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“Spartacus, la madre di tutti i processi, per i Casalesi arriva la paura della fine”, di Roberto Saviano

NEI prossimi tre giorni si chiuderà dopo undici anni il terzo e ultimo grado del Processo Spartacus. È un evento epocale che rischia di passare inosservato, sotto silenzio. Come un normale ingranaggio giudiziario che volge al termine. Il processo Spartacus è il più grande processo di mafia della storia della criminalità organizzata in Europa, paragonabile solo al Maxi Processo contro Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Un processo che ha visto complessivamente 1.300 indagati, seicentoventisei udienze complessive, 508 testimoni sentiti, più 24 collaboratori di giustizia, 90 faldoni di atti acquisiti. Una inchiesta-madre che ha generato decine di processi paralleli: omicidi, appalti, droga, truffe allo Stato. Questa sentenza che avverrà a Roma, alla Corte di Cassazione, potrebbe sancire un pezzo di storia non solo giudiziaria del sud ma dell’intero paese. Se la Corte dovesse confermare le condanne del secondo grado, sarebbe l’ultima parola: in terra casertana esiste un clan egemone, al tempo stesso feroce e imprenditoriale.

Un punto di non ritorno. Non si potrà più dire – come molti collegi difensivi dei clan hanno fatto negli ultimi anni – che non esiste la camorra. Che ci sono solo sottoculture della violenza, che i pentiti inventano storie per attaccare concorrenti politici o imprenditoriali. Il clan spera che possa essere annullata in Cassazione la sentenza di secondo grado. Se dovesse accadere, bisognerà rifare tutto da capo. Per un processo iniziato il primo luglio del 1998 e che arriva al terzo grado alla fine del 2009, significa rifare un lavoro enorme. I Casalesi sperano soprattutto nello scadere dei tempi di custodia cautelare. Qualora invece la Cassazione dovesse confermare, la leadership storica dei Casalesi avrebbe la sua condanna definitiva. Non ci sarebbero più istanze di remissione, cavilli, vizi di forma. È tutto lì. È storia.

Tre gradi di giudizio a sancire definitivamente con gli ergastoli qual è stato il modo in cui i Casalesi hanno assunto il potere e hanno interpretato il loro modo di dominare il territorio e il loro modo di fare impresa. Chiuso questo processo significherà potersi occupare del presente, e non più dei vent’anni scorsi di dominio camorrista. È solo l’inizio del contrasto, non la fine.

A partire da Francesco Schiavone. Il capo riconosciuto. Colui che in questi anni dal carcere ha atteso, gestito, controllato tutte le diatribe interne, avallato ogni decisione. Colui che ha cercato di non innescare guerre tra le diverse anime del clan, arrivando – nonostante il regime di carcere duro lo vieterebbe – persino a scrivere sulle prime pagine dei giornali locali dando indicazioni su come comportarsi. È lui che vedrebbe per sempre dietro le sbarre il suo destino. Francesco Schiavone detto Sandokan non avrebbe altra strada che collaborare con la giustizia. Ha cinquant’anni e non gli rimarrebbero che due alternative. Pentirsi o morire in galera. Il figlio Nicola si vede poco in paese, è sempre fuori, come si stesse preparando alla latitanza. Su di lui ancora non pendono mandati di cattura. Le informative lo indicano chiaramente come il reggente del clan, ma può ancora andare a parlare col padre, può ancora gestire gli affari. É lì, libero di farlo, nonostante le intercettazioni lo segnalino come colui che deve decidere al posto del padre.

Il clan ha gli occhi puntati sulla famiglia Schiavone. L’annuncio di Sandokan – pubblicato qualche mese fa e poi smentito – di voler allontanare i figli da Casal di Principe, era stato letto con ansia. Se il capofamiglia si pentisse, sarebbero i figli i primi a sparire. Quindi i fedelissimi di Sandokan guardano ogni loro allontanamento come possibile segno di tradimento del capo in carcere. Eppure se quello che in paese ormai tutti non chiamano più come l’eroe salgariano ma semplicemente “Ciccio o’ barbonè ” decidesse di collaborare, allora potrebbe non morire in galera. Allora potrebbe svelare decenni di storia imprenditoriale e politica italiana. I rapporti con le banche, i politici costruiti con i suoi voti, il ciclo del cemento in Emilia-Romagna e nel Lazio, gli appalti dell’alta velocità, la coca che alimenta le betoniere, i rifiuti tossici di mezzo paese dislocati dove sa solo lui. Sandokan pentito permetterebbe alla sua famiglia di poter vivere protetta e non sotto assedio come ora. Persino di andare incontro a un destino diverso, visto che i figli sembrano essere ormai sulla strada del padre: potere, galera e morte. Non solo Nicola Schiavone ma anche Emanuele, arrestato a Riccione per un panetto di hashish, usato per adescare le ragazzine. Lui, rampollo diciottenne di uno dei gruppi imprenditoriali più potenti d’Europa, capace addirittura di raggiungere, secondo le stime della Dda, un fatturato di trenta miliardi di euro, viene pizzicato come l’ultimo dei pusher in giro per le discoteche romagnole. Ai poliziotti che lo arrestano, dichiara: “Sono il figlio di Sandokan”. Cerca di impaurirli e non ci riesce.

