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Il legittimo impedimento alla Camera. Bocciate le pregiudizioni di costituzionalità

Alla Camera è arrivata la legge che permette al premier e ai ministri di ‘saltare’ le udienze penali che li vedono imputati. Un testo che resterà in vigore fino all’approvazione di un lodo alfano-bis costituzionale e comunque non più di 18 mesi. Quello di oggi sarà un passaggio breve. Il voto finale è già fissato per mercoledì con le dichiarazioni di voto, dalle 17, in diretta tv. Nonostante questo Pd e Idv promettono battaglia e hanno presentato centinaia di emendamenti e ordini del giorno. Diverso l’atteggiamento dell’Udc che, molto probabilmente, si asterrà. Una scelta legata al via libera del comitato dei nove della commissione Giustizia ad alcuni emendamenti centristi. Si tratta di proposte di modifica che puntano ad estendere, in sostanza, il legittimo impedimento solo alle attività “coessenziali” relative alle funzioni di governo del premier e dei ministri. Nell’attuale testo si parla invece di “attività preparatorie e consequenziali” e “connesse” alle funzioni di governo. E’ stata poi accolta la proposta di fare non un riferimento generico alle norme che regolano le attività del presidente del Consiglio, ma di indicare specificatamente le leggi. “Sono dei piccoli passi in avanti nella direzione giusta – commenta il deputato centrista Roberto Rao – ma restano ancora scogli come quello di estendere il legittimo impedimento anche ai sottosegretari; di prevedere una durata della legge di 18 mesi, anzichè 12 come noi chiedevamo; e di stabilire più rinvii, invece di uno solo di 6 mesi”. La maggioranza, invece, punta anche a inserire, con un emendamento del relatore, una modifica che affidi alla presidenza del consiglio il compito di attestare il legittimo impedimento, una sorta di autocertificazione.

Come prima mossa la Camera ha bocciato le pregiudiziali di costituzionalità a firma Dario Fraceneschini (Pd) e Federico Palomba (Idv). A favore hanno votato 238 deputati, mentre i contrari sono stati 343. Due gli astenuti. Disco rosso anche all’emendamento del Pd che chiedeva una corsia più veloce per i procedimenti a carico di parlamentari.

”Solo in un regime fascista o piduista si puo’ accettare che delle persone, semplicemente perché fanno i ministri o il capo del Governo, non devono andare dal giudice se chiamati a rispondere di reati” attacca il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro. “Sul legittimo impedimento la cosa piu’ scandalosa è che la Presidenza del Consiglio decida da sè i casi di legittimo impedimento” afferma la presidente dei senatori Pd, Anna Finocchiaro.
repubblica.it

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Riportiamo di seguito gli interventi in aula di alcuni esponenti del Partito Democratico contro l’ennesima norma “Ad Personam” sottolinenando il fatto che alla camera oggi erano presenti TUTTI i deputati del PD

ROBERTO ZACCARIA Signor Presidente, illustro la questione pregiudiziale del Partito Democratico sulla proposta di legge che reca il titolo: testo unificato delle proposte di legge recante disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza. Se i colleghi permettono, vorrei far presente una cosa abbastanza conosciuta agli addetti ai lavori, ma che a qualche ascoltatore un po’ distratto potrebbe risultare strana. In questa legislatura, signor Presidente, in venti mesi di attività di questa Camera…
Volevo dire che in questa legislatura, in venti mesi di attività, sono pochissime le leggi ordinarie che sono scaturite da iniziative parlamentari. È noto che in questi venti mesi sono stati approvati, o stanno per essere approvati, 55 decreti-legge; sono state approvate 53 leggi di ratifica, le quali, come i parlamentari sanno, per antica consuetudine non impegnano in maniera rilevante e significativa i lavori dell’Aula.
Se togliamo anche la legge finanziaria ed i provvedimenti collegati alla manovra di finanza pubblica, in venti mesi noi abbiamo approvato una ventina di leggi. È difficile fare una graduatoria, signor Presidente, ma non ho difficoltà a dire che non sono più di dieci le leggi che hanno un qualche significato: l’esordio è stato segnato proprio dal cosiddetto «lodo Alfano», poi hanno fatto seguito le leggi sul Parlamento europeo, sul referendum, sul distacco di comuni, sulla Commissione per l’infanzia. Ebbene, dieci leggi significative in venti mesi di legislatura è un po’ poco per un Parlamento disciplinato come l’organo che produce le leggi fondamentali.
Noi su questi leggi abbiamo presentato poche questioni pregiudiziali, ma riguardo ad una di queste, il cosiddetto «lodo Alfano», vorrei ricordare che il collega Gianclaudio Bressa ha illustrato una questione pregiudiziale nella quale ha sostenuto l’incostituzionalità di quel provvedimento con delle motivazioni che, se andate a leggere la sentenza n. 262 del 2009 della Corte costituzionale, le ritrovate integralmente. Quindi, cominciano a vedere che alcune di queste pregiudiziali arrivano al giudizio della Corte e hanno un esito (questo sì) a voi ben noto.
