economia, lavoro

Ricercatori, nuovo esercito di disoccupati

Sul tavolo del ministero dello Sviluppo ci sono i dossier di almeno 26 gruppi industriali d’informatica, telecomunicazioni e farmaceutica, cioè quelli dove più alta è la componente di ricerca e sviluppo, che attendono una soluzione. Ci sono aziende multinazionali che tagliano o si trasferiscono, e aziende italiane alle prese con il crollo delle commesse. «Piedmont, here you can». Suona oggi quasi beffardo quel «Piemonte, è qui che si può fare» con cui la rivista Scientific American aveva titolato un lungo servizio sul piccolo Eden della ricerca scientifica ai piedi delle Alpi. L’Olivetti del tempo che fu rimandava ormai solo l’immagine di edifici vuoti, ma in compenso erano arrivati i laboratori di Microsoft, avevano aperto i battenti le cinesi Huawei e Jac, la Indesit faceva lavorare a pieno ritmo il suo centro studi sugli elettrodomestici a basso impatto ambientale, allestito in collaborazione con il Politecnico a None, nella cintura torinese. Per non dire della sfida lanciata fin dal 1999 da Motorola: il tentativo di costruire una nuova identità post-fordista nell’area, attraverso un impianto dove circa 350 fra ricercatori, matematici e tecnici specializzati erano impegnati a sviluppare il sistema operativo Symbian per le telecomunicazioni cellulari. Nell’Eldorado piemontese l’industria privata ha investito nel 2008 oltre 1,5 miliardi di euro in ricerca, il 20% del totale nazionale.

Poi è arrivata la crisi. Oggi Indesit sta ragionando su un ridimensionamento d’attività che prefigura 300 esuberi su 500 dipendenti. E spera di salvare i 50 addetti alla progettazione. Nel novembre 2009 Motorola ha gettato la spugna. Si chiude. A evitare la caduta nel vuoto è però arrivato il provvidenziale intervento della Replay, che ha rilevato impianti e personale.

Il caso GlaxoSmithKline non è davvero l’unico in Italia. Sul tavolo del ministero dello Sviluppo ci sono i dossier di almeno 26 gruppi industriali d’informatica, telecomunicazioni e farmaceutica, cioè quelli dove più alta è la componente di ricerca e sviluppo, che attendono una soluzione. Ci sono aziende multinazionali che tagliano o si trasferiscono, e aziende italiane alle prese con il crollo delle commesse. In Campania, alla Ixfin di Marcianise (ex Olivetti ed ex Texas Instruments) c’è il rischio chiusura per 750 dipendenti. Nel gruppo Omega (Omnia e Eutelia) si contano quasi 3 mila esuberi su 5.600 addetti, alla Finmek (componentistica elettronica) quasi mille dipendenti vedono lo spettro della liquidazione, Eds-Hp parla di mille esuberi, Oerlikon (componenti auto) di almeno 800, Italtel taglia 400 addetti su 2.300. E poi, Siemens-Nokia: un punto interrogativo sui 270 addetti al polo di ricerca sulle reti di Cinisello Balsamo, nell’hinterland milanese, e 500 specialisti che lavorano sui ponti radio nel centro di Cassina de’ Pecchi che sentono sempre più minacciosa la concorrenza degli impianti del gruppo a Shanghai. «Il fenomeno è tanto più grave per il fatto che interessa settori innovativi dove l’Italia appare già debole», osserva Susanna Camusso, che segue per la Cgil le politiche dei comparti produttivi.