Questo episodio, secondo quanto si ascolta a Casal di Principe, ha innescato nelle famiglie di camorra del Casertano il commento che Giuseppina Nappa, la moglie di Sandokan, dovendosi occupare troppo degli affari giudiziari del marito, non ha educato bene i figli. Così le sono usciti “i figli drogati”. L’immagine degli Schiavone continua a perdere credibilità presso le altre famiglie. Se venissero confermate le condanne, Nicola Schiavone, l’erede al trono, sarà sicuramente più debole. Sino ad ora ha avuto rispetto automatico, perché Sandokan era considerato re e poteva ancora uscire di galera. Ma dopo una condanna all’ergastolo definitiva, Francesco Schiavone finirà prima o poi per diventare un detenuto che porta lo stesso nome di tanti altri. Mentre chi è rimasto fuori e sino alla sentenza definitiva era viceré, ora vorrà essere re. E per divenire re, dovrà schiacciare i figli di Sandokan.
In attesa di questo verdetto solo una cosa è certa. Non calerà mai più il silenzio su quegli affari. O meglio: non lo faremo mai più calare. I boss di Casal di Principe hanno sperato che prima o poi l’attenzione tornasse confinata alla cronaca locale, alle pagine dei giornali di provincia. E quel che per loro è una speranza, per noi è un rischio sempre vivo.

Quel che ha fatto negli ultimi tempi il Ministro Maroni non si era mai visto negli anni precedenti e va riconosciuto. Il suo “Modello Caserta” è stato utile e necessario per segnalare per la prima volta la forte volontà dello Stato italiano di essere presente su quel territorio, di volerlo controllare, di volersene riappropriare. Questo è ancora più importante dei vari successi ottenuti dalle forze dell’ordine, dei singoli arresti effettuati. Ma la battaglia è lunghissima e ora si è davvero solo all’inizio. Non bisogna, infatti, farsi troppo fuorviare dagli arresti. Si tratta spesso degli scarti degli stessi clan, di frange isolate, persone che ormai hanno fatto quel che dovevano. É possibile farne a meno o rimpiazzarli con altri. O vecchi narcotrafficanti in pensione, o persino killer feroci ma strafatti come quelli del gruppo Setola, serviti in un certo momento per una strategia del terrore ma non rappresentativi di ciò che rimane ancora oggi la vera forza e l’anima del clan, che è l’anima economica; utile e più facile falciare ed arrestare il livello militare, molto più complicato fermare il livello economico e soprattutto svelare i nodi dove si intrecciano imprenditori legali e camorra.

Per il clan dei Casalesi sono lì ancora fuori a comandare Michele Zagaria e Antonio Iovine. Scorazzano da dodici anni tra l’Emilia Romagna, Roma, la Romania, gestiscono il business. É attraverso il business che il clan controlla il territorio casertano e arriva ovunque, sia in qualsiasi parte d’Italia e anche oltre, sia nelle sfere dell’economia che dovrebbe essere pulita, della finanza, della politica. È fondato sul business il suo dominio. Il ciclo del cemento, la gestione dei rifiuti, i centri commerciali, le sale bingo, gli alberghi e le fabbriche nell’est Europa. Tutto questo è ancora intatto.

Il nome di questo processo è Spartacus. Il nome dello schiavo che si ribellò a Roma. L’unico uomo che sia mai riuscito insieme a un manipolo di schiavi ad arrivare alle porte della capitale dell’impero, con il solo obiettivo di riacquistare la libertà. É cosa bizzarra per un processo, prendere il nome da un ribelle. Però a sud la vera ribellione è la legalità. La legalità contro l’impero, “la dittatura armata della camorra” come la chiamava don Peppino Diana.

Siamo convinti che oggi infrangere la pax casalese significhi preparare le condizioni perché ci possa essere maggiore libertà anche a Roma a Milano a Reggio Emilia. Addirittura a Bucarest o a Berlino. Per questo siamo sicuri di una cosa semplice: non ci sarà più quella che loro chiamavano pace, e che noi invece chiamiamo silenzio, non ci sarà più in paese quella che loro chiamavano serenità, e che noi invece chiamiamo omertà. Non permetteremo, fino a quando il meccanismo camorristico non sarà debellato, sconfitto, eliminato, che la luce si spenga su queste terre, che torni quell’ombra che copriva affari e dominio. E ascolteremo con indifferenza chi vorrà definire diffamante raccontare e scrivere libri sul potere criminale. Perché abbiamo invece la certezza che solo raccontando, analizzando, scrivendo, condividendo, si possa capire e far conoscere. E siamo oggi più che mai convinti che solo la conoscenza possa permettere un’azione davvero efficace. Fino a quando ci sarà sangue nelle vene e aria nei polmoni, noi andremo avanti. Qualunque sia il verdetto che verrà emesso e qualsiasi ne siano le conseguenze politiche e umane che raccontare di mafia oggi in Italia comporta.

La Repubblica, 14 dicembre 2009