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"Nuovo blitz della maggioranza in arrivo la legge anti-pentiti", di Liana Milella

Il ddl al Senato può bloccare i processi di mafia Dopo le rivelazioni di Spatuzza si corre ai ripari per evitare nuove imputazioni contro il premier La proposta firmata da Valentino, ex An, relatore del processo breve e vice di Ghedini. La fabbrica delle leggi ad personam made in Berlusconi è riuscita a sfornarne un´altra, stavolta addirittura sulla mafia e sui pentiti. Per cancellarne anche l´esistenza e azzerare le loro dichiarazioni. Niente maxi processo di Falcone. Niente Buscetta. Battezzarla anti-Spatuzza o salva Dell´Utri? L´uno e l´altro.

Perché il risultato dei due articoli che il senatore Giuseppe Valentino, giusto il relatore del processo breve, ha presentato il 27 novembre a palazzo Madama è sicuramente uno: impedire che i pentiti si riscontrino vicendevolmente.
Tra la fine di ottobre e il 4 dicembre 2009, quando cominciano a circolare le prime indiscrezioni sui verbali di Gaspare Spatuzza che poi depone a Palermo al processo Dell´Utri, sui giornali si scatena il tam tam di una possibile incriminazione per mafia ai danni di Berlusconi. Ed ecco che, in chiave preventiva almeno per lui, successiva ma salvifica per Marcello Dell´Utri, comunque in anticipo rispetto a un´imputazione che in quel momento sembra probabile, la macchina delle leggi salva premier si muove.
Entra in campo il senatore Giuseppe Valentino, calabrese per nascita, di professione avvocato, avverso ai pentiti per via di un´inchiesta che lo coinvolse nel 2004 per voti della ‘ndrangheta, ex aennino finiano dato ormai per seguace del Cavaliere, vice di Niccolò Ghedini nella consulta pdl per la giustizia. Si produce in un ddl che a palazzo Madama porta il numero progressivo 1.912, comunicato alla presidenza a fine novembre, e che dal 26 gennaio figura tra quelli che saranno esaminati, discussi, approvati in commissione Giustizia. Due articoli, niente norma transitoria che regola l´applicazione ai processi in corso, ma va da sé che trattandosi di norme più favorevoli per l´imputato non possono che applicarsi immediatamente. Dell´Utri compreso.
Il relatore è Piero Longo, avvocato di Berlusconi assieme a Ghedini. Una scelta che si commenta da sola. Il titolo della proposta, di per sé, pare anonimo: «Modifica degli articoli 192 e 195 del codice di procedura penale in materia di valutazione della prova e di testimonianza indiretta». Sono quelli che regolano per l´appunto i mezzi di prova e stabiliscono quando una testimonianza può avere valore oppure no in un processo. D´ora in avanti, se passa il testo di Valentino, la regola sarà scritta così: «Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso assumono valore probatorio o di indizio solo in presenza di specifici riscontri esterni».
A Palermo, a Reggio Calabria, a Napoli, quando i magistrati apprendono di una norma del genere entrano in fibrillazione. Perché essa trasforma in perentoria disposizione quanto scrive l´attuale articolo 192, comma 3, del codice di procedura: «Le dichiarazioni sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l´attendibilità». E se è vero che esiste una giurisprudenza ormai acquisita della Cassazione sulla necessità dei cosiddetti “riscontri obiettivi”, tuttavia altra cosa è stabilire per legge il valore probatorio «solo» in presenza di «specifici riscontri esterni».
Ma non basta. Perché la legge di Valentino aggiunge altri due commi, il bis e il ter, all´articolo 192. Nel bis è scritto: «Le dichiarazioni di più coimputati o imputati in procedimenti connessi assumono valore probatorio o di indizio ove sussistano le condizioni di cui al comma precedente». Quindi, al di fuori di questa regola, è tutto da buttare via. Ma ecco l´ultima botta, la più micidiale, il comma ter: «Sono inutilizzabili le dichiarazioni anche in caso di riscontri meramente parziali». Vale l´esempio che propone, nell´intervista qui sotto, Gianrico Carofiglio a proposito di un pentito che parla di cinque omicidi. Oggi si può condannare per le prove trovate per i primi quattro e assolvere per l´ultimo. Con le regole di Valentino le rivelazioni del pentito diventeranno carta straccia per tutti.
Non contento, il senatore va avanti e cambia l´articolo 195, allargando ulteriormente le maglie dell´«inutilizzabilità». Se oggi le dichiarazioni di un testimone che ha appreso notizie fondamentali per il processo da un altro si possono sempre usare «salvo che l´esame risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità», da domani solo «l´infermità temporanea» lascerà campo libero. E quindi il poliziotto che raccoglie l´ultimo fiato della vittima di un killer e che fa il nome del suo assassino non potrà darne testimonianza, né tantomeno potrà farlo chi ha raccolto le confidenze di un immigrato che nel frattempo è scomparso nel nulla. Garantismo o morte della giustizia? Il “processo” alla proposta di legge di Valentino è aperto. Ma tutto si può dire tranne che giochi a favore della lotta alla mafia.
La Repubblica 02.02.10

