partito democratico

"Le primarie della libertà", di Rosy Bindi

Caro direttore, trovo francamente un po’ ingeneroso il giudizio di La Spina sulla confusione che regnerebbe nel Pd. Ma rispetto e anzi apprezzo ogni stimolo a meglio definire il profilo e la linea di un partito che lo stesso La Spina giudica essenziale per la democrazia italiana. Sento però il dovere di offrire qualche chiarimento su due specifici punti, per dimostrare di non essere entrata in contraddizione nella mia intervista a Federico Geremicca. Il primo: la mozione congressuale di Bersani non proponeva un rapporto preferenziale o addirittura esclusivo con l’Udc ma l’impegno del Pd a costruire un nuovo centrosinistra per stabilizzare il bipolarismo italiano. Abbandonata ogni pretesa autosufficienza, si trattava e si tratta di mettere insieme un quadro di alleanze che, muovendo da un confronto aperto e senza pregiudiziali con le forze oggi all’opposizione, prefigurasse un’alternativa di governo al centrodestra. Secondo chiarimento: io non auspico affatto che l’Udc rifluisca di nuovo nel campo del centrodestra. Con o dopo Berlusconi. Vorrei anzi potermi augurare il contrario. Registro solo, per il rispetto che porto ai propositi da loro stessi enunciati, che l’ipotesi di un futuro approdo dell’Udc a un nuovo centrodestra è tutt’altro che da escludere. Ricordo che Casini ha sempre parlato di alleanze con il centrosinistra in chiave di Cnl da Berlusconi e mai in prospettiva strategica, arrivando addirittura ad annunciare in tono minaccioso alleanze per la democrazia e la Costituzione. Naturalmente ne consegue però che, come noi accettiamo che l’Udc si allei in alcune Regioni con il Pd pur coltivando dichiaratamente un diverso disegno di lunga lena, reciprocamente, al Pd non si possa chiedere di rinunciare alla propria prospettiva strategica. Prospettiva entro la quale il Pd svolga coerentemente la propria identità e la propria missione. Pena il proprio snaturamento. La nostra visione, ripeto, è quella di un nuovo, largo centrosinistra dentro un bipolarismo più maturo e finalmente consolidato. In questa luce, le primarie di coalizione non sono solo uno istituto contemplato dal nostro statuto. Rappresentano anche, in concreto, uno strumento utile proprio al fine di dare modo agli alleati e ai loro elettori di partecipare alla designazione del candidato comune alle cariche monocratiche.

Come spesso ha osservato Bersani nel confronto congressuale, con i propri alleati il Pd deve essere umile e generoso e proprio il rispetto per gli alleati e la cura per le alleanze suggeriscono il ricorso alle primarie con le quali coinvolgerli nelle decisioni comuni. Decisioni che non possiamo assumere da soli né confinare entro segrete stanze.

La libertà, per ciascun alleato, di non parteciparvi non può tradursi nella pretesa che il Pd vi rinunci.
*Presidente del Partito democratico
La Stampa 12.01.10

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L’Articolo a cui fa riferimento Rosy Bindi nella sua lettera lo trovate riportato qui sotto

Pd, partito a vocazione confusa di LUIGI LA SPINA
A questo punto, la domanda è una sola: il Pd è un partito ingovernato o è un partito ingovernabile?
L’intervista alla Bindi su «La Stampa» di ieri è solo l’ultima testimonianza di una serie di contraddizioni, confusioni, incertezze veramente sbalorditive per un gruppo dirigente che, tra l’altro, si ritiene la classe politica più professionale e sperimentata d’Italia.

Non si può pensare, perciò, che sia l’ingenuità e l’inesperienza degli uomini, di volta in volta alla guida di quel partito, il motivo di una costante incapacità di tenere una linea politica coerente e credibile. La conclusione obbligata, allora, anche se amara per tutto il sistema democratico del nostro Paese che avrebbe sempre bisogno di una potenziale alternativa di governo, è che il Pd è ingovernabile perché non ha una identità comune, cioè, non è un partito.

