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“Il numero perfetto dei politici locali”, di Gilberto Muraro

La Finanziaria 2010 taglia del 20 per cento i consiglieri comunali ed elimina i consigli di quartiere. Una larga rappresentanza locale è espressione e strumento di partecipazione alla vita comunitaria, soprattutto se è a basso costo. Altrettanto evidenti sono però gli svantaggi e le degenerazioni. E allora può essere giustificato anche lo sfoltimento forzato. Ma una soluzione uniforme e imposta dal centro è contraria allo spirito federalista. Tanto più che la legge sul federalismo fiscale già prevede un costo standard della rappresentanza politica. Basterebbe evidenziarlo.

Prima era un taglio obbligatorio di oltre il 30 per cento dei consiglieri e assessori comunali e provinciali; poi, il taglio è diventato una raccomandazione, a fronte di una riduzione dei trasferimenti centrali agli enti locali; ora è tornato obbligatorio nella misura del 20 per cento dei consiglieri comunali, con il vincolo aggiuntivo di un rapporto tra assessori e consiglieri non superiore a un quarto nei comuni e a un quinto nelle province; e inoltre via i consigli di quartiere. Nelle riscritture della Finanziaria si è andati avanti e indietro, e non è escluso che la discussione in aula, per quanto condizionata da un testo blindato, porti ulteriori cambiamenti. Per ora, comunque, il taglio c’è: attenuato rispetto ai propositi originari, ma pur sempre pesante. A regime, infatti, dovrebbero saltare circa 35mila poltrone locali, oltre a 10mila “sedie” nei quartieri.

PREGI E LIMITI DELLA RAPPRESENTANZA LOCALE

Ma è bene o male che la rappresentanza locale si riduca? Non è facile rispondere. A favore di una larga rappresentanza, si può dire che è espressione e strumento di partecipazione alla vita comunitaria. È in sede locale che cresce la democrazia come concreta gestione della res publica. Rispetto all’arena nazionale, la dimensione locale offre meno spazio ai contrasti ideologici e più spazio al confronto sulle cose, all’analisi dei costi e benefici dei progetti, agli impegni precisi e alle verifiche inoppugnabili. In sede locale è più facile coniugare lavoro proprio e impegno politico; si evita così che la partecipazione diventi sempre professionismo, un ingrediente inevitabile e forse anche positivo della politica, ma nella giusta dose e senza che respinga gli apporti temporanei degli esponenti della società civile. Si sa poi che è necessario sviluppare le iniziative collettive di origine volontaria, in nome della sussidiarietà orizzontale, il che richiede che alla comunità si dedichino molte persone e che vi sia osmosi tra azioni pubbliche in senso stretto e azioni volontarie; e una larga rappresentanza politica può facilitare la crescita del volontariato e il suo rapporto con il governo locale. Infine, il costo degli assessori e soprattutto dei consiglieri è in molti casi esiguo, perché l’incarico viene svolto come impegno etico che chiede ben poco oltre al rimborso spese.
C’è ovviamente il rovescio della medaglia nella larga rappresentanza: decisioni che ritardano e si complicano per accontentare un maggior numero di persone; contrasti che si alimentano per difficoltà di stabilire i confini tra assessorati e per necessità di differenziarsi tra consiglieri; tentazione diffusa di dilatare i confini del settore pubblico per giustificare l’alto numero dei rappresentanti. E poi il costo che lievita: come compensi e rimborsi spese, se si sta nella fisiologia del potere (con persone che anche sui bassi ruoli politici ci campano, altro che volontariato); e come illeciti guadagni nelle procedure di autorizzazione, se si entra nella patologia. Con l’aggravante che spesso i costi diretti e indiretti sono più alti nelle aree del paese che meno se lo potrebbero permettere.

LE REGOLE DEL FEDERALISMO

Se fosse concesso di scegliere solo tra regole rigide, il timore della casta prevarrebbe sul fascino della partecipazione appassionata a basso costo. Meglio quindi un dimagrimento forzato e generalizzato. Ma la soluzione uniforme e imposta dal centro è contraria allo spirito federalista, ed è il caso di ricordarlo pure alla Lega. Inoltre, non è necessaria. Importante è che le decisioni autonome non impongano oneri agli altri, sotto forma di costi che l’ente locale non ce la fa a sostenere e addossa pertanto ai trasferimenti perequativi. La scelta giusta sta quindi nel determinare a livello centrale uno standard per il costo della rappresentanza politica, commisurato a popolazione e territorio, e tenere quello come riferimento nel conto del dare e dell’avere tra aree a fini di perequazione: l’ente che risparmia, si tiene il guadagno; quello che spende di più, perché vuole molti rappresentanti o li compensa meglio, è libero di farlo, però con le risorse proprie. Ma a ben vedere, questo c’è già nella legge sul federalismo. Sarebbe forse opportuno evidenziarlo, enucleando dal fabbisogno standard per l’insieme delle funzioni fondamentali la specifica voce relativa alla rappresentanza politica, in modo da avvisare in modo molto chiaro sia gli elettori che i loro rappresentanti .
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