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"Afghanistan meglio che Obama si ritiri", di Mikhail Gorbaciov

L’Afghanistan è in subbuglio, con tensioni crescenti e morti quotidiani, molti dei quali – compresi donne, bambini e anziani – nulla hanno in comune con terroristi o militanti. Il governo sta perdendo il controllo del suo territorio: delle 34 province, una decina sono nelle mani dei taleban. La produzione e l’esportazione di oppio sta crescendo. E c’è il rischio concreto che la destabilizzazione si estenda ai Paesi vicini, comprese le repubbliche dell’Asia centrale e il Pakistan. Ciò che è iniziato nel settembre 2009 dopo la rielezione di Karzai – una risposta militare al terrorismo, in apparenza appropriata – potrebbe finire in un colossale fallimento strategico. Dobbiamo capire perché sta succedendo e che cosa si può ancora fare per ribaltare una situazione quasi disastrosa. La recente conferenza internazionale sull’Afghanistan di Londra, cui hanno partecipato rappresentanti di molti Paesi e organizzazioni internazionali, è un primo passo in una nuova direzione. I delegati hanno preso decisioni che potrebbero capovolgere la situazione, a condizione che si rifletta su quanto è successo negli ultimi tre decenni e se ne tragga una lezione.

Nel 1979 il governo sovietico inviò i suoi soldati in Afghanistan, giustificando quella mossa con il desiderio di aiutare elementi amici e con la necessità di stabilizzare un Paese vicino.

L’errore più grave fu la mancata comprensione della complessità dell’Afghanistan: il suo mosaico di gruppi etnici, clan e tribù, le sue tradizioni uniche, il suo governo minimale. Così si ottenne il risultato opposto: un’instabilità ancora più grande, una guerra con migliaia di vittime e conseguenze pericolose per la Russia. In più l’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti, soffiò sul fuoco nello spirito della Guerra Fredda, pronto ad appoggiare chiunque contro l’Unione Sovietica, senza pensare alle conseguenze.

Come parte della perestrojka a metà degli Anni 80, la nuova leadership sovietica trasse le sue conclusioni dai guai in Afghanistan e prese due decisioni: ritirare i soldati e lavorare con tutte le parti in conflitto e con i governi coinvolti per arrivare a una riconciliazione nazionale e fare dell’Afghanistan un Paese pacifico e neutrale che non minacciasse nessuno.

Guardando indietro, io continuo a pensare che fosse un doppio percorso corretto e responsabile. Sono sicuro che, se fossimo riusciti a concluderlo, si sarebbero evitati problemi e disastri. Abbiamo lavorato molto e in buona fede, ma avevamo bisogno di una cooperazione sincera e responsabile da parte di tutti. Il governo afghano era pronto a scendere a patti e in un certo numero di regioni le cose cominciarono a migliorare. Ma il Pakistan e gli Stati Uniti bloccarono tutto. Volevano una sola cosa: il ritiro delle truppe sovietiche. Pensavano che così avrebbero avuto il pieno controllo dell’Afghanistan. Rifiutando anche il minimo appoggio al governo del presidente afghano Muhammad Najbullah, il mio successore Boris Eltsin fece il loro gioco.

Negli Anni 90 il mondo sembrava indifferente all’Afghanistan. In quel decennio il governo cadde nelle mani dei taleban, che trasformarono il Paese in un porto franco per i fondamentalisti islamici e un incubatore di terrorismo. L’11 settembre 2001 fu un brusco risveglio per i leader occidentali. Anche allora, però, l’Occidente prese una decisione che non era attentamente ponderata e perciò si rivelò sbagliata. Dopo aver spodestato il governo taleban, gli Stati Uniti pensarono che la vittoria militare, ottenuta a poco prezzo, fosse conclusiva e avesse risolto l’annoso problema. L’iniziale successo è stato probabilmente una delle ragioni per cui gli americani si aspettavano una «passeggiata» in Iraq, con ciò facendo anche laggiù un fatale errore di strategia militare. Nel frattempo costruivano in Afghanistan una facciata democratica, da difendere con le forze di sicurezza internazionali, cioè le truppe della Nato, che cercava di assumere il ruolo di poliziotto globale.

Il resto è storia. La via militare in Afghanistan si rivelò sempre meno sostenibile. Era un segreto di Pulcinella; anche l’ambasciatore degli Stati Uniti lo scriveva nei cablogrammi resi pubblici di recente. Negli ultimi mesi mi è stato chiesto più volte quale suggerimento darei al presidente Obama, che ha ereditato questo caos dal suo predecessore. La mia risposta è sempre stata la stessa: una soluzione politica e il ritiro delle truppe. Il che richiede una strategia di riconciliazione nazionale. Ora, finalmente, un piano molto simile a quanto noi avevamo suggerito più di vent’anni fa e i nostri partner avevano rifiutato è stato presentato all’incontro di Londra: riconciliazione, coinvolgendo nella ricostruzione tutti gli elementi più o meno ragionevoli e puntando su una soluzione politica più che militare.

L’inviato delle Nazioni Unite in Afghanistan ha detto in una recente intervista: occorre smilitarizzare l’intera strategia in Afghanistan. Che peccato che questo non sia stato detto, e fatto, molto prima! Oggi le probabilità di successo sono al massimo del cinquanta per cento. Ci sono stati contatti con alcuni elementi taleban. Ma molto di più va fatto per coinvolgere l’Iran e molto resta da fare con il Pakistan. La Russia potrebbe diventare un tassello importante del processo di stabilizzazione afghana. L’Occidente dovrebbe apprezzare la posizione dei suoi leader: lungi dal gongolare guardando l’Occidente che ingoia il rospo e lavandosene le mani, la Russia è pronta a collaborare con l’Occidente perché capisce che è nel suo interesse contrastare le minacce che arrivano dall’Afghanistan.

Mosca ha ragione a chiedere perché, negli anni della presenza militare Usa e Nato in Afghanistan, sia stato fatto poco o nulla contro l’oppio, che in grandi quantità arriva in Russia attraverso i confini porosi dei suoi vicini, minacciando la salute dei suoi abitanti. Ha anche ragione a chiedere accesso alle opportunità economiche in Afghanistan, compresa la ricostruzione di decine di progetti costruiti con il suo aiuto e distrutti negli Anni 90. La Russia è un vicino dell’Afghanistan e bisogna tener conto dei suoi interessi. Dovrebbe essere ovvio, ma qualche volta occorre ricordarlo.

Vorrei sperare che stia nascendo una nuova fase per il sofferente Afghanistan, un raggio di speranza per i suoi milioni di abitanti. L’opportunità è lì, ma per afferrarla occorrono realismo, tenacia, onestà nell’imparare dagli errori del passato e abilità nell’agire sulla base di quella conoscenza.

Copyright 2010 Mikhail Gorbaciov
Distributed by The New York Times Syndicate
La Stampa 09.02.10