partito democratico, politica italiana

"Quando il capo non sa vedere", di Adriano Sofri

Primo: non infierire. Ma come si fa? Mettiamola così: ci sono due buone notizie. In Puglia si sono svolte le primarie con un’adesione sentita, e finalmente abbiamo il candidato. A Bologna il sindaco si è dimesso, che è proprio la cosa che andava fatta. Tutto bene, dunque. E ora facciamo due chiacchiere. Bersani ha ribadito lealmente il sostegno del Pd a Vendola, caldo di una così larga investitura. E ricapitolando – mi viene sempre questo verbo, mannaggia – le ragioni dell’impegno per Boccia, ha ribadito il proposito di guadagnare adesioni fuori dai confini della sinistra, dentro i quali invece è destinata a restare la candidatura di Vendola.

Una prima obiezione possibile riguarda la riduzione della ricerca di consensi cosiddetti moderati all’alleanza con l’Udc. Tanto più quando non ci si misuri con tempi tagliati e fronti uniti, come sarebbe stato se Berlusconi avesse imposto elezioni politiche anticipate. L’obiezione maggiore è un’altra: e cioè che i dirigenti del Pd commettono un serio peccato di appropriazione indebita quando parlano del “proprio” elettorato, dei “proprii” suffragi già acquisiti e bisognosi di allargamento.

Non mi riferisco tanto agli elettori che si sono presi da tempo una libera uscita dalle fedeltà di schieramento. Mi riferisco piuttosto alle persone, ancora tantissime, che si sentono tuttavia fedeli a un ideale, o almeno a un’idea, di sinistra e di democrazia, e stentano a riconoscerla nel Pd. Persone che dirottano il loro voto sulla costellazione di partiti e movimenti che affettano un’intransigenza eroica, o lo conservano al pulviscolo di etichette che furono già della sinistra malamente detta “radicale” e diventata extraparlamentare, dai verdi ai comunisti, o, più consistentemente, decidono che non voteranno più, con uno spirito amaro o punitivo.
Si faccia un conto, come suggeriscono i politici “esperti”, e ne risulterà una somma di voti superiore a quella promessa dall’alleanza con l’Udc. Il saldo diventa più allarmante se si consideri la disaffezione crescente dentro la base che si definì un po’ rozzamente “lo zoccolo duro” (formula non così distante da quella borsistica del “parco buoi”, e non per caso). Ogni volta che i dirigenti del Pd fanno appello alla necessità di andare oltre i “propri” elettori, stanno ingannando se stessi. Frughino bene: hanno le tasche bucate. Ognuno dei voti che presumono “loro” va riguadagnato. E non al prezzo di un sovrappiù di irresponsabilità, di rinuncia all’intenzione di governare, di demagogia: al contrario.

Abbiamo intravisto sugli schermi le lunghe file di cittadini pugliesi alle primarie, e anche la folla entusiasta a festeggiarne il risultato. È improbabile che quei cittadini siano ostili per principio alle alleanze e ai ragionati compromessi: però non si rassegnano alle primarie negate per non dispiacere a Casini. Chissà quanti di quei cittadini che si sobbarcano all’impegno di una domenica d’inverno per scegliere un candidato avrebbero deciso di non andare a votare nelle elezioni “vere” se il candidato fosse stato imposto d’autorità. I dirigenti del Pd non lo vedono? Vivono altrove, e di che cosa? Massimo D’Alema ebbe un’uscita magistrale, qualche giorno fa, quando all’improvviso dichiarò, delle cose di Puglia, di non capirci niente. È un buon punto di partenza. Le primarie per la segreteria del Pd furono in fondo, per chi non fosse legato stretto alle cordate concorrenti, un apprezzabile modo per restituire autorevolezza alla leadership di un partito che l’aveva perduta, chiunque vincesse fra candidati senz’altro rispettabili. Questa ennesima intenzione responsabile portò un numero ingente di persone a votare, e non la passione per i rivali in gara.

Ancora una volta, come ora in Puglia, le persone che vogliono bene all’Italia e alla democrazia e a un ideale, o almeno un’idea, di sinistra, si mostrarono disinteressate e lungimiranti, e disposte a dare una spinta – fisicamente, come si fa con una macchina che è restata col motore spento in salita – a chi aspirava a rappresentarle. Il piccolo gruzzolo in più di consensi che si registrò subito dopo (già dilapidato) non andava tanto alla corrente che era stata più votata, ma alla speranza che una leadership fosse stata investita, e facesse il suo mestiere. Quanto al merito, proprio dalla corrente di Bersani e di D’Alema ci si aspettava caso mai che fosse la più determinata e capace di recuperare l’adesione di quella larga diaspora perduta fra antipolitica, risentimento, giustizialismo e caudillismo – o pura stanchezza. Tutto precipitato nello strettissimo imbuto dell’Udc serva di due padroni, o padrona di due servi.

Ma bisogna pur limitare i danni della perdita di regioni che ci appartenevano – diranno i dirigenti esperti. (Dai quali ci si aspetta che prima o poi mettano all’ordine del giorno la questione sempre più spaventosa della sistemazione personale di chi “fa politica”, e della sua influenza soverchiante sulla politica da fare). Ammesso che sia il punto, e non è mai bello far politica con l’acqua alla gola, o più su, il risultato è lontanissimo dal confermarne il realismo. Se non si perderà la Puglia, sarà grazie all’insipienza della destra, che a sua volta non scherza, ma non gliene importa granché, le piace così, e grazie alla ribellione degli elettori delle primarie a una politica di partito in cui l’ottusità ha fatto a gara con la prepotenza. D’Alema, che non si tira indietro dalle proprie responsabilità, farebbe però male oggi ad ammettere semplicemente una sconfitta.