Cominciamo dall’inizio. Il candidato alla prima segreteria, Walter Veltroni, al Lingotto di Torino, nel giugno 2007, pronuncia un discorso molto apprezzato, promettendo l’azzeramento di tutti gli spezzoni eredi dei partiti della prima Repubblica e la fusione in una classe dirigente nuova, costruita essenzialmente dalla partecipazione di quella società civile che crede in un moderno progetto riformista. Lancia l’idea, forse velleitaria e discutibile, ma affascinante, di un partito a vocazione maggioritaria, cioè che non debba subire i condizionamenti decisivi degli alleati nel governo del Paese. La sua pratica, però, contraddice subito le sue intenzioni: costruisce un’assemblea costituente fatta proprio di spezzoni dei vecchi partiti e presenta alle elezioni una coalizione che esclude un pezzo importante del riformismo italiano, il Partito radicale, e include un partito che non ne fa parte, quello di Di Pietro.

Il risultato di questa azzardata sfida a Berlusconi è una sconfitta, ma non solo onorevole: è quasi una mezza vittoria, infatti, perché raggiunge per il suo partito una percentuale di voti insperata e sulla quale si potrebbe costruire un futuro promettente. Invece, pochi mesi dopo, è costretto alle dimissioni.

Arriva alla segreteria provvisoria Dario Franceschini, per un breve interregno contrassegnato da un accentuato antiberlusconismo. Ma il congresso, nell’ottobre 2009, elegge il suo competitore interno, Pier Luigi Bersani, e l’alleata di corrente, Rosy Bindi, diventa presidente. Il nuovo leader ripudia il partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria, stabilisce la necessità di alleanze con esponenti del centro moderato e la regola, quando nello schieramento di centrosinistra ci fossero le condizioni di candidati alternativi su programmi diversi, di risolvere i contrasti con il metodo delle primarie.

Passano solo due mesi e la confusione, nel Pd, è assoluta. In Puglia si verifica il caso più classico dell’opportunità di primarie: due candidati, con due ipotesi di alleanze diverse. Ma Bersani stabilisce di non farle, perché l’eventuale vittoria di Vendola non consentirebbe l’accordo con Casini. La scelta, discutibile come tutte le scelte, potrebbe essere comprensibile se con il leader dell’Udc ci fosse un accordo generale, in quasi tutt’Italia. Ma non è così, perché quel partito è libero, ad esempio, di allearsi con la Lega in Lombardia e con la Polverini nel Lazio.

Il presidente del partito, Bindi, alla vigilia della decisione finale in Puglia, allora, formula al suo segretario queste ragionevoli obiezioni, ma cade in una contraddizione clamorosa: è d’accordo con un’alleanza del suo partito con Casini, pur prevedendo che, alle prossime elezioni politiche, sarà proprio lui l’avversario, il candidato del centrodestra, l’erede di Berlusconi.

Il vero problema del Pd non è, in questa situazione, la percentuale del consenso elettorale e neanche il numero di Regioni attualmente governate dal centrosinistra che resisteranno al prevedibile tsunami berlusconian-leghista nel voto di fine marzo. In Europa, il confronto numerico tra le forze riformiste e quelle moderate e conservatrici non trova l’Italia in un drammatico svantaggio, anzi. Si tratta, invece, di metter fine al marasma di contraddizioni politiche, di giravolte nelle alleanze, di lotte tra gruppi e dirigenti che si odiano e di prendere atto che la convivenza tra una cultura di governo e la testimonianza di antiberlusconismo è fallita.

L’Italia ha bisogno di un’opposizione tale da non perpetuare, nella seconda repubblica, il vizio fondamentale della prima: l’impossibilità di un ricambio a Palazzo Chigi. Con il rischio di una situazione peggiore, perché, una volta, tra Dc e Pci, almeno, c’era il riconoscimento di una comune partecipazione alla costruzione dello Stato repubblicano e la condivisione delle sue regole. Un patrimonio sul quale, oggi, non possiamo neppure contare con certezza.
La Stampa 10.01.10