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"La lunga corsa del 2009 Pechino sorpassa Tokyo", di Francesco Sisci

Ora la Cina è la seconda economia mondiale dopo gli Usa. E batte tutti per riserve: ha in cassa 2700 miliardi di dollari. Il 2009 per la Cina è stato l’anno del sorpasso. Sembra davvero finito un ciclo di 30 anni che, dall’inizio delle riforme economiche alla fine del 1978, ha portato il Paese della Grande Muraglia a superare il prodotto interno lordo giapponese.

Uno scatto che ha messo fine a circa un secolo di primato economico e politico nipponico in Asia. Nel 2009, grazie allo sviluppo del suo Pil probabilmente oltre il 9% in contrasto con la recessione che ha colpito il resto del mondo, la Cina avrà prodotto circa metà della crescita economica globale. Inoltre, nonostante la diminuzione dei suoi commerci, la Cina quest’anno è diventata il primo esportatore del mondo, che è anche la riprova di quanto siano diminuite le capacità degli altri. Infine ci sono i dati delle riserve monetarie, prime in assoluto.

Oltre 2150 miliardi di dollari cui vanno sommati i circa 500 miliardi di Hong Kong. Il totale complessivo è di circa 2700 miliardi, che fanno di Pechino il primo creditore al mondo, il maggiore acquirente di debito americano, seduto su un deposito di denaro che farebbe impallidire Paperone ma anche il Pil italiano, che quest’anno potrebbe scendere sotto i 2200 miliardi di dollari. Queste cifre però non troneggiano sulle prime pagine dei giornali, né i leader politici si mostrano alla televisione a sciorinare la contabilità di un trionfo economico che diventa anche politico. I numeri sono quasi nascosti in dispacci per addetti ai lavori, sparsi e distribuiti su varie fonti nel tentativo di nasconderli e non farli vedere troppo. Il motto ufficiale è «tenere la testa bassa».

Qualcuno teme che questo trionfo economico possa tradursi, nel futuro prossimo, in tasse politiche da pagare: per esempio con un maggiore ruolo internazionale della Cina in missioni di pace. Tutta roba che Pechino vorrebbe evitare. I leader cinesi temono anche che urlando di soddisfazione per i risultati della loro economia si dia fiato alle pericolose sirene del nazionalismo che – queste sì – vorrebbero un ruolo più forte al livello internazionale. Il loro profeta, Wang Xiaodong, in questi giorni tuona contro la stampa britannica che attacca Pechino per l’esecuzione di un cittadino inglese in Cina.

Pechino – forse fedele al vecchio monito napoletano di piangere sempre – si preoccupa delle cose che non funzionano. In effetti non sono poche. L’istituto di controllo delle spese ha reso noto che una somma colossale è sparita dai libri contabili nei primi undici mesi di quest’anno, l’equivalente di quasi 24 miliardi di euro. Per questo decine di alti funzionari del governo centrale e di quelli locali sono stati messi sotto indagine. La cifra va contestualizzata: è meno del 2% del totale dello stimolo economico e dell’aumento di credito elargito dallo Stato e dalle banche in quel periodo. Insomma, anche fossero tutte mazzette, il tasso di corruzione non sarebbe enorme.

La vera preoccupazione è un’altra: dato l’enorme esborso finanziario sostenuto per attivare l’economia nel 2009 la Cina spera che il 2010 marci con le sue gambe. Ma i segnali non sono tutti rassicuranti. L’alto commissario per Hong Kong Donald Tsang ha detto di temere una caduta dell’economia del territorio a metà dell’anno. Hong Kong non è un’economia vera e propria, piuttosto è un termometro della salute dell’economia nel bacino dell’Asia-Pacifico. Non è chiaro su che basi Tsang si esprima: certo Pechino osserva che in America oltre i dati generali, certo migliori, restano molti elementi preoccupanti.

La disoccupazione è molto alta, le piccole imprese che già hanno tassi di fallimento da record potrebbero andar peggio con la nuova legge sulla sanità che impone altri costi. Al di là del suo sorpasso, quindi Pechino si preoccupa dello stato del suo maggiore «cliente», l’America, che possiede forse il 70% del suo credito, e teme una seconda metà del 2010 molto turbolenta.
La Stampa 31.12.09