Le sconfitte prevedono una misura: qui non c’è stata partita. Qui, semplicemente, uno dei contendenti “non ci aveva capito niente”. E se invece ci aveva capito, e ci si è infilato lo stesso, occorre rivolgersi ai professionisti, ma della psicoanalisi o della vita monastica. Se non si perderà il Lazio, sarà grazie alla speranza suscitata da una candidata come Emma Bonino che, qualunque opinione si abbia delle sue singole opinioni, non appartiene a quel modo di praticare la politica. Parliamo di candidati a presiedere regioni, Bonino e Vendola, che starebbero comunque al proprio posto in un Partito Democratico come quello che si era immaginato, e per il quale ancora a distanza di anni e di disinganni la gente si mette in fila d’inverno, a rimetterlo in carreggiata e dare una spinta.
La Repubblica 26.01.10

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“Chi predica bene e razzola male”, di MICHELE BRAMBILLA

Qualche tempo fa a una trasmissione televisiva un esponente del centrodestra sbatté in faccia a un collega-rivale del centrosinistra il caso Marrazzo dicendo più o meno così: «Avete montato una campagna di stampa per le escort di Berlusconi, ma anche voi avete i vostri bravi sex-gate». «Sì – fu la risposta – ma la differenza è che Marrazzo si è dimesso, Berlusconi no».

Ieri si è dimesso anche il sindaco di Bologna Flavio Delbono, pure lui di centrosinistra e pure lui travolto da una storia di alcova (è inutile che si dica che qua ci sono ipotesi di peculato eccetera: la vera storia che ha messo a soqquadro Bologna è innanzitutto una storia di amanti: prima del bancomat, anche qui, cherchez la femme). A sinistra potrebbero quindi aggiungere un tassello a sostegno della propria – se non superiorità morale – serietà.

Non è nostra intenzione stabilire se una simile rivendicazione sarebbe fondata oppure no. Non vogliamo neppure entrare nel merito se dimettersi – quando si apre uno scandalo o peggio ancora un’inchiesta giudiziaria – sia giusto oppure no. Generalizzare sarebbe troppo superficiale.

Quel che sorprende è piuttosto la scoperta di una nuova anomalia italiana. Cerchiamo di spiegarci. Da un po’ di tempo, insieme con il bipolarismo, abbiamo importato dagli Stati Uniti anche la consuetudine di mescolare il pubblico con il privato, la politica con quel che ciascuno fa a casa propria o in un motel. S’è detto e ridetto che è una svolta puritana in un Paese cattolico; il quale, da cattolico appunto, aveva sempre tenuto distinti i due piani: i vizi privati e le pubbliche virtù. Una sorta di «santa ipocrisia» aveva garantito una non belligeranza fra i politici: io non metto il naso fra le tue lenzuola, tu non lo metti fra le mie. E poi, mentre il puritanesimo protestante esige una continua lotta (quasi sovrumana) per non cadere in tentazione, il cattolicesimo è temperato dal sacramento della confessione. «Peccato di pantalone – dice Alberto Sordi in un film – pronta assoluzione».

Da quando anche la politica italiana ha cominciato a violare il sacro recinto della privacy, e a non perdonare più scappatelle di questo tipo, pare di assistere a uno strano fenomeno che prima abbiamo chiamato appunto «anomalia». I politici di centrodestra, che organizzano i Family Day e appoggiano la Chiesa in praticamente tutte le questioni che riguardano l’etica matrimoniale e sessuale, rivendicano il diritto al silenzio sulle proprie questioni private. Quelli di centrosinistra – che dopo essersi battuti per il divorzio e l’aborto si battono per i Pacs, i Dico, i diritti dei gay, la fecondazione assistita eccetera – sembrano invece inflessibili sui comportamenti privati dei loro rappresentanti. Marrazzo e Delbono, prima che da una campagna di stampa, sono stati «invitati» a lasciare dai loro stessi superiori di partito.

E ancora. Non fa effetto vedere che il comunista Bertinotti si sente in dovere di scrivere una lettera per assicurare che non ha mai tradito sua moglie? E vedere che mentre la quasi totalità dei leader del centrodestra è divorziata e risposata, la quasi totalità dei leader del centrosinistra vive matrimoni tradizionali? Forse non è un film del tutto nuovo. Già nel vecchio Pci la love story fra Togliatti e la Jotti venne pudicamente nascosta, e Pasolini fu espulso per omosessualità. Mentre Almirante conduceva, da divorziato, una battaglia contro il divorzio.

Per carità: dal punto di vista politico, niente di decisivo. Però che si tratti di una delle tante stranezze italiane, un po’ è vero. Chissà come questa stranezza la vivono gli elettori cattolici, che su questioni che il Papa ha definito «non negoziabili» si trovano costretti a scegliere tra chi predica bene e razzola male, e tra chi predica male e razzola, se non bene, un po’ meglio.
La Stampa 26.01.10