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“L’abisso della Repubblica”, di Massimo Giannini

Trenta metri, per coprire la distanza che separa la Sala della Protomoteca dalla Lancia blindata che aspetta il capo dello Stato per riportarlo al Quirinale. Ma in quei trenta metri, che Giorgio Napolitano e Gianni Letta percorrono insieme parlando del berlusconiano “editto di Bonn”, si apre l’abisso della Repubblica.

Dottor Letta, come mai? Cosa sta succedendo?”, chiede il Capo dello Stato, commentando il violento attacco alle istituzioni pronunciato dal premier al congresso del Ppe. “Presidente, da parte di Berlusconi non c’è nessun attacco nei suoi confronti, ci mancherebbe. Il suo è stato uno sfogo, e si può capire: si sente accerchiato, assediato dalle inchieste giudiziarie, braccato dagli avversari politici e dai giornali. Ha reagito, in modo duro. Ma non c’è nessuna intenzione di sfasciare le istituzioni…”. E questo è tutto. Di più il sottosegretario alla presidenza del Consiglio non sa e non può dire.

Dunque neanche il “dottor Letta”, l’uomo del dialogo, è in grado di spiegare a Napolitano qual è il demone che agita il Cavaliere, e fino a che punto voglia spingersi in questo suo dissennato “conflitto istituzionale permanente”. Neanche il tenace tessitore di mille accordi riusciti o falliti (vedi patto della crostata) riesce a rispondere alla domanda cruciale che il Capo dello Stato gli ha rivolto, e continua a rivolgersi in queste ore di preoccupata, amareggiata riflessione sul Colle: cos’ha in testa, Berlusconi? Cosa spera di ottenere, da questo scontro sistematico con il Quirinale, la Consulta, la magistratura, il Parlamento, l’opposizione, la carta stampata? Qual è lo sbocco di questa guerra “eversiva”, condotta nel cuore delle istituzioni e combattuta dall’esecutivo, contro il giudiziario e il legislativo? Letta non ha una risposta. E per questo Napolitano, oggi, non da altro fuoco alle polveri. Dopo la durissima “censura” dell’altro ieri, il presidente non raccoglie l’ennesima provocazione di Berlusconi, che da Bruxelles lo invita espressamente a preoccuparsi non delle sue mattane, ma piuttosto “dell’uso politico della giustizia”, che è “il contrario della democrazia”.

Il Capo dello Stato si limita a ribadire un appello, già troppe volte respinto: “Basta con le contrapposizioni esasperate”.

Un esorcismo, o poco più. Napolitano è il primo a sapere che questa linea, che i costituzionalisti classici chiamerebbero da “magistratura d’influenza”, con il Cavaliere non serve più. E probabilmente è il primo a sapere che anche la “moral suasion”, che ha operato dai tempi di Einaudi, è ormai inutilizzabile: può funzionare quando c’è “leale collaborazione” tra le istituzioni, e quando c’è “piena condivisione” dei valori costituzionali. Ma tutto questo, nel turbine del “berlusconismo da combattimento”, non esiste più. Il circuito repubblicano, se mai ha funzionato in questa legislatura, è andato irrimediabilmente in “corto”.

A farlo saltare per sempre è stata la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte costituzionale. Quella sì, una “bomba atomica”, per usare una metafora cara al presidente della Camera. Da quel momento, il premier ha ritirato fuori il suo peggiore armamentario culturale e temperamentale, rafforzato dalla solita visione plebiscitaria e populista del potere: spallate al sistema e frustate alle elite, teorema dell’anticomunismo e teoria del complotto.

“Bisogna capirlo…”, è il mantra di Letta. E Napolitano l’ha capito allora, anche se non l’ha giustificato: quella pronuncia della Consulta, a caldo, poteva anche spiegare la “reazione violenta” che in effetti ci fu. Fu dopo quel terribile 7 ottobre che il premier sparò per la prima volta ad alzo zero sul presidente della Repubblica, “che si sa da che parte sta”, e sui giudici della Corte “tutti in mano alla sinistra”. Ma il dubbio che rimbalza sul Colle, adesso, è il seguente: che senso ha riportare l’orologio della politica indietro di due mesi e mezzo, e riaprire il fuoco con la stessa violenza, tanto più in un alto consesso internazionale come il Partito popolare europeo, e al cospetto di capi di governo del prestigio di Angela Merkel. Anche questo dubbio è tornato in ballo, nel breve colloquio con Letta. Condito da una postilla: possibile che il premier, in questi due mesi e mezzo, sulla giustizia non sia stato in grado di elaborare una “strategia minima”, diversa da quella dello scontro frontale? Una riforma del sistema giudiziario è cosa buona e giusta, nell’interesse dei cittadini e dello Stato. Ma qui, di riforma, non c’è traccia. A meno che non si voglia considerare tale, e Napolitano non lo fa, l’inaccettabile “processo breve” o l’ingestibile “legittimo impedimento allargato”.

“Chi svolge attività politica non solo ha il diritto di difendersi e di esigere garanzie quando sia chiamato personalmente in causa… Ha però il dovere di non abbandonarsi a forme di contestazione sommaria e generalizzata dell’operato della magistratura, e deve liberarsi dalla tendenza a considerare la politica in quanto tale, o la politica di una parte, bersaglio di un complotto della magistratura”. In queste ore difficili, il presidente della Repubblica invita a rileggere l’intervento che pronunciò il 14 febbraio 2008, nella seduta plenaria del Consiglio superiore della magistratura, quando parlò dell’opportunità di una riforma della giustizia, ma fissò paletti molto precisi alla politica, chiamata a costruire il terreno propizio al cambiamento, senza logiche punitive o, peggio ancora, ritorsive. “Prediche inutili”, purtroppo, se ascoltate in questi giorni di straordinaria “macelleria costituzionale”.

Ma Napolitano, anche se il Cavaliere ha ricominciato a “sparare sul quartier generale”, non intende arretrare dalla sua trincea del Piave. Per fortuna, con lui regge l’urto anche Gianfranco Fini che da terza carica dello Stato (più che da co-fondatore del Pdl) continua a fronteggiare l’offensiva scomposta del Cavaliere. Anche di fronte all’omertoso silenzio di Renato Schifani, che ha svilito il Senato a banale propaggine di Palazzo Grazioli. Anche di fronte allo scandaloso editoriale di Augusto Minzolini, che ha ridotto il Tg1 a volgare Agenzia Stefani di Palazzo Chigi.

Resta la domanda, sospesa e irrisolta: cos’ha in mente Berlusconi? Se davvero punta a far saltare il tavolo, e a portare il Paese alle elezioni anticipate, deve sapere che al Quirinale non c’è un “notaio” pronto ad eseguire i suoi lasciti. Intanto dovrebbe spiegare agli italiani perché si dovrebbe tornare a votare, compito tutt’altro che agevole anche per un “venditore” come lui. E poi Napolitano rimanda alle sue parole del 27 novembre: “Nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto il consenso dei cittadini-elettori”. Tocca al Capo dello Stato verificare se quella fiducia è venuta meno, se esistono maggioranze alternative o se non resta altra via che lo scioglimento delle Camere. Questo prevede la nostra Costituzione, l’unica “bibbia civile” riconosciuta dalla Repubblica italiana. Almeno fino a quando Berlusconi non sarà riuscito a sfasciare anche quella.
La Repubblica 12.12.09