Occorre considerare un po’ più da vicino la sentenza n. 262 perché il testo unificato che oggi abbiamo di fronte, per chi si occupa di Costituzione e vuole valutare la costituzionalità dei provvedimenti, può essere raffrontato prima di tutto proprio con quella sentenza della Corte costituzionale di cui ricordo alcuni passaggi. La Corte ha detto in maniera chiarissima che vi è la necessità che le prerogative degli organi costituzionali abbiano una copertura costituzionale, ma poi ha affermato una cosa che qui vorrei ricordare testualmente, ed è il secondo punto nevralgico: il problema di questa disciplina delle prerogative, degli impedimenti di questa natura assume una particolare importanza nello Stato di diritto perché, da un lato, alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione e, dall’altro, questi principi, questi istituti non solo implicano necessariamente una deroga al suddetto principio – qui stiamo invocando i principi supremi – ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla funzione politica propria dei diversi organi.
Qui siamo al cuore, al centro del sistema costituzionale, ma se qualcuno non si accontentasse di queste riflessioni, va ricordato che la Corte ha già affrontato il problema del cosiddetto legittimo impedimento. Infatti, la Corte ha affermato che il legittimo impedimento a comparire ha già rilevanza, cioè è disciplinato nel processo penale, e non sarebbe stata necessaria la norma denunciata (in quel caso il lodo Alfano); la difesa dell’imputato è sostanzialmente un istituto che trova tutela; come questa Corte ha rilevato – e ciò mi pare importante – la sospensione del processo per legittimo impedimento, contempera il diritto di difesa con le esigenze dell’esercizio della giurisdizione.
Credo che queste parole dovrebbero far riflettere su quello che la Corte potrà dire di fronte a questo provvedimento. La Corte ci dice chiaramente qual è la via maestra e ritengo che dobbiamo tenerla presente. La Corte parla di un bilanciamento, un bilanciamento tra ciò che è scritto nell’articolo 24 della Costituzione, che è il primo valore, ossia il diritto di difesa dell’imputato, del coimputato, delle persone offese dal reato, e il secondo valore, quello della giurisdizione, che è disciplinato nell’articolo 101 e seguenti, e in particolare nell’articolo 111 della Carta costituzionale.
Se bilanciamento deve essere tra due valori costituzionali, il codice di diritto penale dice che questo lo deve fare il giudice, come lo ha sempre fatto. Quindi, lo spazio per un intervento del legislatore ordinario, come in questo caso, secondo la Corte è praticamente inesistente. Ma la cosa ancora più grave è che, di fronte a questo spazio strettissimo, la disposizione che stiamo esaminando sostanzialmente risolve il bilanciamento tra due interessi e valori costituzionali in un modo molto semplice: ne sopprime uno e ne esalta un altro. Questo non è bilanciamento costituzionale: questa è soppressione di un’esigenza costituzionale a beneficio di un’altra. Come hanno detto i professori auditi in Commissione giustizia, si tratta di una prerogativa, di un’immunità (come dice la Corte), e le prerogative e le immunità devono essere disciplinate con legge costituzionale. Questo è estremamente chiaro e credo che ne dobbiate tenere presente.
C’è un altro punto sul quale vorrei soffermarmi in conclusione. Come hanno detto i colleghi durante la discussione sulle linee generali, non si tratta di un aspetto di secondaria importanza e non è un fatto di estetica normativa. Voglio esaminare il profilo della transitorietà: in attesa di una legge costituzionale che verrà, per diciotto mesi si consente un impedimento che schiaccia l’esigenza di diritto di difesa e che privilegia l’immunità prerogativa.
Colleghi, vi invito a riflettere sul fatto che, quando un Parlamento, con una legge propria, decide di azzerare un valore costituzionale e di esaltarne un altro, in questo modo sostanzialmente compie un’operazione pericolosissima. È un’operazione che si chiama di sospensione di una garanzia costituzionale. Vi invito a guardare alla nostra Costituzione, se c’è una sola norma che dice che possano essere sospese temporaneamente le garanzie costituzionali: la Costituzione non lo prevede neppure in caso di guerra, dove è presumibile che si possa pensare a tutto ciò. Mi spiace che la Commissione affari costituzionali, di cui faccio parte, nel proprio parere abbia detto: «preso atto della transitorietà». Mi dispiace, questa è ipocrisia, in quanto non c’è nessuna norma costituzionale, nessuna norma nel nostro ordinamento che consente di sospendere i diritti costituzionali per diciotto mesi.Concludo, signor Presidente. Questa è anche un’elusione dei controlli costituzionali: diciotto mesi non sono stati messi a caso, bensì per evitare che la Corte costituzionale possa intervenire. Ciò è gravissimo perché tocca gli equilibri fra gli organi costituzionali, in quanto la Corte difficilmente potrà intervenire prima dei diciotto mesi: lo potrebbe fare ma la si mette in una situazione di difficoltà. Alla luce di queste considerazioni, sarà meglio d’ora in poi chiamare questo istituto «illegittimo impedimento» (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori – Congratulazioni)

RICARDO FRANCO LEVI Signor Presidente, mi dispiace che sia stato considerato inammissibile l’emendamento che abbiamo presentato, un’inammissibilità valutata sulla base dell’estraneità rispetto all’oggetto del provvedimento che stiamo discutendo. Credo che se si fosse fatto riferimento piuttosto alla finalità che il nostro emendamento aveva, che è quella di disciplinare il rapporto tra sistema della politica e magistratura, rapporto dal quale non a caso è partito l’onorevole Pecorella nel proprio intervento, probabilmente lo avremmo potuto esaminare.
