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"I cittadini invisibili", di Nadia Urbinati

Le vicende di Rosarno riportano alla mente le lotte di Giuseppe Di Vittorio contro il caporalato, la tratta dei bambini e delle donne nelle campagne del Tavoliere. Anche allora la sfida era tra legalitá e illegalitá . Su Repubblica di alcuni giorni fa, Roberto Saviano ha detto che gli immigrati di Rosarno sono stati coraggiosi contro i clan,«più coraggiosi di noi» (italiani). Coraggiosi lo devono essere perché non hanno nulla da perdere se non quel poco che riescono a mettere insieme per spedire a casa e per sopravvivere in qualche modo qui. Perché abituati a essere sempre a rischio, senza reti protettive alcune: non le autorità del governo dal quale fuggono (e che spesso li perseguita), non la legge del paese dove lavorano che gli è spesso nemica come troppe volte gli sono nemici gli abitanti del paese straniero, per i quali lavorano per un pugno di centesimi e dai quali sono visti come a metà tra il bestiale e l´umano. Gli immigrati sono clandestini anche quando formalmente non lo sono perché la loro clandestinità è rispetto alla società e alla cultura del Paese dove lavorano, non solo rispetto alla legge. Clandestini in senso totale: per la legge sono non esistenti e la loro invisibilità dà agli italiani una sorta di visto per impunemente sfruttarli, ingiuriarli, maltrattarli; essendo fuori della norma sono alla mercé di tutti, «nuda vita» come direbbe Giorgio Agamben.
Questa radicalità li mette, che lo vogliano o no, naturalmente faccia a faccia con i loro equivalenti nostrani di clandestinità: quegli italiani di ´ndrangheta, mafia e camorra che prosperano anche grazie alla clandestinitá formale e civile degli stranieri. Forza contro forza, benché, come abbiamo visto a Rosarno in questi giorni di ferro e fuoco, a perdere sono i clandestini non i fuorilegge nostrani; a perdere sono i piú deboli e piú esposti in assoluto, coloro che la legge dichiara perseguitati e verso i quali non resta indifferente né si fa tollerante.
Eppure, quando alzano la testa, quando rivendicano nelle forme della forza –poiché non ne hanno altre visto che la legge non consente loro voce e visibilità civile – il poco salario in nero e di fame che gli é stato promesso, quando sfidano i prepotenti dell´illecito lo fanno a viso aperto, ignari delle pratiche omertose: la loro violenza, certamente ingiustificata come deve esserlo sempre in una societá che è civile, è un grido di accusa alla nostra democratica Italia. Poiché la loro condizione di radicale e totale sfruttamento ingrassa i nemici della legge e della societá civile. Quegli immigrati dovrebbero essere visti come amici della democrazia, se non altro perché mostrano con tremenda efficacia quanto grave sia l´affare dell´illecito nel nostro paese – un affare che trasmigra dalle terre d´origine e giunge come abbiamo visto in questi giorni nella Pianura Padana, in Emilia-Romagna. L´illecito travolge gli argini. È questo il pericolo che ci deve fortemente preoccupare e che la disperata reazione degli immigrati mette in luce.
Le vicende di Rosarno riportano alla mente le lotte di Giuseppe Di Vittorio contro il caporalato, la tratta dei bambini e delle donne nelle campagne del Tavoliere. Anche allora la sfida era tra legalitá e illegalitá. Di Vittorio era pugliese e a sette anni e mezzo giá bracciante; a dodici si trovó coinvolto in una sparatoria della polizia nella quale morí un suo coetaneo, Ambrogio, durante una dimostrazione di braccianti che chiedevano un salario, non un pugno di soldi. Di Vittorio non combatteva per eliminare gli avversari ed era contro la violenza; combatteva per cambiare le relazioni sociali e le regole. I suoi avversari erano gli affaristi dell´illecito, coloro che non si facevano scupoli di ricorrere alla violenza per contrastare l´unione sindacale dei braccianti, ovvero la trasformazione del conflitto da ribellione violenta (che giustificava la repressione) a contestazione civile: poiché, allora come oggi, operare sotto la legge implicava rendere pubblico ciò che per profitto dei clan doveva restare sommerso e invisibile.
I braccianti che organizzò Di Vittorio vivevano come topi in tuguri malsani e scioperavano per una razione extra di «acqua salsa» con la quale bagnare il pane secco. Erano gli antenati naturali dei clandestini di oggi. Con una differenza che rende l´emergenza di oggi piú grave e preoccupante: poiché se a caricare e a sparare sui braccianti erano allora la “guardia regia” o i carabinieri della repubblica, oggi sono i cittadini stessi, manipolati spesso da una propaganda che ha avuto addirittura ispiratori in partiti che governano il Paese; una propaganda che come un vento pestilenziale è capace di generare terribili cose dove la via della legge è giá di per sé molto impervia e spesso collassata. Di Vittorio aveva compreso che la lotta contro il caporalato e l´illecito era imprescindibile non solo o tanto per i cafoni del Sud, ma per la democrazia italiana; poiché il sistema che sostiene il caporalato è nemico totale del governo della legge, senza possibilità di compromessi, e perché alimenta un sistema affaristico che non conosce frontiere regionali.
La Repubblica 19.01.10

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