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"Diventeranno tutti italiani", di Giovanna Zincone

Le decisioni pubbliche italiane presentano falle ricorrenti, che prescindono dal colore politico dei proponenti. La prima consiste in annunci di fondamentali novità che, una volta illustrate, finiscono per rivelarsi come suggerimenti a fare quel che in gran parte già si faceva.

È andata così con il tetto del 30% per i bambini stranieri. La nota ministeriale è partita prudentemente elastica, consentendo possibili eccezioni per chi sapesse l’italiano, quindi presumibilmente per i nati in Italia o, comunque, in caso di bisogno. Poi per gli studenti nati nel nostro Paese il tetto è stato del tutto scoperchiato. La necessità di non sovraccaricare le classi con allievi che hanno difficoltà di apprendimento è cosa che i direttori scolastici sanno benissimo, e applicano già questa regola di buon senso, per l’appunto quando possono: magari, per renderla davvero efficace, vorrebbero le risorse umane ed economiche che ora finalmente il ministro promette. La falla della misura-novità di solito si allarga: all’annuncio di grandi svolte, da una parte, si contrappongono denunce di lesione di fondamentali diritti umani, dall’altra, spostare un po’ di bambini in bus può essere invece una buona mossa contro la segregazione. In fondo il sistema del bus non fu usato negli Usa per fare uscire i bambini neri dalle scuole ghetto, con grandi opposizioni dei bianchi razzisti?

La seconda falla consiste nel non valutare i possibili effetti di provvedimenti diversi combinati tra loro. Con la Bossi-Fini il tempo di tolleranza della disoccupazione per mantenere il permesso di soggiorno era stato accorciato da un anno a 6 mesi, poi la recente Legge Maroni sulla sicurezza ha introdotto il reato di immigrazione clandestina che, si noti, non vale solo per gli ingressi clandestini, ma anche per chi si ferma con un permesso scaduto. Dopo 6 mesi di disoccupazione, dunque, il permesso di soggiorno non è più rinnovabile e il lavoratore può essere incriminato, obbligato a pagare una salata multa, espulso. Siamo in un periodo di crisi e i lavoratori stranieri stanno pagando un prezzo particolarmente alto: tra il III trimestre del 2008 e quello del 2009 la disoccupazione tra gli italiani è aumentata dell’1,2%, tra gli stranieri del 3,8.%. Per evitare di perdere, insieme al lavoro, anche il permesso, i lavoratori immigrati non-comunitari accettano qualunque condizione. Non tutti i braccianti di Rosarno erano clandestini, ma anche i regolari stavano perdendo quella miserevole ombra di occupazione, e con essa la condizione di regolarità. Le aggressioni di cui sono stati vittime hanno solo acceso la miccia di una polveriera sociale che ha scatenato la rivolta. Se le rivoluzioni – come proclamava il compagno Mao – non sono pranzi di gala, neppure le rivolte sono picnic sull’erba. Non c’era bisogno di Rosarno per ricordarcelo. Sono eventi spaventosi, violenti che dobbiamo in tutti i modi cercare di prevenire. Ma certo non aiuta a farlo un’altra falla ricorrente nelle decisioni pubbliche nostrane: il ricorso a succedanei-patacca. Oggi c’è chi propone di affossare o svuotare la riforma della cittadinanza come risposta alla rivolta di Rosarno. Boicottare la riforma è certamente utile per speculare sui sentimenti anti-immigrati e agguantare voti, ma non si capisce in che modo possa risolvere problemi di ordine pubblico. Chi vuole ottenere la cittadinanza italiana deve giurare fedeltà alla Repubblica, impegnarsi a rispettare la nostra Costituzione e le nostre leggi. Se è stato regolare per dieci anni come prevede la legge attuale, o cinque come vorrebbe la riforma Granata-Sarubbi, significa che per tutto quel tempo ha regolarmente lavorato, guadagnato, pagato le tasse e non ha commesso reati. Il progetto Granata-Sarubbi, in cambio dello sconto sul tempo di soggiorno, chiede poi agli aspiranti cittadini di sapere l’italiano: che è un altro indicatore di avvenuta integrazione. Qualcuno pensa che 5 anni siano pochi e che la conoscenza della lingua non basta, altri preferiscono comunque un processo graduale.

Discutiamone, ma smettiamo – per favore – di contrapporre la cittadinanza come premio di un percorso di integrazione in contrapposizione alla cittadinanza come strumento di integrazione. È ovvio che debba essere tutte e due le cose. Facilitare la cittadinanza, o dare il voto locale anche ai non-comunitari, non esclude rischi di rivolta, ma contribuisce almeno a diminuirli. Un grande liberale e studioso di fenomeni sociali, Ralf Dahrendorf, sosteneva che i conflitti sociali si tengono sotto controllo se lo scontento trova a sua disposizione canali di espressione legittimi. Lavoratori che non possono far sentire le proprie ragioni attraverso strumenti di rappresentanza politica o sindacale ricorrono allo sciopero; se neanche lo sciopero funziona, se sono repressi, sfruttati, possono passare a comportamenti pericolosi, violenti. La rappresentanza ovviamente non basta a prevenire la violenza: in assenza di condizioni di vita accettabili e di rispetto umano, chi non riesce a ottenere qualcosa con le buone, può sempre cercare di farlo con le cattive. Ma essere inclusi come cittadini abbassa il pericolo di essere sfruttati come lavoratori, consente di esprimersi politicamente con gli strumenti della democrazia. Oggi un’apertura ai diritti per gli immigrati costituirebbe soprattutto un segnale di rispetto da parte della classe politica nei confronti di tutti coloro che, comunque, prima o poi, cittadini italiani lo diventeranno. Ma la principale falla delle nostre decisioni pubbliche è, in generale, una certa miopia.
La Stampa 12.01.10