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Bersani: "Non ci chiuderanno in una riserva indiana", di Federico Geremicca

Dice: «Io so cosa vorrebbero: chiuderci in una sorta di riserva indiana. Immaginano che alle prossime elezioni noi si sia già contenti di vincere in tre o quattro regioni, così che loro possano tenerci imprigionati lì, deboli e controllati. Ma se è questo quello che immaginano, rifacciano i conti, perché non andrà così e nella loro riserva indiana noi non ci finiremo». Sarà che la mattinata è cominciata com’è cominciata – e cioè con le prime pagine dei quotidiani che stampano l’ennesima inchiesta giudiziaria su Silvio Berlusconi, con tutto quel che segue – fatto sta che Pier Luigi Bersani sembra essersi davvero stufato: e in questo colloquio – a tre mesi dalla vittoria nelle primarie di ottobre – il leader Pd sfodera una durezza inusitata.

Sulle questioni delle riforme e della giustizia, per esempio: a proposito delle quali lascia intendere che l’approvazione al Senato del cosiddetto «processo breve» ha segnato un punto di non ritorno nei rapporti con la maggioranza di governo. «Continuo a ricevere inutili sollecitazioni a non cedere su questo o su quello. Ringrazio, ma risparmino la fatica: già al Congresso spiegai che, al punto cui si era giunti, non era immaginabile che il Pd potesse far da sponda a qualunque tipo di legge minimamente sospettabile di esser varata per risolvere i problemi del nostro premier. Oggi è ancora peggio, rispetto a due o tre mesi fa.

E poiché forse in giro c’è qualche equivoco e si immagina che il Pd possa barattare l’archiviazione del “processo breve” con un voto favorevole alla legge sul legittimo impedimento, vorrei essere chiaro: noi non voteremo mai, in nessun caso e per nessuna ragione, un singolo e isolato provvedimento in materia di giustizia che riguardi il Cavaliere e non sia inserito in un chiaro processo di riforma. Mai e per nessuna ragione. Loro andranno avanti lo stesso? Possono farlo. Ma sappiano che, a maggior ragione se si trattasse di leggi costituzionali – che se non approvate con una maggioranza dei due terzi permettono un referendum – noi siamo pronti al referendum. L’abbiamo già fatto e l’abbiamo già vinto».

Non era cominciato così, il viaggio del nuovo leader dei democratici. Ma come per una sorta di maleficio – e alla stessa maniera, in fondo, di quanto capitò a Veltroni – ha dovuto arretrare nella trincea: passando da una seppur prudente disponibilità al confronto ad un atteggiamento assai sospettoso verso qualunque invito al dialogo giungesse dagli emissari berlusconiani. Soprattutto quando l’oggetto del dialogo avrebbe dovuto essere – o dovrebbe essere – l’immunità del Cavaliere: «Berlusconi è ancora in tempo a farlo, certo – dice Bersani -. Ma già in questi quindici anni e passa, se fosse stato uno statista, avrebbe dovuto alzarsi in Parlamento e dire “me li risolvo da solo i miei problemi giudiziari, vi tolgo dall’imbarazzo”. Soprattutto quando era – come oggi – al governo di Palazzo Chigi. Non ci ha mai nemmeno pensato. Affari suoi. Noi del Pd, però, possiamo e dobbiamo decidere degli affari nostri: e la decisione è non intorbidire il percorso. Se noi dessimo strada a un qualunque provvedimento che, seppur spacciato per riforma, servisse solo a garantire l’immunità del presidente, noi imbratteremmo la parola riformismo, e se ne riparlerebbe tra vent’anni. Il nostro percorso è un altro: ed io certo non lo sporco con robe così, a prescindere da Di Pietro e compagnia bella».

Ridislocare le truppe più indietro nella trincea, guardarsi dal fuoco amico che arrivava da sinistra, ridare un’organizzazione più classica al Pd e intanto andare incontro alla trappola delle regionali: dire che dall’avvio a qui siano stati tempi facili per Bersani, sarebbe dire una bugia. E se il leader dei democratici preferisce non commentare la brutta vicenda in cui è finito il sindaco di Bologna, delle elezioni – invece – parla eccome. Perché è vero che si tratta di un voto-trappola con esiti impossibili da eguagliare (cinque anni fa il centrosinistra vinse in 11 delle tredici regioni che tornano alle urne), ma è proprio da qui che nasce l’orgoglioso discorso sulla «riserva indiana»: e l’amara constatazione che il difficile lavorio di preparazione non sia stato capito e raccontato per quel che è.

«Ci sono due cose che mi hanno veramente stufato – dice Bersani -. La prima è sentir ripetere che staremmo facendo intese qui e lì in maniera subalterna a questo o a quel partito; e la seconda è che il nostro agire non avrebbe una logica. Allora io vorrei ricordare che in 8 delle 9 regioni nelle quali la situazione è già definita, i candidati-presidente saranno espressione del Pd. E in quanto alla logica, stiamo semplicemente provando a seguire la linea annunciata in congresso: accorciare le distanze tra le forze d’opposizione parlamentare. Sapendo che non è facile, perché Casini ha la sua strategia e l’Idv le sue radicalità».

Poi ci sono, naturalmente, il Lazio e soprattutto la Puglia, dove il Pd e il suo giovane candidato – Francesco Boccia – sembrano avviati alla sconfitta contro il ciclone-Vendola nelle primarie di oggi. Dice Bersani: «Se lei mi chiede se in queste due regioni c’è stato un percorso lineare, io le rispondo di no. Ma nel Lazio venivamo da dove venivamo, c’erano difficoltà e io comunque considero un colpo di reni aver puntato, alla fine, su Emma Bonino. Quanto alla Puglia, ci possono anche esser stati dei nostri errori, ma ci siamo trovati di fronte a un problema grosso e inatteso: la posizione assunta da Nichi Vendola. L’importante sarà tornare uniti dopo le primarie: perché il vero obiettivo non è superarci tra noi ma battere anche in Puglia il centrodestra». Pena finire nella riserva indiana cui pensa Silvio Berlusconi…
La Stampa 24.01.10