attualità

“Sistema paese: quattro ponti per le riforme”, di Michele Ainis

Una statuetta del duomo di Milano ha schiuso i battenti alle riforme, anche se avremmo preferito uno strumento meno contundente. Però il suo effetto è stato pari a un sedativo per i bollenti spiriti che fin qui impedivano qualunque trattativa. Da un giorno all’altro destra e sinistra parlano all’unisono: la Costituzione si può modificare. In quali norme, con quali presupposti? Si vedrà, non è un problema.
Per il momento la discussione gira attorno al metodo, alla modalità più rapida e sicura; e anzi i più sostengono che una procedura vale l’altra, tanto ciò che conta è l’intenzione. Errore: in queste faccende il successo dipende dal percorso sul quale s’incamminano i viandanti. Ecco allora una mappa, o meglio un vademecum, con il profilo delle diverse soluzioni. A occhio e croce sono quattro, come gli elementi del nostro pianeta.

Assemblea costituente. È l’indicazione più alla moda: la propongono Cossiga, Frattini, Buttiglione, un drappello di ex socialisti fra i quali spiccano Martelli e Formica, nonché vari altri esponenti della prima e della seconda Repubblica. Non che l’idea sia particolarmente originale: nel dicembre 2000 ci aveva fatto un pensierino pure Silvio Berlusconi. Andando più a ritroso, possiamo rievocare il messaggio al parlamento di Cossiga nel 1991; i Cobas (Comitati di base per l’assemblea costituente) fondati da Segni nel 1996; la proposta d’eleggere una Costituente in contemporanea alle europee del 1999, subito appoggiata dal presidente della Camera Violante; le analoghe proposte di Mancino (all’epoca presidente del Senato), Martinazzoli, Veltroni. Domanda: e allora perché, figlia di cotanti padri, la fanciulla non è mai andata in sposa? Risposta: perché le Assemblee costituenti vengono generate dalla storia, non dai colpi d’ingegno. Hanno il potere di riedificare su nuove fondamenta la società politica e civile, e dunque s’affacciano quando il terreno è ingombro di macerie, dopo una guerra, una tirannia, un’indipendenza nazionale pagata con il sangue degli eroi. Ma c’è una guerra nelle nostre strade? No, e sarebbe meglio non evocare i suoi fantasmi.

Bicamerale. Qui i tifosi sono meno numerosi, anche se vi figura un nome illustre come Giulio Tremonti. La ragione di questo scarso appeal dipende a sua volta dalla storia, o meglio dall’esperienza che ne abbiamo maturato durante gli ultimi decenni: tre tentativi, tre fiaschi solenni. Nell’ordine: la Bozzi (chiuse ingloriosamente i propri lavori nel 1985), la De Mita-Iotti (istituita nel 1992), la D’Alema (nel 1997). Vogliamo riprovarci? Vogliamo davvero battezzare un altro parlamentino di senatori e deputati, come se due Camere non fossero abbastanza? Se sarà questa la nostra decisione, dovremo tuttavia confezionarla attraverso una doppia pre-decisione. In primo luogo, sui poteri della Bicamerale (quella presieduta da Aldo Bozzi aveva semplicemente compiti di studio e di progettazione). In secondo luogo, sulla procedura per istituirla. Se infatti desideriamo conferirle poteri straordinari, se dunque intendiamo derogare al normale procedimento di revisione disciplinato nell’articolo 138, saremo costretti in ogni caso a scrivere una legge costituzionale che introduca l’eccezione. In altre parole, dovremo usare l’articolo 138 per liberarci dell’articolo 138. Ma di questi tempi il rischio è d’impiccarci sui cavilli, senza mai montare sul cavallo.

Convenzione. È una via di mezzo fra Costituente e Bicamerale, perché verrebbe eletta fuori dal parlamento (senza l’autoreferenzialità della Bicamerale), tuttavia lasciando al parlamento l’ultima parola. Questo, almeno, nella versione proposta dalla fondazione Donat Cattin nel 2002 (con il plauso di Berlusconi e di Fassino, a quel tempo segretario dei Ds), sulla falsariga della Convenzione europea presieduta da Giscard d’Estaing, che nel 2003 ha steso un progetto di Costituzione per l’Europa. Nel 2007 Amato rilanciò l’idea con alcune varianti marginali; nei giorni scorsi l’ha rilanciata a sua volta Calderoli, concependola però come organismo parlamentare integrato da rappresentanti del territorio. Insomma, grande confusione sotto i cieli. Per orientarci fra le cose e le parole (si chiama Convenzione anche la Cedu, il testo che protegge le libertà fondamentali), è utile rievocare l’archetipo di quest’assemblea legislativa. In origine era la Convention nationale, operò a Parigi fra il 1792 e il 1795, ne fece parte pure Robespierre. Lui però finì ghigliottinato per ordine della stessa Convenzione: non è un buon viatico per gli aspiranti candidati.

Procedura ordinaria. È una soluzione meno eroica, che difficilmente consegnerà ai libri di storia i suoi protagonisti. Sarà per questo che fatica a trovare dei padrini, se si eccettua qualche esponente dell’opposizione, e il solo Cicchitto tra le fila della maggioranza. Tuttavia avanzare attraverso riforme chirurgiche e puntuali, rispettando il metodo scolpito nell’articolo 138 della Costituzione, presenterebbe un arco di vantaggi. In primo luogo, eviteremmo di delegittimare ulteriormente la Carta del 1947, inventando organi e poteri straordinari per la sua manutenzione. In secondo luogo, potremmo spacchettare la riforma per oggetti omogenei, distinguendo per esempio la giustizia dalla forma di governo; ne guadagneremmo in chiarezza, e ci guadagnerebbero pure gli elettori durante il successivo referendum, che a quel punto s’articolerebbe su altrettanti quesiti, anziché su un prendere o lasciare in blocco. In terzo luogo, appesantire l’iter di questa revisione con procedure e passaggi eccezionali significa moltiplicarne i rischi, le trappole sulla sua riuscita. In quarto luogo, e soprattutto: l’impianto della nostra Carta è ancora valido, non serve una rivoluzione. Serve, piuttosto, una ristrutturazione.