Si trattava di una proposta semplice: creare una corsia preferenziale, per così dire, per i processi in cui ad essere imputati siano i membri del Parlamento. Questa è una garanzia che nella nostra ipotesi e nella nostra visione corrisponde al dovere dei rappresentanti del popolo di rendere conto del proprio operato e al diritto dei cittadini di sapere con trasparenza chi li governa e chi li rappresenta, soprattutto se chi li governa e chi li rappresenta è o non è responsabile dei capi di imputazione che gli vengono rivolti. Parlo del diritto di questa Assemblea di agire nella pienezza del proprio mandato, perché ciò di cui si sta discutendo va al cuore e all’essenza stessa della democrazia parlamentare: il rapporto di fiducia tra i rappresentanti del popolo ed i cittadini, quell’onore in base al quale la Costituzione ci chiede di esercitare il nostro mandato, quell’onore in base al quale siamo chiamati onorevoli, quell’onore che purtroppo in questa fase della vita politica, rovinata troppo spesso dalla polemica contro la casta dei politici, sovente non ci viene riconosciuto.
Ebbene, l’emendamento in oggetto corrisponde ad una proposta di legge che esiste, che è stata firmata e che resta, ovviamente, nella sua interezza: mi auguro che di questa proposta il Parlamento potrà discutere in altra sede (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

CINZIA CAPANO Signor Presidente, i nostri emendamenti tendono a meglio disciplinare la norma già esistente sul legittimo impedimento e a ridurre l’ambito di discrezionalità nel bilanciamento degli interessi tra esigenze della funzione pubblica ed esigenze della celerità del processo. Il complesso degli emendamenti, sia soppressivi sia modificativi, proposti dal Partito Democratico tende a riportare la disciplina del legittimo impedimento a una minima compatibilità con la Carta costituzionale e con le pronunzie della Corte su questa materia e, più in generale, sulla possibilità di disciplinare con legge ordinaria trattamenti differenziati per coloro che svolgono funzioni di rango costituzionale, con particolare riferimento all’ultima sentenza, la famosa sentenza sul lodo Alfano, come ben illustrato dall’onorevole Zaccaria.
Ma credo che vi sia un equivoco sulla discussione che si è svolta sia in Commissione sia in Aula. Tale equivoco si basa su un passaggio della sentenza che secondo gli esponenti della maggioranza affermerebbe che la deducibilità del legittimo impedimento a comparire non costituisce prerogativa costituzionale.
È vero che la Corte dice così, ma fa esplicito riferimento all’attuale disciplina del legittimo impedimento, perché nell’attuale disciplina si riconosce questa facoltà alla generalità dei cittadini e quindi non è rivolta a un trattamento differenziato, ma a riconoscere una possibilità nei confronti di tutti.
Se si modifica l’ambito dei destinatari e la sua generale applicazione, è evidente che siamo nell’ambito della prerogativa e questo – non c’è bisogno di attendere una nuova sentenza della Corte costituzionale – è già scritto a chiare lettere e proprio a proposito di legittimo impedimento nella sentenza sul lodo Alfano.
Voi della maggioranza, che avete tra di voi illustri giuristi, lo sapete bene, ma avete paura. Avete paura dei tempi, avete paura dei numeri di una legge costituzionale, avete paura di un eventuale referendum e allora ecco che nasce una nuova figura giuridica: la cosiddetta legge ponte, un capolavoro. Si tratta di una legge ordinaria che anticipa gli effetti della legge costituzionale, ad efficacia limitata nel tempo. È come dire che è possibile, in Italia, cambiare gli articoli della Costituzione con una specie di procedura d’urgenza.
Applicate anche alla Costituzione la decretazione d’urgenza con cui ci avete deliziato intensamente per questi 22 mesi di Governo e immaginate una legge costituzionale che funziona come la legge di conversione del decreto-legge. Insomma, nasce il decreto-legge costituzionale, con cui evidentemente si consente che ci sia per 18 mesi nell’ordinamento una legge ordinaria che è contraria al dettato costituzionale.
È come se il Ministro Brunetta, che come sappiamo da un po’ va dicendo che la Repubblica non è più fondata sul lavoro, decidesse di proporre una legge ordinaria in cui si dice che, nelle more della modifica degli articoli 1 e 36 della Costituzione, si autorizza il datore di lavoro a retribuire il lavoratore solo se soddisfatto della sua prestazione, con una specie di clausola soddisfatti o rimborsati. Ma vi sembra davvero possibile? Stiamo attenti.
So che chi propone questa formula transitoria – e ho sentito con interesse l’intervento dell’onorevole Vietti – vive l’imbarazzo di inserire questa norma nell’ordinamento e cerca di limitare gli effetti negativi. Lo so bene, ma con questa legge inseriamo un vulnus nel nostro stesso sistema delle fonti e modifichiamo la loro gerarchia.
Inseriamo nell’ordinamento una norma che potrà riguardare processi in cui, oltre ad essere coinvolti il Premier o i Ministri, vi potrebbero essere altri cittadini sia in veste di coimputati sia in veste di parti offese. Nella mia città ci sono già rinvii a giudizio che riguardano Ministri, per processi che vedono coimputati e parti lese, costringendo questi ultimi a subire tempi lunghissimi, un rinvio ad libitum.
