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“Il nemico è la disoccupazione di lungo periodo”, di Luca Cifoni

ROMA – Alla fine di un anno pieno di cifre e percentuali (di cui molte con il segno meno davanti) il presidente dell’Istat è un po’ preoccupato. Il rischio, se non migliorerà la cultura statistica, è che la confusione aumenti, e il Paese capisca sempre meno quali sono i dati rilevanti su cui basare le proprie scelte. Guardando poi dentro i numeri della crisi economica, Enrico Giovannini fa notare che in assenza di una ripresa rapida, il ristagno dell’occupazione potrebbe avere effetti negativi di lungo periodo.
Presidente, forse mai come nel 2009 il dibattito politico e mediatico si è alimentato di numeri. Che vuol dire?
«Certo, questo è stato un anno anomalo sul piano economico, ma la tendenza ad avere sempre più dati sparati nell’iperspazio dell’informazione non finirà con il 2009. Per tre motivi: perché grazie alla rivoluzione tecnologica produrre dati non è mai stato così facile; perché Internet dà voce a chi non la aveva; e perché i media vanno alla ricerca dei dati più curiosi, che non sono necessariamente i migliori. Tutto ciò pone un problema sul ruolo della statistica pubblica per una democrazia moderna. Ma se non aumentiamo la cultura statistica, la reazione finale dei cittadini sarà: troppa confusione, meglio non leggere più nulla. L’incertezza crea un’attenzione spasmodica non tanto alle cifre del passato, ma alle previsioni. Uno dei primi obiettivi è proprio imparare a distinguere i dati statistici effettivi dalle stime per il futuro. Poi le autorità statistiche pubbliche potrebbero avere il compito di verificare anche le cifre sfornate dai privati. Non si tratta di dire a qualcuno di non produrre certi numeri, ma di avere un luogo in cui si possa discutere di qualità dei dati».

Di chi è la colpa della confusione? Degli statistici, dei media, della politica?
«Tutti abbiamo la responsabilità di fare meglio. Noi dobbiamo sforzarci di farci capire. Anche i mezzi di informazione possono fare tanto e a volte non aiutano. I politici hanno imparato l’importanza dei numeri, ma poi spesso li usano solo nei dibattiti per scagliarli contro gli avversari. In generale, questo è un Paese che invecchia, ma che soffre anche un po’ di Alzheimer. Ha difficoltà a concentrarsi sui temi rilevanti per il futuro. Per tre settimane ne tratta uno come un’emergenza assoluta, poi lo abbandona. Dopo sei mesi torna sullo stesso argomento, ma si è dimenticato di averlo già discusso».

In queste settimane le statistiche più seguite sono quelle sul lavoro. Abbiamo imparato che i tempi dell’occupazione non coincidono con quelli del Pil. Ma quando tornerà il segno positivo?
«Intanto l’Istat ha fatto un passo avanti con il passaggio ai dati mensili sulle forze di lavoro. Quanto alla prospettiva, se la crescita del Pil fosse rapida come è stato il calo, allora potremmo immaginare un riassorbimento rapido della disoccupazione; se invece, come dicono i centri di ricerca, la crescita sarà lenta, anche il recupero dei posti di lavoro lo sarà. E questo può avere un impatto sulla situazione economica a lungo termine. Un prolungato periodo di crescita lenta, con persone che escono dal mercato del lavoro e non rientrano, o con giovani disoccupati per un lungo periodo di tempo, rischia di cambiare l’atteggiamento di fondo verso la vita e la società. Servono politiche della formazione per rendere le persone attive, non solo per ricreare posti di lavoro ma per contrastare questa tendenza».

Il dato statistico forse più discusso in assoluto è l’inflazione. Ora che il tema è un po’ meno caldo, si sente sollevato?
«Vorrei fare una riflessione. Cosa sarebbe successo se avessero avuto ragione quelli che qualche anno fa parlavano di inflazione al 20 per cento, cioè di una caduta del reddito reale del 17? Questa crisi, in cui con un calo del Pil del 5 per cento un po’ di effetti negativi li abbiamo sperimentati, dimostra ex post che le statistiche dell’Istat sui prezzi erano corrette, perché altrimenti avremmo visto sfracelli che per fortuna non ci sono stati».

Si arriverà a inflazioni differenziate per le varie categorie sociali?
«No. Se noi rileviamo gli stessi prezzi in tutta Italia e poi ci limitiamo a ponderarli con le diverse strutture della spesa, non otteniamo scostamenti significativi. Le differenze, ad esempio tra anziani e giovani, non dipendono solo dalla composizione della spesa, ma dal posto in cui si fanno gli acquisti, dalla tipologia dei beni all’interno della stessa categoria. Bisognerebbe costruire rilevazioni che tengano conto fin dall’inizio di tutto ciò. Se l’Italia spendesse per la statistica quanto spende la Francia, ci si potrebbe pensare. Ma visto che non è così, anzi siamo gli ultimi in Europa, questo lavoro non è immaginabile, con le risorse che ci sono».

Anche lei si lamenta dei tagli?
«Io dico solo una cosa. A ottobre 2011 si dovrebbe fare il censimento della popolazione e delle attività economiche. Ma non c’è ancora il finanziamento, mancano 500 milioni. È un lavoro che coinvolge ottomila Comuni, migliaia di rilevatori che vanno formati. Siamo quasi fuori tempo massimo. Tra l’altro non fare il censimento costa più che farlo: la materia ora dipende da un regolamento comunitario, per chi non è in regola scattano sanzioni crescenti. Credo che alla fine le risorse arriveranno, ma perché ci dobbiamo sempre ridurre all’ultimo minuto?».

Il Messaggero, 14 dicembre 2009