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I Grandi si sono arenati sul “Vorrei ma non posso”, di Pietro Greco

Mentre a Copenaghen i negoziati procedono a oltranza e tutto è ancora da scrivere, possiamo trarre un primo e – per forza di cose – provvisorio bilancio della quindicesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 15). Il primo dato è che i rappresentanti di 193 Paesi hanno riconosciuto, per usare la parola di Barack Obama, che «i cambiamenti del clima non sono fantascienza, ma scienza» e che «il pericolo è reale ». Con Copenaghen il problema non è più il «se» agire per contrastare gli effetti indesiderabili dei cambiamenti climatici accelerati dall’uomo, ma è: «quanto», «quando » e «come» agire. Solo un anno fa George W. Bush e gli Usa ancora ne contestavano l’esistenza. Oggi il mondo intero riconosce che il problema esiste e che bisogna risolverlo. Non è poco. Ma non è ancora abbastanza. Copenaghen, la città della conferenza, non si è trasformata in Hopenaghen, la città della speranza. Un altro passo significativo – stando alla bozza di accordo politico che circolava ieri sera a tarda ora – è aver accettato la cornice entro cui la comunità scientifica incardina un’azione radicale, ma realistica sul «quanto »: contenere l’aumento della temperatura entro e non oltre 2 °C per fine secolo (e possibilmente entro 1,5 °C). Porsi in questa prospettiva è importante, perché ha notevoli influenze sul «quando» e sul «come». Purtroppo i negoziatisi sono arenati sui tempi e, in parte, sulle modalità dell’azione. Gli scienziati dicono che per non superare il limite dei 2 °C entro il 2100 occorre che il picco delle emissioni di gas serra sia raggiunto non oltre il 2025 o il 2030. E che entro il 2050 ci sia un taglio netto delle emissioni globali di gas serra non inferiore al 50%. Il che significa che i Paesi ricchi devono abbattere le proprie emissioni del 20/30% entro il 2020 e dell’80% entro il 2050 rispetto al valore di riferimento del 1990. Quanto ai Paesi a economia emergente o ancora in via di sviluppo devono rallentare le loro emissioni al più presto e tagliarle del 50% entro il 2050. L’Europa si è detta disponibile ad accettare questo calendario. Gli Usa e la Cina no. L’altra grande spiaggia su cui si è parzialmente arenato il negoziato è quella del «come». E in particolare sul trasferimento di risorse dai Paesi ricchi ai Paesi, per tenere conto delle diverse responsabilità storiche e attuali. Il principio è stato accettato. Anche sui soldi da trasferire c’è un sostanziale accordo: si parte da 10 miliardi di dollari l’anno subito per salire a 100 miliardi di dollari l’anno nel 2020. Ma i Paesi poveri vogliono, giustamente, che questi soldi siano nuovi e aggiuntivi rispetto agli aiuti già erogati (21 miliardi circa nel 2009) e possibilmente pubblici. Gli Usa e l’Europa chiedono che sia possibile verificare sia l’uso dei fondi sia la reale azione di ogni Paese. La Cina non accetta volentieri l’idea di verifiche intrusive sul suo territorio. La somma dei «vorrei ma non posso» soprattutto di Usa e Cina rimanda a un indeterminato futuro la stesura di uno o più strumenti legali vincolanti. Siamo a due soli passi da un accordo soddisfacente. Ma a Copenaghen nessuno ha detto se, dove e quando quei due passi verranno effettuati.
L’Unità 19.12.09