Allora non vi sembra che questa legge apra una stridente contraddizione proprio con il cosiddetto processo breve, quel provvedimento che abbiamo in discussione in Commissione giustizia dove voi rivendicate il principio costituzionale dell’articolo 111 della ragionevole durata del processo (anche se non si tratta di durata, ma solo di una estensione automatica, come hanno detto non solo l’ANM e il Consiglio superiore della magistratura, ma le stesse camere penali con uno sciopero fatto solo qualche settimana fa e con una grande partecipazione)?
Volete dirci davvero che questi due provvedimenti hanno la stessa ratio? Eppure sono ontologicamente contrari tra loro. È vero, non è accettabile che un politico come l’onorevole Mannino debba aspettare 16 anni per vedere riconosciuta la propria innocenza, ma la tutela dell’onorevole Mannino e di tutti quelli che si trovano in quelle condizioni si può avere solo con la speditezza del processo e perciò proponiamo un emendamento che riconosce una corsia preferenziale ai processi in cui sono coinvolti soggetti che rivestono cariche pubbliche.
La incostituzionalità di questa norma è già scritta a chiare lettere in tante sentenze. Tuttavia, io vorrei solamente che, quando la Corte la pronunzierà, allora la maggioranza non se la prenda con i giudici di quella Corte, con il Capo dello Stato che li ha nominati, ma con se stessa, abbia almeno questo barlume di onestà intellettuale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PIERLUIGI CASTAGNETTI Signor Presidente, onorevoli colleghi, questa poteva essere, doveva essere l’occasione di una prova di dialogo fra maggioranza e opposizione, invece è un’altra prova di arroganza e di forza della maggioranza.
Poteva essere una prova di dialogo non perché il provvedimento presenti elementi di giustizia e di interesse generale, ma perché questa poteva essere la strada, pure ingiusta e personale, meno compromettente per l’ordinamento generale, posto che l’Italia si è data un Capo del Governo che non ne vuole sapere di mettere piede in tribunale come fanno tutti gli altri cittadini quando è necessario, e che per tale ragione da anni sta cercando di devastare l’ordinamento privatizzandolo e piegandolo alle sue esigenze personali.
Invece no, si è presentato questo provvedimento e contemporaneamente l’altro, quello del cosiddetto «processo breve», ma non è finita. Lo sappiamo tutti e ieri ce lo ha autorevolmente confermato il senatore Quagliarello, il quale ci ha fatto sapere che a fine mese la maggioranza, autonomamente, deciderà ancora se presentare un nuovo lodo costituzionalizzato o la riforma dell’immunità. Stamane addirittura si affaccia l’ipotesi di una modifica della normativa sui collaboratori di giustizia, peraltro anche questo un intervento «tempestivissimo» rispetto a ciò che le cronache ci raccontano. Chissà cos’altro partorirà la fantasia dei consiglieri giuridici del Premier nei prossimi giorni, con il Ministro guardasigilli sempre pronto a spiegare che in ogni caso si tratta della riforma della giustizia.
Cari colleghi della maggioranza, lo voglio dire anche all’onorevole Pecorella, liberatevi, almeno provvisoriamente e almeno per una volta, dall’idea che nelle opposizioni, in tutte le opposizioni, anche in chi sta parlando in questo momento, vi sia un atteggiamento giustizialista o un’ostilità pregiudiziale nei confronti del Capo del Governo. Accettate di ragionare, per una volta almeno, insieme a noi. C’è, infatti, un modo, una misura, una proporzione anche nella produzione legislativa protettiva di un interesse personale (o pressoché tale) senza dei quali è difficile anche potere discutere.
Noi siamo mossi solo – vogliamo assicurarvelo – da preoccupazioni di ordine generale. Vogliamo evitare, in primo luogo, la devastazione dell’ordinamento e chiederemmo una proporzione ragionevole anche nelle forzature. Insomma, ci interessa la volontà di non stressare ulteriormente la pazienza dei nostri concittadini alle prese, peraltro, con ben altri problemi e priorità. Sappiamo che, come ci insegna anche la storia del nostro Paese, al di là delle apparenze di quiete e financo di indifferenza, la pazienza potrebbe esaurirsi ed esplodere contro tutti: contro le istituzioni, il sistema e questa Repubblica. Cari colleghi, quando nell’ordinamento si introduce l’esigenza di assicurare la serenità al lavoro del Presidente del Consiglio e dei Ministri, si potrebbe fare della facile e, purtroppo, corrente ironia a tal proposito, ma è comunque certo che si può esprimere un’inquietudine squisitamente democratica. Qual è il prezzo collettivo di questa serenità privata? Dove ci può portare l’esigenza di non turbare la serenità di chi ci governa?