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“L’impunità assoluta”, di Giuseppe D’Avanzo,

Nonostante i proclami, amici della mafia se serve al padrone. Senza alcun dibattito pubblico, le immunità per le oligarchie politiche e le burocrazie dello Stato, che si rendono obbedienti, appaiono il canone che ispira le mosse del governo e la produzione legislativa della maggioranza.

Si fa largo l’idea di «un primato della politica» che vuole rendere indiscutibile, per chi ha il potere, una protezione assoluta nei confronti del controllo di legalità. Ovunque si guardi, si può afferrare la tendenza della politica a costruire schermi, muri, privilegi, autoesenzioni. In una sola giornata, si possono cogliere due segni della pericolosa asimmetria che incuba, nascosta, nel Palazzo.

Un disegno di legge, in discussione al Senato (relatore Piero Longo, avvocato di Berlusconi), prescrive ai giudici come valutare le fonti di prova offerte dai “disertori” delle mafie. Se il progetto diventasse legge, le dichiarazioni rese dal coimputato (e da imputati di procedimento connesso) avrebbero valore probatorio «solo in presenza di specifici riscontri esterni». Anche se il dibattimento riuscisse a raccogliere «riscontri meramente parziali», quelle dichiarazioni sarebbero «inutilizzabili». Sono norme che possono disarticolare annientandole, dal punto di vista giudiziario, le dichiarazioni di quei testimoni dei processi di mafia che impropriamente diciamo «pentiti». Quanti saranno i processi che “moriranno” per infarto legislativo? E che ne sarà della lotta alle mafie, glorificata appena qualche giorno fa dall’intero governo a Reggio Calabria?

Non è una novità che i ricordi, le accuse dei «collaboratori di giustizia» debbano avere verifiche “interne” ed “esterne”, conferme «intrinseche e estrinseche», come si dice nel gergo dei legulei. Si sa che non sono sufficienti le dichiarazioni incrociate. Lo ha stabilito, e da tempo, la Corte suprema di Cassazione, chiarendo però che se due “disertori” concordano con una ricostruzione dei fatti, il lavoro del giudice deve accertare «in modo scrupoloso e meditato, l’autonomia di ogni singola collaborazione. In caso di positiva verifica di attendibilità, dalla convergenza delle dichiarazioni devono trarsi tutte implicazioni del caso. Si deve in particolare dedurre l’efficacia di riscontro reciproco delle dichiarazioni convergenti e il consolidamento del quadro di accusa». (Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza n. 542/2008, sul cosiddetto caso Contrada).

Ora, è fin troppo facile farsi venire cattivi pensieri, in tempi di leggi ad personam. E’ fin troppo semplice intuire che la norma contro i testimoni di mafia nasca, d’improvviso e segreta, quando all’orizzonte del processo contro Marcello Dell’Utri appare Gaspare Spatuzza, che non esita a chiamare in causa anche il presidente del Consiglio. Con la nuova legge, anche se Filippo e Giuseppe Graviano avessero confermato in aula il racconto del loro compare, l’intera ricostruzione sarebbe stata inutilizzabile.

Qui però preme rilevare altro, la volontà del legislatore di creare argini così ferrei da impedire e restringere i “naturali” margini di autonomia interpretativa del giudice. Si vieta ogni interpretazione della legge. Si afferma l’idea di un giudice che si conformi rigidamente alla volontà del legislatore anche a costo di accantonare principi costituzionali, ragionevolezza, buon senso, convincimento logico. Affiora una concezione «assolutistica» del “primato della politica” sulla giurisdizione.

