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"Stranieri più precari e disoccupati", di Leonard Berberi

Cresce la disoccupazione. Le donne reggono meglio degli uomini, mentre tra chi lavora un quarto è comunque precario. Ed è il Nord Ovest che preoccupa. È l’ultima fotografia del mercato del lavoro degli stranieri in Italia. A scattarla è la Fondazione Leone Moressa che ha analizzato i dati Istat dei primi tre trimestri 2009 a confronto con lo stesso periodo dell’anno precedente. «La crisi ha picchiato duro sulle fasce più deboli, soprattutto sugli immigrati che sono da sempre una delle categorie più esposte», spiega Valeria Benvenuti, ricercatrice della fondazione Moressa. A trascinare al ribasso il dato generale è il lavoratore di sesso maschile. Perché se nella componente femminile la disoccupazione è aumentata del 16,9%, in quella maschile il balzo è dell’84,6. «Le donne sembrano aver retto meglio – continua la Benvenuti –, soprattutto perché occupano settori come i servizi alle persone e la ristorazione che fino ad adesso cedono, ma non crollano. Gli uomini, invece, sono impiegati in aree maggiormente colpite come le costruzioni e la manifattura».

In un anno – scrive il rapporto della fondazione veneta – i disoccupati con passaporto extra-Ue (in totale 155mila) sono cresciuti del 29%, mentre i comunitari (70mila) addirittura del 93,6. Nello stesso periodo di riferimento quelli italiani hanno registrato +9,7 per cento.
L’esercito degli stranieri, d’altro canto, aumenta di anno in anno. Infatti, al 30 settembre 2009, la forza lavoro straniera è salita (del 33% i comunitari e del 5% gli extraUe) e registra più uomini che donne (1.214.166 contro 885.825). La recessione ha però ridotto i posti a disposizione. Da un lato cala il tasso di occupazione dei lavoratori stranieri dal 65,7 al 63,6 per cento. Dall’altro, aumenta quello di disoccupazione: dall’8,3 al 10,7 per cento. L’area più colpita dall’aumento della disoccupazione straniera è il Nord-Ovest che, in un anno, segna +60,9 per cento del numero di disoccupati.

Ma ci sono anche segnali positivi. Le famiglie italiane hanno sempre più bisogno dell’aiuto delle colf e badanti: infatti sul fronte occupati, le donne straniere hanno registrato un balzo di +13,6 per cento. A trascinare in positivo il numero degli occupati stranieri – scrivono i ricercatori della Fondazione Moressa – è anche l’agricoltura. La quale, nella media primi nove mesi 2009 sui primi nove mesi 2008 segna un deciso +35 per cento.
Il balzo dell’agricoltura, secondo Valeria Benvenuti, «è dovuto al fatto che c’è una forte vivacità nella richiesta. Ma dipende anche dal fatto che le pratiche di emersione dal lavoro irregolare stanno funzionando».

La fotografia della fondazione veneta mette a fuoco anche le tipologie contrattuali: uno straniero su quattro è un lavoratore precario. Tra questi, quasi tutti hanno un impiego a termine (46%) o part time (50,5%). Con l’aggiunta, in entrambi i casi, di una parola: “involontario”. Tradotto, vuol dire che il contratto stipulato presenta clausole imposte dal datore di lavoro. Insomma, al momento della firma, gli stranieri hanno avuto soltanto due opzioni: accettare l’accordo per come è stato proposto o niente. Sul totale degli occupati stranieri, infine, tre su dieci hanno un’occupazione “atipica” (lavoro dipendente a tempo determinato, a tempo indeterminato part time e collaboratori). Il dato degli italiani è dieci punti percentuali inferiore (19,2). «La domanda di lavoro ci sarà sempre – conclude la Benvenuti –, ma il momento poco buono per l’economia nazionale ha introdotto alcune anomalie nel mercato dell’impiego.
Certo la disoccupazione continuerà a restare alta, almeno fino a quando i dati macroeconomici non miglioreranno. Ed è proprio in questo momento che bisogna fare molta attenzione ai lavoratori immigrati. Soprattutto perché buona parte delle famiglie straniere che vivono in Italia sono monoreddito».
Il Sole 24 Ore 01.02.10