C’è dell’altro, cari colleghi, e non è meno grave. È noto, infatti, che l’esigenza di permettere l’esercizio di funzioni pubbliche da parte di organi costituzionali chiamati in processo è già considerata dall’ordinamento causa di possibile legittimo impedimento, riconosciuto ovviamente dal giudice. Sarebbe, dunque, assolutamente legittimo un provvedimento che tendesse a definire ulteriormente la casistica, in modo da restringere anche la discrezionalità del giudice. Introdurre, invece, un’estensione pressoché generalizzata attraverso la certificazione delle ragioni di impedimento del Presidente del Consiglio di fatto a tutte le attività istituzionali, significa introdurre una prerogativa, una norma di status, un’alterazione profonda delle procedure giudiziarie che solo il legislatore costituzionale può fare, come la Corte costituzionale ha già detto in modo inequivocabile.
Allora, la questione diventa un’altra, cari colleghi: state approvando consapevolmente una legge inequivocabilmente incostituzionale, scommettendo sui tempi di dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte. «Le leggi le fa il Parlamento», ha più volte ripetuto in questi giorni il Ministro guardasigilli. D’accordo, ma cosa accade, signor Ministro? Come si trasforma il Parlamento, quando produce norme consapevolmente illegittime, se non nel luogo in cui si abusa di un potere e si profana la stessa funzione legislativa?
Le leggi le fa il Parlamento, d’accordo, ma quando le leggi sono illegittime è possibile e persino doveroso contestarle, o no? In tutte le sedi, non solo dentro il Parlamento, ovviamente utilizzando i mezzi costituzionalmente corretti. Di questo si tratta, e si è trattato anche delle manifestazioni della magistratura tenutesi in questi giorni. Ecco perché la questione, che pure nasce da una condizione personale del Presidente del Consiglio – non nascondiamolo – e forse di qualche altro membro del Governo, trascende ampiamente le persone interessate, signor Ministro, e pone problemi seri per la salute e la tenuta del nostro ordinamento legislativo e del nostro sistema istituzionale.
Sappiamo tutti bene, infatti, cari colleghi, che la democrazia e il funzionamento di un Paese civile sono assicurati da un intreccio complesso e semplice allo stesso tempo di pilastri e di tiranti, come per le arcate delle architetture più ardite, ognuno dei quali concorre e si contrappone all’altro, in un bilanciamento di forze tutte orientate a un solo scopo. Se ne salta uno, poi un altro e poi un altro ancora, allora l’equilibrio salta e le conseguenze, purtroppo, non sono poi così inimmaginabili. Cari colleghi, queste, e non l’antiberlusconismo, non il giustizialismo, sono le ragioni della nostra opposizione al provvedimento in esame (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

MICHELE VENTURA Signor Presidente, onorevoli colleghi, la prima questione che vorrei porre all’attenzione del Ministro della giustizia, onorevole Alfano, è che oggi leggiamo che ha preso il via l’iter per l’esame della proposta avanzata dal senatore Valentino relativamente ai pentiti. Vorremmo sapere, onorevole Ministro, quale sia l’opinione del Governo, perché secondo quanto emerge da una lettura di quella proposta, noi ci troveremmo di fronte, sostanzialmente, ad un azzeramento delle testimonianze anche per quanto riguarda i processi in corso. Ciò finisce per inquadrarsi in un lungo elenco di provvedimenti che non hanno niente di organico, ma che servono esclusivamente in una logica, in questo caso davvero miope, volta a non affrontare i nodi veri del funzionamento della giustizia.
Consentitemi, colleghi, di svolgere quest’osservazione iniziale: noi continuiamo ad essere prigionieri di questo lungo ed estenuante paradosso italiano. Chi difende l’autonomia e l’indipendenza della magistratura prima era indicato come un liberale, oggi è indicato come un giustizialista o, peggio, come un nemico della libertà e della democrazia. Credo che una Pag. 67riflessione sui principi liberali della separazione dei poteri e dell’autonomia nello svolgimento della propria funzione da parte della magistratura sarebbe cosa necessaria, non solo per l’opposizione, ma anche come consapevolezza da acquisire da parte di tutto il Parlamento.
Onorevole Angelino Alfano, ella ha liquidato la protesta dei magistrati all’inaugurazione dell’anno giudiziario, dicendo che i magistrati sono ciechi. Noi, rispetto alle vostre reali intenzioni, siamo contenti di essere riusciti a squarciare quella coltre di ipocrisia con la quale avete presentato provvedimenti in continuazione. Voi dite che le leggi spettano al Parlamento e questa, se mi consentite, è un’ovvietà. È chiaro che le leggi spettano al Parlamento; è del tutto evidente che, nell’ambito della separazione dei poteri e nei limiti fissati dalla Costituzione, il Parlamento deve esercitare la propria funzione con il massimo della sovranità. Non è questo in discussione. Il punto è come la politica diventa interlocutore, punto di mediazione, in grado di dirimere conflitti e non di incentivarli.
Colleghi, è chiaro che noi continuiamo a pensare che la politica sia un fatto straordinariamente importante quando è sorretta dalla passione: quando la politica è fatta con passione riesce a definire bene anche le priorità sulle quali ci dobbiamo muovere. Le vostre priorità non sono le nostre priorità. Questo voglio dirlo: ci troviamo qui a discutere di un provvedimento, come quello sul legittimo impedimento, che riguarda pochi, il Presidente del Consiglio e i Ministri.
Le nostre priorità, cari colleghi, non mi si accusi di fare demagogia, riguardano oggi le condizioni materiali e il disagio del mondo del lavoro e dei lavoratori, le questioni che attengono allo sviluppo. Le nostre priorità sono quelle che ci hanno ricordato ieri i dipendenti di Eutelia, che ci ricordano i lavoratori di Alcoa, della FIAT di Termini Imerese.