La tendenza è ancora più evidente nelle conclusioni del caso Abu Omar. L’uomo, Osama Nasr Moustafà (Abu Omar è il nome religioso), è l’imam nella moschea di viale Jenner a Milano. Ha 39 anni, è egiziano, in Italia è protetto dal diritto di asilo. La Cia lo accusa di essere un “terrorista” di Al Qaeda. E’ una cinica astuzia, abituale nella stagione della “guerra al terrore”. L’accusa è un modo per dare pressione al povero disgraziato, metterlo con le spalle al muro schiacciato da un’alternativa del diavolo: o collabora con l’intelligence americana e italiana e si fa spia tra i suoi o Cia e Sismi (l’intelligence italiana diretta da Niccolò Pollari) lo incappucciano, lo sequestrano, lo spediscono nella sala di tortura di un carcere nordafricano dove la sua ostinazione a conservarsi “integro” verrà messa alla prova. E’ quel che accade all’egiziano. Chi rapisce Abu Omar il 17 febbraio 2002? Un processo a Milano accerta che sono stati agenti della Cia. Che ruolo hanno avuto le barbe finte di casa nostra? Il giudice Oscar Magi ha le idee molto chiare. Scrive, nelle motivazioni, che Niccolò Pollari, il suo staff, i suoi agenti erano a conoscenza dell’azione degli “americani”, si sono voltati dall’altra parte e, quando è scoppiata la grana, hanno ostacolo e inquinato le indagini della magistratura. Pollari e i suoi si salvano da una condanna protetti da un segreto di Stato, opposto dai governi Prodi e Berlusconi con un «paradosso logico e giuridico»: sul sequestro di Abu Omar non c’è segreto, ma il segreto impedisce di accertare le responsabilità di chi ci ha messo le mani. Il giudice di Milano osserva che l’iniziativa del governo estende «l’area del segreto in modo assolutamente abnorme» trasformando il segreto di Stato «in un’eccezione assoluta e incontrollabile allo stato di diritto». Un’interpretazione «pericolosa» che, anche in presenza di reati gravissimi (il sequestro di persona lo è), offre alle barbe finte «un’immunità di tipo assoluto non consentita da nessuna legge di questa Repubblica» e affidata all’arbitrio dell’autorità.

Qui è l’arbitrarietà dell’opposizione del segreto di Stato a mostrarci come la giurisdizione sia umiliata da una politica che impone la sua sovranità e con il suo «primato» offre un’impunità di dubbia legittimità costituzionale a burocrati sottomessi e docili.

Il lavoro dei servizi di informazione deve salvaguardare l’indipendenza e l’integrità dello Stato, tutelare lo Stato democratico e le istituzioni che lo sorreggono. Il segreto è lo strumento che consente all’intelligence di difendere gli «interessi supremi». Che sono «l’integrità della Repubblica; la difesa delle Istituzioni; l’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati; la preparazione e la difesa militare dello Stato». Nessuno di questi interessi può essere minacciato dall’accertamento di che cosa è accaduto – e con la responsabilità di chi – quella mattina del 17 febbraio del 2003, a meno di non pensare che diventi legale un sequestro di persona e legittima la violazione della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Il governo ritiene, dunque, che sia nelle sue prerogative anche la tutela di un interesse non «supremo» ma politico disegnando quindi, ancora una volta, una scena che attribuisce una signoria della politica sulla legge. Se ne scorge l’esito. La regola non è più la pubblicità e il segreto, l’eccezione. Al contrario, il segreto diviene (può divenire da oggi) pratica d’uso quotidiano di un presidente del Consiglio che decide, alla luce di un interesse tutto politico, che cosa si può conoscere e che cosa deve restare pubblicamente nascosto.

Il legislatore che, rivendicando un «primato», si cucina per sé e per la sua oligarchia una protezione dalla legalità e un governo che rifiuta di governare in pubblico pretendendo per sé un potere sovrano e segreto non separano soltanto la legittimità dalla legalità, ma anche la democrazia dalla Costituzione. Sembra questo il più autentico focus della stagione che ci attende.
La Repubblica 02.02.10