partito democratico

"Pier Luigi, un marziano a Roma", di Fabio Martini

Sembrava una serata come tante e invece accadde l’imponderabile. Era l’ora di cena, il Tg1 era finito da poco, nella sede nazionale del Pd stavano spegnendo le luci, quando Pier Luigi Bersani, incrociando una delle ragazze dello staff, le ha chiesto: «Come siamo andati sui Tg?». Strano a dirsi, ma quella domanda – qualche giorno fa – è diventata un piccolo evento in casa Pd. Perché Bersani è uno che non sta «appeso» ai telegiornali e anzi spesso non li vede proprio, in questo lontano anni luce da personaggi come Rutelli o Veltroni. Stesso approccio per la parola scritta: «Che dicono i giornali?».

Bersani è fatto così. Per lui spin doctor, framing o cabine di regia – l’abc della comunicazione – sono espedienti che non cambiano la sostanza, perché la politica è fatta di fatti concreti. Nei primi cento giorni da leader del Pd, Bersani non si è travestito, non ha fatto nulla per costruirsi addosso un’«immagine», non è riuscito neppure una volta a cambiare l’agenda del dibattito politico. Se tutto questo sia un limite o invece un investimento consapevole su sé stesso come «personaggio» capovolto rispetto a Berlusconi, è ancora presto per dirlo. Ma una cosa è certa: questo profilo basso si accoppia – secondo osservatori di diverse tendenze – ad un deficit politico più complessivo per un leader che sinora, più che scegliere, ha preferito temporeggiare.

Per Giuliano Ferrara «Bersani non ci sa fare, è proprio una cara persona, molto competente in fatto di piastrelle e distretti», ma la sua vicenda dimostra perché il Pci «non aveva mai dato il potere agli emiliani, gente seria ma inetta nella guerra, nella comunicazione politica». Per Eugenio Scalfari «Bersani sembra un cacciatore con il falcone D’Alema sulle spalle e non è questo il segretario di cui il partito ha bisogno». Stroncature brucianti e non isolate. Eppure, nei suoi primi cento giorni, Bersani è rimasto così enigmatico che dietro quel muro potrebbero esserci le ragioni di una ulteriore caduta, ma anche quelle di un riscatto. Della sua famiglia – piacentina, cattolica, democristiana e abituata all’affabilità di strada (il papà aveva una pompa di benzina) – il Bersani politico ha mantenuto la rotondità e soprattutto il pragmatismo emiliano, tanto è vero che «nei Consigli dei ministri – racconta un collega – quando si accendeva una discussione politica, lui si metteva a leggere, limitandosi a intervenire soltanto sulle questioni di sua stretta competenza». E infatti non appena qualcuno prova a stringerlo su dirimenti questioni politiche, lui sfodera spesso quei suoi aforismi spiazzanti, tipo «bisogna metter l’orecchio a terra…».

Un approccio al quale Bersani aggiunge un quid personale che ne fa una specie di marziano. Tutti i leader hanno la loro segretaria storica, il loro autista, il loro guardaspalle, la loro corrente. Lui, nulla di tutto questo. E’ un solitario e spesso, quando si fa l’ora di pranzo, può capitare che si rivolga a chi capita, anche a un uomo della scorta: «Ci andiamo a fare una birra?». E in un partito nel quale, per dirla con Edmondo Berselli, si sta affermando «un modello balcanizzato», dei bersaniani non c’è traccia. Quando lo hanno eletto, in una stanza dove erano riuniti i suoi sostenitori (D’Alema in testa), Bersani disse: «Ricordatevi che da oggi portate in giro la mia faccia!».

Certo, il segretario si fida di Maurizio Migliavacca, il «mastino» dell’organizzazione e parla con piacere con Vincenzo Visco e Alfredo Reichlin. Certo, a D’Alema è fortissimamente legato anche per la comune conoscenza di tante vicende dell’«economia reale», ma quando incombe un problema, Bersani si confida soltanto con una persona: Vasco Errani. Gli amici, dunque, sono tutti ex comunisti e proprio al Pci, spesso, fa pensare il segretario: nell’ultima riunione della direzione, sotto choc per la vicenda pugliese, a chi si aspettava colpi d’ala, Bersani ha proposto «la festa del tesseramento» e una replica delle anemiche «cento piazze per l’alternativa».

Confida Bersani: «Ma perché mi volete far somigliare a Berlusconi? Semmai sono più simile a Prodi». A quel parallelo pensano in tanti (compreso l’indimenticabile «semaforo» di Corrado Guzzanti), anche se il Professore aveva una combattività che gli derivava dall’essere stato, da democristiano emiliano, all’opposizione a lungo, mentre «Pier Luigi – sostiene un compagno di Bologna, che lo ha cresciuto – ha mantenuto lo stesso passo lento dei dirigenti del Pci emiliano, perché qui da noi il partito era così forte che la società poteva aspettare». Convincente chiave interpretativa.

Eppure, proprio ieri Bersani ha letto l’ultimo sondaggio riservato, a cadenza settimanale, sulla fiducia nei leader italiani. Primo Napolitano, secondo Fini, terzo Bersani, quarto Berlusconi. Un terzo posto stabile. Che accoppiato al 29,7% per il Pd, fanno sperare a Bersani che, prima o poi, anche l’Italia potrebbe cominciare a somigliare alla sua Emilia.
La Stampa 03.02.10