cultura, partito democratico

“Cosa insegna quella cultura azionista”, di Giunio Luzzato

“Ho fatto un errore, e devo riconoscerlo»” Per una persona come Massimo D’Alema una dichiarazione come questa, fatta nel colloquio con Giovanni Maria Bellu pubblicato dall’Unità il 24 dicembre, è molto inconsueta.
In tale colloquio, mentre ha puntigliosamente difeso tutti gli altri punti della precedente intervista al Corriere della sera sulla quale si sono sviluppate intense polemiche, D’Alema ha affermato che il suo accostamento dell’antipolitica all’ “azionismo” era stato “improprio e frettoloso”.
È giusto prendere atto del passo indietro, ma poiché, a destra come a sinistra, ci si trova spesso davanti a esorcizzazioni della “cultura azionista” vale la pena di cercare di comprendere le ragioni di questo fenomeno.
Un fantasma sembrerebbe cioè aleggiare sull’Italia, e danneggiarne le sorti che in assenza di esso potrebbero essere invece, grazie ad astuti compromessi, magnifiche e progressive: il Partito d’Azione scomparso da oltre sessant’anni. E la corrispondente cultura, quella del rigore nel perseguimento della Giustizia con la Libertà.
Scriveva Carlo Rosselli: “Il fascismo è stato l’autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell’unanimità, che rifugge dall’eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo.” Sono parole del 1929, ma è sufficiente sostituire “fascismo” con “berlusconismo” per trovare in esse una piena attualità. In questa deplorazione per l’assenza di lotta non vi è alcun “odio” nei confronti del dittatore di ieri o del demagogo di oggi: vi è una analisi che guarda nel profondo di questo paese. Là dove la tendenza al conformismo ha radici antiche: abbiamo avuto la Controriforma senza aver partecipato alla Riforma. Particolarismi egoistici (vi è chi parla di “familismo amorale”) fanno premio rispetto alla coscienza civica, a una valorizzazione delle istituzioni pubbliche: effetto di una unità nazionale giunta molto tardi, di un debole senso dello Stato.
Quando la sinistra maggioritaria era dogmatica, la cultura politica di cui parliamo era pragmatica; non ha mai ritenuto che il perseguimento della giustizia sociale richiedesse l’adesione all’ortodossia marxista. Ma, per essa, pragmatismo non significa opportunismo: significa, all’opposto, meno ideologia e più concretezza, più etica pubblica. Un grande economista, Paolo Sylos Labini, quando un imprenditore titolare di concessioni governative scese nell’agone politico sollevò immediatamente il problema della sua ineleggibilità. Se, anziché isolarlo come il solito azionista rompiscatole, lo si fosse ascoltato, forse oggi staremmo meglio.
L’Unità 27.12.09