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“Immigrati: lavorano di più, pagati di meno”, di Vladimiro Polchi
Ricerca: per chi non ha permesso di soggiorno salario medio di 5 euro l´ora. Lo studio della Fondazione Debenedetti. In aumento le morti bianche. Fa turni pesanti, spesso notturni, lavora in nero, anche il sabato e la domenica, guadagna meno di 5 euro l´ora. Eccolo l´identikit dell´immigrato irregolare: salario basso, lavoro pesante. Manodopera a basso costo, «spesso funzionale alla nostra economia».
A fotografare l´opaco mondo degli invisibili è un´indagine condotta tra ottobre e novembre 2009 dall´economista Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti. I primi risultati sono stati presentati il 29 gennaio a Bologna, nel corso del “Forum sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, organizzato dalla fondazione Alma Mater. Cosa ne emerge? Innanzitutto una smentita all´equazione tra immigrati e criminali, cara al premier Silvio Berlusconi. Gli irregolari (422mila secondo l´Ismu) lavorano di più e guadagnano di meno rispetto a chi ha i documenti in regola. Insomma, sono una risorsa per molti imprenditori privi di scrupoli. Il 66% degli irregolari, infatti, ha un lavoro, nonostante sia privo di un titolo legale per rimanere in Italia. È impiegato in nero e fa turni molto pesanti: l´80% non si ferma neppure il sabato, il 31,8% lavora di domenica e il 38% fa anche turni notturni (contro il 22% degli immigrati regolari).
Lavorano tanto, ma guadagnano poco. «Il 40% di chi non ha il permesso di soggiorno – spiega Boeri – guadagna meno di 5 euro l´ora, mentre fra i regolari la percentuale scende al 10%». Chi non è in regola guadagna in media il 12,4% in meno di chi lo è. Ancora peggio va alle donne prive di permesso di soggiorno: loro guadagnano fino al 17% in meno. «Questi risultati – prosegue Boeri – spiegano perché gli immigrati irregolari continuano a venire in Italia: trovano facilmente lavoro, anche senza permesso di soggiorno. E i datori di lavoro possono pagarli ancor meno di quanto pagherebbero i regolari».
Non è tutto. I lavoratori immigrati sono anche i più soggetti a infortuni. «Le morti bianche – racconta Boeri – aumentano fra gli stranieri (+8% dal 2005 al 2007) e calano fra gli italiani». Nel presentare i dati sull´andamento infortunistico in Italia il presidente dell´Inail, Marco Fabio Sartori, ha infatti dichiarato che «in termini relativi, l´incidenza infortunistica risulta più elevata per gli stranieri: 44 casi denunciati ogni 1000 occupati, contro i 39 degli italiani. I motivi sono spesso riconducibili all´impiego di questi lavoratori in attività più a rischio, connotate da una forte componente manuale e in assenza di un´adeguata formazione professionale». Nel 2008 gli infortuni di immigrati, denunciati all´Inail, sono stati oltre 143mila e di questi 176 mortali.
In base all´ultimo dossier Caritas/Migrantes, in totale gli infortuni occorsi agli stranieri rappresentano il 16,4% di tutti gli eventi registrati in Italia. Insomma, ogni sei operai feriti o uccisi mentre lavorano, uno è straniero. Un dato che va letto alla luce del fatto che gli immigrati rappresentano solo il 7% della forza lavoro.
Un aspetto centrale negli infortuni agli immigrati è inoltre il persistere di livelli di sottodenuncia e di incidenti che sfuggono a ogni controllo. L´opacità è massima tra gli irregolari, che denunciano molto raramente infortuni più o meno gravi per paura di perdere il lavoro o di venire identificati ed espulsi. «Abbiamo raccolto molti casi di immigrati irregolari che dopo aver denunciato il loro datore di lavoro, in seguito a un infortunio, hanno visto consegnarsi dalla questura un decreto d´espulsione – sostiene l´avvocato Marco Paggi dell´Asgi (Associazione di studi giuridici sull´immigrazione) – e col reato di clandestinità le cose possono solo peggiorare».
«È per questo ancora più grave – afferma Boeri – che la scorsa settimana il Senato abbia negato il permesso di soggiorno agli irregolari che denunciano lo sfruttamento da parte dei datori di lavoro e che, anche questa volta, le associazioni imprenditoriali non abbiano fatto sentire la loro voce. Forse perché tante piccole e medie imprese continuano a beneficiare proprio dell´irregolarità».
La Repubblica 01.02.10

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Scarsa mobilità per andare in cerca di nuove chance di Gian Carlo Blangiardo