Collegi, guardate il paradosso: questa parte di società, per attirare un minimo di attenzione, deve ricorrere anche a forme di protesta clamorose. Questi lavoratori devono salire sui tetti, bloccare gli aeroporti, per ricordare a tutti noi che queste sono le cose vere e serie, delle quali ci dovremmo occupare. Invece, siamo qui ancora una volta a discutere dei problemi del Presidente del Consiglio e dei Ministri. Il legittimo impedimento, lo ha detto bene la collega Capano, è già previsto. Con questa norma discriminano ulteriormente, perché riguarda pochi e non la totalità dei cittadini. Poi vi sarà il processo breve, poi probabilmente il lodo costituzionale.
Vorrei dire ai colleghi dell’UDC che quel ponte stretto e fragile è già minato, perché non ci troviamo di fronte ad un Governo che, di fronte ad un provvedimento come quello sul legittimo impedimento, ritira quello sul processo breve. Avremo anche il processo breve. Non vi sarà un provvedimento relativo al complesso della riforma della giustizia, al funzionamento della stessa, per accelerare davvero e per dare certezze paritarie a tutti i cittadini. Ci troviamo di fronte ad una linea che continua ad essere limitata, con effetti positivi su pochi. Questo per noi risulta del tutto inaccettabile.
Per concludere, vorrei dire ai membri del Governo e alla maggioranza che, se guardiamo dall’inizio degli anni 2000 (siamo nel 2010), voi state governando questo Paese da otto anni. Voi non siete la novità.
In questi otto anni non abbiamo avuto alcun provvedimento organico, alcuna riforma seria. Voi portate questa responsabilità; noi cercheremo di farlo capire a tutto il Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PIERO FASSINOSignor Presidente, ancorché la discussione in questo Parlamento sia sempre più difficile, perché in questa sede si entra sempre di più solo per ratificare decisioni che sono prese fuori dalla stessa, non rinuncio a provare a ragionare e chiedo al Ministro Alfano di ascoltare le ragioni dell’opposizione.
Voi presentate oggi un provvedimento di legge che, oltre alle considerazioni politiche che sono già state esposte precedentemente dagli onorevoli Castagnetti, Ventura e da altri nostri parlamentari, è un provvedimento che non si giustifica in sé, sulla base del diritto.
Vorrei richiamare lei, signor Ministro, ad essere consapevole della responsabilità che si sta assumendo, perché il legittimo impedimento, in realtà, nell’ordinamento del nostro Paese c’è già: il Presidente del Consiglio, in occasione della sua visita in Bielorussia – una visita, per altre ragioni, forse non del tutto felice – ha invocato il legittimo impedimento, o meglio, i suoi avvocati lo hanno invocato.
In occasione di alcune riunioni del Consiglio europeo a cui il Presidente del Consiglio doveva partecipare, i suoi avvocati hanno invocato il legittimo impedimento e ogni volta i magistrati hanno accolto le buone ragioni di quella richiesta e hanno aggiornato l’udienza.
Non è vero, quindi, che, per tutelare l’esercizio della funzione del Presidente del Consiglio e non alterare la sua attività, sia necessaria una modifica legislativa, perché l’esperienza di questi mesi ci ha dimostrato che, ogni volta in cui si apriva un conflitto tra l’esercizio dell’attività del Presidente del Consiglio e le udienze, i magistrati se ne sono fatti carico e hanno aggiornato l’udienza.
La realtà è che voi state proponendo un provvedimento che stravolge il concetto di legittimo impedimento, perché state proponendo un provvedimento che stabilisce che il Presidente del Consiglio, e peraltro non solo lui, per il solo fatto che è titolare di quell’incarico è in un permanente, continuo e costante legittimo impedimento.
Introducete, quindi, il concetto di legittimo impedimento, scindendolo dalla valutazione concreta dell’effettivo impedimento. In altro modo, fate un’operazione molto semplice: reintroducete il lodo Alfano, quel lodo che porta il suo nome, signor Ministro, chiamandolo con un altro nome, sapendo benissimo, tra l’altro, che questa operazione è incostituzionale.
La Corte costituzionale, infatti, ha detto una cosa molto semplice: si può anche considerare il fondamento di un provvedimento legislativo che sospenda le iniziative giudiziarie nei confronti di chi è titolare di certe cariche, ma non lo si può fare con legge ordinaria; lo si deve fare con legge costituzionale.
Voi state reintroducendo il lodo Alfano, chiamandolo in un altro modo, con una legge ordinaria (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). La riprova di questo sta nel fatto che la presentate come una «norma ponte», transitoria, di sei mesi, per avere il tempo di presentare il lodo Alfano con legge costituzionale, il che è la prova provata che, in realtà, state reintroducendo con legge ordinaria una norma che dovrebbe avere rango costituzionale; state facendo un strappo costituzionale.
Credo che questo sia grave, sia un errore. Tra l’altro, pur di scrivere un provvedimento a tutela di una persona, e non dei cittadini, avete presentato un provvedimento che è monco in parti essenziali. Per esempio, le persone che sono coimputate hanno diritto alla stessa tutela o no? Se il Presidente del Consiglio, nel periodo in cui è tale e, quindi, considerato sempre legittimamente impedito, è parte offesa, si può tutelare oppure no?
