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“La doppia punizione”, di Giovanna Zincone

Che le condizioni di vita nelle carceri italiane siano intollerabili è cosa nota da fin troppo tempo. Le ragioni sono molte e si collegano tra loro a catena. La più ovvia è la insufficiente capienza delle strutture penitenziarie esistenti, accoppiata alla loro obsolescenza. E’ un’insufficienza che si riproduce puntualmente, e alla quale troppo spesso si è posto rimedio con amnistie e indulti. In questo momento ci sono circa un terzo di posti in meno rispetto al fabbisogno. Il sovraffollamento è certamente un’ovvia causa del degrado delle condizioni di vita dei detenuti, sia perché riduce gli spazi fisici nelle celle, sia perché riduce la sia pur limitata e controllata libertà di cui in carcere ancora si dovrebbe godere.

Dove i detenuti sono troppi, anche il tempo e la possibilità di movimento all’aria aperta nei cortili si riducono, i colloqui con i parenti sono contratti, il lavoro in carcere (colpito anche dalla crisi) diventa un miraggio. A sua volta l’affollamento ha varie cause. Quindi affrontarlo, come ha previsto il governo, con un piano speciale di edilizia è una misura necessaria, troppo a lungo rinviata, ma non sufficiente. Costruire nuove carceri, costruirle in modo che siano più vivibili, differenziare i luoghi di detenzione, ridurre il ricorso alla detenzione sono rimedi necessari. Bisogna smettere di applicare l’etichetta «reato» a qualunque comportamento che non risponde appieno alle aspettative della cultura prevalente, mi riferisco ad esempio al consumo personale di sostanze stupefacenti. Si pensa così di soddisfare la richiesta di sicurezza e di ordine che viene dall’opinione pubblica, lo si fa con la speranza di incassare qualche consenso elettorale in più, ma i costi della penalizzazione a oltranza poi si pagano.

Ma c’è un costo più alto che si paga con una corsa gridata, e non meditata, alla repressione. Un ragionevole richiamo all’ordine può trasformarsi e si sta trasformando in qualcosa di culturalmente molto rischioso: da una parte la disumanizzazione del reo, reale o anche solo potenziale, dall’altra l’innalzamento al di sopra delle regole del tutore dell’ordine. Si raffigura come pericolo pubblico il criminale incallito e poi, allargando il cerchio, chi ha commesso solo una piccola infrazione della legge e poi, allargandolo ancora, chi ha lo stigma di potenziale delinquente perché ha l’aspetto fisico di un immigrato o perché è vestito come i ragazzi dei centri sociali – e nel corso di questo processo tutte queste ben diverse figure sociali vengono più o meno consapevolmente percepite come individui spogliati del diritto al rispetto, persino del diritto alla integrità fisica.

Quella persona perde il diritto a non essere umiliato, a non essere picchiato, a non essere privato di assistenza medica. Al contrario, se a commettere violenze e soprusi sono esponenti delle forze dell’ordine, scatta l’obbligo di solidarietà, a cui si aggiunge spesso anche un occhio di riguardo da parte delle corti che se non altro «derubricano» il caso facendolo slittare verso un reato meno grave. Alcuni eventi recenti, con il caso del giovane Cucchi picchiato brutalmente e non curato, hanno finalmente richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica, altri sono stati sollevati in anni recenti dalle madri delle vittime, ma chiunque abbia avuto anche una conoscenza marginale delle carceri sa che non si tratta di episodi isolati. Così come non può non suonare allarmante il dato alto dei suicidi in carcere: è un segnale di condizioni intollerabili. Più in generale, alcune carceri sono luoghi dove troppo spesso il più forte, ad esempio il gruppo di detenuti più potente, può esercitare un potere arbitrario, distruttivo nei confronti dei compagni più deboli, in assenza di una vigilanza neutrale e forte.

D’altra parte ci sono carceri italiane gestite con metodi innovativi, competenza e umanità. Si capisce quindi che, proprio in questi giorni in cui il Natale dovrebbe dare maggiore luce al messaggio cristiano di riconoscimento comunque e verso chiunque delle ragioni dell’umanità, siano alti esponenti della Chiesa a fare sentire la loro voce a difesa di chi vive tragicamente indifeso nelle carceri italiane. Accanto ai cardinali Bagnasco e Tettamanzi, si sono fatti sentire i radicali di «Nessuno tocchi Caino». Rivendicano giustamente il diritto al rispetto umano anche per chi non ne ha avuto per gli altri. Un apparato statale che lasciasse i colpevoli diventare vittime di violenze e soprusi acquisterebbe il loro stesso volto. E dovremmo allora chiederci: chi è davvero Caino?
La Stampa 27.12.09

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Tettamanzi: «Sconcertato per condizioni San Vittore»

«Pena e sconcerto» per la situazione del carcere milanese di San Vittore, dove vi sono condizioni di «squallore intollerabile»: così si è espresso il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, nell’omelia della Messa di mezzanotte a Natale in Duomo.
«L’altro ieri – ha affermato – ho voluto passare a visitare e benedire le celle di numerosi detenuti a San Vittore. Ho provato tanta pena, anzi un vero e proprio sconcerto per quanto ho visto con i miei occhi. Non posso dimenticare le parole di un detenuto ‘Sì la giustizia deve fare il suo sacrosanto percorso e al colpevole la pena è dovuta, ma le condizioni abitative, nelle loro più elementari esigenze, non possono essere ingiustamente offensive della dignità personale di chiunque’. E concludeva ‘In questo modo ci strappano via la nostra dignità umana!’». Da qui, conclude Tettamanzi, la necessità di «gesti di solidarietà per rimediare, come e dove è possibile, a situazioni di squallore intollerabile».
Il Sole 24 Ore 27.12.09