cultura

“La tradizione al tempo del consumismo. Veglia e cibo un rito antico”, di Marino Niola

Notte magica, notte da presepe che sospende il corso del tempo e l´ordine del mondo. Alla vigilia di Natale gli animali parlano e gli uomini ammutoliscono. Lo raccontano le leggende popolari di tutta Europa. E soprattutto lo racconta quel poeticissimo apocrifo che è il Protovangelo di Giacomo: “tutte le cose in un momento furono distratte dal loro corso”. Tutti gli esseri del creato restano immobili, in vigile attesa della nascita del dio e della vittoria annuale del sole sulle tenebre. Proprio questo significa in origine la parola vigilia, vegliare ritualmente su un passaggio decisivo. Astronomico o religioso. Che sia la notte di Natale o quella di Capodanno. In ogni caso veglioni. Momenti in cui la condivisione del cibo diventa simbolo unificante. Per i credenti un modo di realizzare il contatto con il sacro attraverso la via dei sensi. Per i non credenti una celebrazione del legame sociale, una festa degli affetti. Cui non ci si può sottrarre.
Non a caso i due cardini della tradizione natalizia sono la famiglia e la tavola. Entrambe sacralizzate dal mangiare insieme le cose di sempre. Dove la riproposizione del menù della tradizione, oggetto di un´autentica mitologia domestica, trasforma la semplice abbuffata festiva in eccesso rituale. Oggi temuto da molti ma evitato da pochi. Perché in realtà si tratta di un´orgia obbligatoria, di una liturgia della gola. Che rivela lo stretto intreccio tra piena esultanza dell´anima e l´esultanza piena del corpo.
Proprio come avveniva nel mondo antico dove la cerimonia principale della polis consisteva in un banchetto di vigilia chiamato “sacrificio”, fatto di cibi offerti simbolicamente agli dei. La scelta delle pietanze, i tipi di cottura, la successione delle portate obbedivano a un rigoroso palinsesto cerimoniale. Carni, legumi, pesci, dolci, formaggi, frutta secca. I convitati erano tenuti ad assaggiare di tutto un po´ anche a costo di scoppiare. Allontanarsi dalla tradizione sarebbe stato considerato un sacrilegio, una messa in discussione del patto identitario. Tutti, anche i più poveri dovevano essere ammessi alla grande abbuffata.
Queste forme di gastronomia sacralizzata caratterizzano anche le nostre vigilie e hanno fatto nascere nei secoli delle singolari forme di previdenza festiva. Come i Goose Clubs dell´Inghilterra vittoriana e i Christmas Clubs americani del primo Novecento, salvadanai popolari, che con il versamento durante l´anno di qualche spicciolo a settimana garantivano a tutti di potersi concedere la strippata natalizia. Anche nelle nostre città si usava lasciare ogni giorno ai negozianti di alimentari delle piccole somme a mo´ di anticipo. Costituendo così un credito da spendere tutto d´un botto per imbandire un cenone come Dio comanda. Detto in altri termini, per osservare il diritto-dovere di consumare il banchetto rituale in ogni sua sequenza.
E perfino in un tempo secolarizzato come il nostro in cui lo spirito della festa sembra ridursi alla frenesia consumistica, i nostri opulenti menù festivi sono in realtà la versione postmoderna delle orge sacre di un tempo. Niente carne né grassi animali per rispettare i divieti conciliari, ma in compenso cascate di salmone, deliri di frutti di mare, trionfi di ostriche, maree di branzini. È il magro che si rovescia nel suo contrario e realizza in termini moderni quel cortocircuito orgiastico fra astinenza e abbondanza, fra rigore e spreco. Quel consumo del sacro che è l´essenza di ogni vigilia.
La Repubblica 24.12.09