Le altre parti fondamentali del processo, che sono la parte civile e il pubblico ministero, in che condizioni si vengono a mettere nei confronti dell’imputato, nel momento in cui si altera l’equilibrio della collocazione delle parti in un procedimento?
Lei è Ministro della giustizia: di tutte queste cose non può non rendersi conto! E credo che sia molto grave che lei avalli un provvedimento, sapendo benissimo che è uno strappo costituzionale ed un vulnus allo stesso regolare funzionamento dell’ordinamento e delle procedure.
E questo ci porta a dire che non è accettabile il provvedimento in esame, perché esso in realtà non corrisponde ad un’esigenza di giustizia, non corrisponde ad un’esigenza di riforme…
Non corrisponde ad un’esigenza di giustizia e di tutela dei cittadini nella generalità che deve avere una legge che ha valore erga omnes: serve soltanto a tutelare una persona e ad impedire che essa possa essere sottoposta ad un procedimento giudiziario; il che, per tante ragioni che sono state in questi anni troppe volte evocate, è inaccettabile.
Non solo: ancora una volta voi piegate l’ordinamento giudiziario alle esigenze di una persona e alle convenienze di parte. Nessuno nega – e non lo nego certamente io, che ho avuto la ventura prima di lei di fare il Ministro della giustizia – che la giustizia in Italia abbia gravi problemi e vi sia necessità di riforme, ma le riforme di cui ha bisogno la giustizia in Italia riguardano non una persona: riguardano le modalità di accesso alla giustizia, ed una più facile e rapida accessibilità, riguardano la celerità dei processi. Affronteremo questo tema quando discuteremo del processo breve, ma le ricordo fin da adesso che lei, sulla base dell’articolo 110 della Costituzione, è responsabile dell’organizzazione giudiziaria e del suo corretto funzionamento, e non può far approvare un provvedimento in Parlamento senza chiedersi quali sono le conseguenze sull’ordinamento giudiziario! E lei sa benissimo che l’approvazione di quel provvedimento, che stabilisce dei tempi certi per i procedimenti, senza che seguano immediatamente anche i provvedimenti ordinamentali e organizzativi necessari, significherà che molti processi non si faranno, e significherà negata giustizia per milioni e milioni di cittadini!
Voi ancora una volta non vi rendete conto che i problemi veri sono la certezza delle pene, la chiarezza delle sentenze, la loro esecutività, la riforma del sistema sanzionatorio. Vogliamo discutere di ciò? Noi siamo pronti, e non da oggi! E su tutto questo noi abbiamo avanzato proposte: non è vero che noi ci rifiutiamo di affrontare i problemi annosi e gravi che ha l’ordinamento giudiziario italiano, e siamo pronti a discutere tutte le riforme che sono necessarie; ma si tratta delle riforme che riguardano la giustizia che interessa i cittadini. Voi di tutto questo non discutete, o meglio: evocate questi temi, poi essi giacciono nelle Commissioni giustizia senza che vi sia nessun tempo certo per le riforme, e invece concentrate tutta l’attività del Parlamento unicamente su provvedimenti costantemente riferiti soltanto alla tutela di una persona, in spregio alla certezza del diritto e all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Sono queste le ragioni per cui noi vi chiediamo di riflettere, e vi chiediamo davvero di non votare in modo cieco e sordo un provvedimento che rappresenta un vulnus, che ridurrà ancora di più la credibilità e la fiducia dei cittadini nella magistratura e nella giustizia.
Perché voi, in questo modo, certo riducete la fiducia nella giustizia: quando il diritto non è più uguale per tutti, quando un cittadino non ha più la certezza che quello che si applica a lui si applica a tutti gli altri…Concludo subito. E quando anzi un cittadino vede che quel che si applica a lui non si applica a chi dovrebbe rappresentarlo, quel cittadino sarà molto meno tenuto al rispetto della legge, e non sarà certo portato ad avere maggiore fiducia nelle istituzioni, nella giustizia, nella magistratura e nello Stato. Tutto questo è una responsabilità grave che voi vi assumete, e per questo vi chiediamo, prima di infliggere un vulnus così grave all’ordinamento, di riflettere ancora attentamente sulla necessità e l’opportunità di cambiare strada (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

ENRICO LETTA Signor Presidente, rappresentanti del Governo, corre due grandi rischi il confronto parlamentare che iniziamo oggi, e nel quale metteremo tutto il nostro impegno per convincere il Parlamento e l’opinione pubblica delle nostre ragioni.
Il primo è quello della ripetitività che genera assuefazione: come troppe volte in questi anni, si compie oggi un rito che, con il corso della politica dettata dai ritmi dei media e della spettacolarizzazione, rischia di non fare notizia, il rito di un’Aula oggi piena, a differenza del normale, e di una blindatura di un voto su un provvedimento che – lo sappiamo tutti, lo sapete tutti – trae origine solo dalle esigenze processuali del Presidente del Consiglio dei ministri.