Immigrati stranieri, poco “emigranti” in Italia. I dati più recenti sui trasferimenti di residenza della popolazione straniera indicano che circa un soggetto ogni venti ha modificato, nel corso di un anno, la propria dimora abituale. Pur aggregando il 15% del totale dei movimenti anagrafici interni al paese (come espressione di un collettivo che rappresenta circa il 7% del totale dei residenti), non si può certo parlare di ingenti masse che si muovono lungo la penisola – e ancor meno che la risalgono impetuosamente – alla ricerca di nuove e migliori opportunità di lavoro. Di fatto sono circa 230mila le cancellazioni e (in parallelo) le iscrizioni di cittadini stranieri dalle (e nelle) anagrafi di uno degli oltre 8mila comuni italiani. Se si pensa che nello stesso intervallo di tempo le iscrizioni direttamente provenienti dall’estero sono state poco meno di 500mila si ha la conferma di un modello di mobilità degli stranieri ancora riconducibile più a esperienze di primo insediamento che a fenomeni di progressione verso nuovi ambiti territoriali.

Tuttavia, seppur relativamente contenuti nella loro dimensione quantitativa, i percorsi di mobilità interna valgono a localizzare alcuni interessanti poli di attrazione e di espulsione e aiutano a comprendere la geografia della presenza e della crescita della popolazione straniera nel nostro paese. In tal senso l’analisi dei dati provinciali offre spunti per cogliere, da un lato, la classica contrapposizione Nord-Sud, dall’altro l’effetto espulsivo, o semplicemente redistributivo, che sembra attribuibile alle grandi aree metropolitane. In particolare, nell’ambito delle attuali 107 province circa due terzi mostrano un saldo positivo relativamente al movimento interno della popolazione straniera e tra di esse rientrano quasi tutte quelle situate al Centro Nord, con poche eccezioni – quand’anche di rilievo – per lo più in corrispondenza delle grandi province metropolitane (Torino, Milano, Firenze e Roma).

Ben diversa è la situazione nel Mezzogiorno, dove i saldi migratori degli stranieri per spostamenti di residenza entro il territorio nazionale sono pressoché ovunque negativi, con modeste eccezioni in alcune realtà minori della Sardegna e nelle province di Brindisi e Matera. Se poi dai dati assoluti si passa ai relativi tassi – commisurando il saldo migratorio alla corrispondente consistenza numerica dei residenti – emerge con chiarezza anche la differenziazione tra aree metropolitane e non. Delle 24 province con un tasso positivo almeno nell’ordine del 10 per mille, sono solo quelle di Bergamo, Brescia e Genova a presentare una grande città come comune capoluogo. In tutti gli altri casi si tratta di realtà provinciali meno contraddistinte da un grande polo urbano.

Passando poi all’analisi dei dati comunali, ci si rende conto che, nel ristretto insieme delle 28 realtà municipali con almeno 10mila stranieri residenti, tra i 16 comuni che risultano attrattivi (ossia caratterizzati da un indice migratorio positivo riguardo alla la mobilità interna della popolazione straniera) si ha unicamente la presenza delle grandi città di Genova e Bologna; si segnalano come illustri assenti i comuni di Roma, Milano, Torino e Firenze. In particolare, i primi tre – ovvero le sole città italiane con almeno 100mila residenti stranieri – risultano caratterizzati nel 2008 da un surplus di uscite (rispetto alle entrate) che, allorché si considerano i processi di mobilità interna, va dalle mille unità di Torino alle 3-4mila di Milano e Roma; se però si guarda al flusso netto delle provenienze dall’estero si rileva come esse continuino a richiamare saldi netti positivi e consistenti: si va dalla decina di migliaia di unità per Torino e Milano, a più di 30mila per Roma.

In conclusione, la lettura dei dati anagrafici sulla mobilità interna consegna l’immagine di una presenza straniera che sembra ancora vedere nella grande città un riferimento primario, ma al tempo stesso non manca di scoprire progressivamente, spesso spinta dalla difficoltà del vivere quotidiano, realtà territoriali più periferiche. Si tratta in molti casi di ambiti in cui le migliori opportunità residenziali sembrano poter anche agevolare il processo di trasformazione verso una presenza più di tipo familiare e verosimilmente verso progetti migratori più stabili; spesso destinati a trasformarsi in definitivi
Fondazione Ismu – Università Milano Bicocca
Il Sole 24 Ore 01.02.10