirebbe per acquistare dalle inefficienti imprese francesi e tedesche è pura fantasia. Non solo: la Commissione nel 2006 ha deciso di rimandare al mittente i piani presentati da 10 Stati membri a cui chiedeva di tagliare almeno del 7 per cento i tetti indicate. Per la Germania ha comportato la riduzione di circa 40 milioni di tonnellate l’anno rispetto a quanto richiesto dalle autorità. La Francia decise di ritirare il proprio piano per ridurre spontaneamente il tetto complessivo. Nel corso della revisione, il Comitato ha anche eliminato il provvedimento che prevedeva che gli impianti a carbone ricevessero a pagamento una parte delle quote proprio per poter consentire di disporre di un fondo da usare anche per questi scopi.

Già con un prezzo del petrolio di 20-25 euro al barile, gli impianti a carbone hanno un margine di guadagno tale da renderli competitivi anche se dovessero pagare per intero le loro emissioni (tre volte superiori a quelle degli impianti cogenerativi a gas). La scelta di eliminare queste misure, avvenuta dopo le mie dimissioni dal Comitato, rappresenta un inutile regalo agli impianti più inquinanti e impedisce all’Italia di poter disporre di risorse per far fronte all’eventuale mancanza di quote per i nuovi entranti. Tra l’altro, il governo italiano ha allungato i tempi in cui si potevano registrare nuovi impianti, dividendo la torta delle emissioni su una quantità maggiore di industrie. Altrove non è andata così. C’è da chiedersi perché.
da Terranews.it