Nessuno in quest’Aula potrebbe avere oggi il pudore di alzarsi e di motivare altrimenti la forzatura che è stata imposta ai lavori parlamentari. Ma siccome ormai lungo è l’elenco dei casi in cui il nostro Parlamento è stato usato come succursale operativa degli studi legali che lavorano a quei processi, il rischio – dicevo – è che la cosa non faccia più notizia. In un tempo dominato dalla rincorsa alla novità più spettacolare che copre domani l’emozione che ha fatto notizia oggi, sappiamo che il rischio dell’assuefazione è dietro l’angolo: la nostra battaglia – oggi e nel Paese – combatte innanzitutto questo rischio.
Il nostro rispetto per le istituzioni, la nostra passione per la politica vissuta come impegno a migliorare la convivenza della nostra comunità ci porta oggi qui a dirvi che sbagliate e ci porta qui a raccontare al Paese che noi non siamo corresponsabili di questi orrori, che un giorno la storia di questi anni verrà scritta, verrà analizzata ed il giudizio sui comportamenti diventerà inappellabile e che ai tanti errori che noi dall’opposizione abbiamo compiuto in questi anni non si aggiungerà, signor Presidente, quello di non avere qui oggi detto «no», quello di non avere con fermezza richiamato – ognuno, in quest’Aula – alla responsabilità nei confronti del proprio mandato di interpreti e servitori dell’interesse generale del Paese. Per dirla con una frase impegnativa: «Non nel nostro nome»!
Proprio per questo voglio richiamare un secondo rischio del nostro dibattito parlamentare. Siccome oggi parliamo di giustizia – verrebbe da dire, parliamo ancora una volta di giustizia – c’è da chiedersi perché questo Parlamento da anni a questa parte si occupa più di giustizia che di fisco, più di processi che di lavoro, più di «lodi» che di scuole o università, e perché contemporaneamente questo Paese vive sulla giustizia la sua Caporetto continua.
Perché tanta attenzione e tanta centralità, da una parte, e risultati così disastrosi, dall’altra? Sarebbe bene che uscissimo tutti dal gioco delle parti che troppo spesso impedisce di fare discorsi oggettivi sullo stato del Paese (l’hanno detto, prima di me, i colleghi Castagnetti e Fassino).
Lo dico perché non posso dimenticare che in questo Parlamento tutte le forze politiche qui presenti, noi compresi, hanno avuto responsabilità di Governo e quindi a nessuno è data la possibilità di chiamarsi fuori, di dire «io non c’entro», di dire «ho tutte le ragioni e la coscienza bianca e immacolata»: se la giustizia italiana è al collasso, il problema è di tutti e noi vogliamo farci parte attiva per trovare soluzioni.
La situazione della giustizia è una delle cause principali della scarsa competitività del sistema Paese. Parlare con imprenditori italiani o stranieri che ragionano sulla loro esperienza italiana è più istruttivo di qualunque analisi fattuale: 1.210 giorni di tempo per il recupero di un credito a fronte dei 331 della Francia e dei 394 della Germania o il fatto che sulle imprese si calcoli un peso di 2 miliardi di extra costi l’anno per le inefficienze del sistema sono piccoli accenni di una sfilza impressionante di dati che appunto qualunque imprenditore – piccolo o grande, italiano o straniero – potrebbe rendere meno aridi con mille storie, drammatiche spesso, sopratutto se declinate al Mezzogiorno.
L’assenza di una vera e totale certezza del diritto è uno dei principali vulnus alla competitività del Paese ed è inutile fare grandi discorsi sulla crisi che è alle nostre spalle, sul peggio che è passato, sulla ripresa che arriva: se la giustizia italiana rimane in queste condizioni la ripresa arriva per altri, arriva per quelli che hanno approfittato di questo tempo per fare le riforme, arriva per i Paesi che si sono guardati nel profondo dei propri problemi e che oggi possono guardare lungo.
Perché, signor Ministro, non usiamo queste giornate parlamentari a parlare di giustizia, di giustizia vera, di quelle riforme alle quali ci richiama incessantemente il Presidente della Repubblica? Quelle riforme necessarie per rendere equo e rapido il giudizio per ogni cittadino indistintamente uguale di fronte alla legge, le riforme per togliere arbitrii ed eccessi di discrezionalità, le riforme per rendere efficiente il lavoro degli operatori di giustizia, le riforme per fare dei nostri tribunali luoghi ai quali rivolgersi quando si ha un diritto negato, e non luoghi da frequentare quando si vuole, al contrario, reiterare la negazione di un diritto.
Signor Presidente, noi vogliamo partecipare a cambiare la giustizia italiana, perché sappiamo che il sistema non è difendibile e che l’altro rischio che tutti corriamo è quello di sorridere amaramente ogni volta che un «Gabon» viene citato, continuando come se niente fosse, alzando le spalle, pronti ognuno a salire stancamente sulla scena di una commedia in cui ci viene chiesto di recitare una parte.
Sappiamo tutti qui, nel profondo delle nostre coscienze, che questa commedia non è la vita degli italiani che ogni mattina alzano una saracinesca, reale o virtuale che sia, che si rimboccano le maniche e cercano di farcela, tentando di uscire dalla crisi e che quando ce la fanno sono orgogliosi di loro stessi e del loro Paese. Vorremmo, ma non è oggi questo giorno, che quegli italiani fossero anche orgogliosi di un Parlamento che lavora per loro (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

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