La Glaxo rischia dunque di essere soltanto l’ennesimo di una lunga serie di esodi di aziende multinazionali. Ma, a suo modo, rappresenta anche un salto di qualità. Non solo perché il gruppo britannico è fra i primi cento contribuenti in Italia, né perché alla vicenda sono appesi i destini dei 500 ricercatori specializzati che lavorano a Verona, cioè in quello che è il maggiore centro di ricerca farmaceutica in campo nazionale. Quello che è in gioco, come recitava lo stesso sito aziendale prima dell’annuncio degli esuberi, sono «quindici anni di lavoro per il futuro della ricerca farmacologica in psichiatria». Pochi giorni fa, il presidente di Farmindustria Sergio Dompè ha tracciato un quadro chiaro: «Non chiediamo soldi né incentivi — ha detto —. Quello che serve all’industria farmaceutica italiana è la certezza di un mercato stabile, di una politica che abbia qualche progettualità, di obiettivi a cui tendere, cioè far crescere i talenti italiani, che sono i più bravi al mondo ma troppo spesso sono costretti a fuggire all’estero per lavorare». Dompè parla di «governi che hanno sempre considerato il segmento dei medicinali solo come elemento per fare cassa: dal 2001 a oggi la spesa complessiva per la sanità è aumentata del 50% mentre quella per i farmaci si è ridotta del 2%».

Difficile, a questo punto, trovare una «pregiudiziale antitaliana» nel comportamento dei gruppi internazionali. Chi contesta il concetto ricorda come, nella classifica dell’Heritage Foundation sulla «libertà economica», il nostro Paese si collochi al 74mo posto. Vale a dire che offre un clima poco favorevole allo sviluppo imprenditoriale. Del resto, la storia delle «esternalizzazioni», come vengono definiti i trasferimenti dalle aziende, non è cominciata ieri. Dal 2000 al 2009 l’addio delle multinazionali al Belpaese ha lasciato un buco di circa 10 mila posti di lavoro, in parte tutt’altro che marginale occupati nei cosiddetti «centri di eccellenza». Non si perdono solo braccia, insomma, ma cervelli. Già dieci anni fa la Ibm ha ceduto il sito di Santa Palomba, vicino a Roma, alla controllata Celestica, che poi ha chiuso le attività. Nel 2003 Alcatel ha cominciato un ampio processo di ristrutturazione che ha comportato l’«esternalizzazione» di attività negli stabilimenti di Concorezzo, Maddaloni, Frosinone e Rieti, con la riduzione da quattromila a duemila dipendenti. E adesso di discute degli impianti Alcatel Lucent di Battipaglia, con 400 addetti occupati. Ancora: Ericsson Marconi ha deciso di trasferire i suoi laboratori di ricerca di Roma, con trecento ingegneri e tecnici specializzati che sono stati salvati solo grazie a un accordo di quattro atenei romani che ha dato vita al consorzio Coritel per la ricerca nel campo.
Il Corriere della Sera 10.02.10

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“Il caso Glaxo e la ricerca usa e getta “, di Pietro Greco
La GlaxoSmithKline, multinazionale inglese del farmaco, non recede. Nei giorni scorsi ha annunciato la chiusura, tra Europa e Canada, di cinque centri di ricerca, con il taglio di 4.500 ricercatori. Tra loro c’è il centro di Verona, che conta circa 600 ricercatori. Malgrado le proteste e le proposte di soluzione alternativa, la società ha confermato la decisione e a Verona saranno quasi in 500 i ricercatori, ottimi, a perdere il posto. La decisione della multinazionale non è causata da motivi specifici che riguardano l’Italia. La Glaxo ha deciso di abbandonare (o, forse, di delocalizzare) la ricerca nel campo delle neuroscienze. E, purtroppo, il centro di Verona ha il suo nucleo di attività proprio nel campo neuroscientifico, con ricerche sul dolore, la depressione, i disturbi del sonno, le dipendenze da droghe, alcol e fumo. In ogni caso, per noi si tratta di una nuova grossa perdita in un settore – la ricerca industriale – in cui siamo fanalini di coda in Europa. Una perdita difficile da accettare, perché viene da un’azienda florida – lo scorso anno ha maturato utili per oltre 2 miliardi di euro, aumentandoli del 66% rispetto al 2008 – ottenendo in Italia ben 24 milioni di euro di fondi pubblici proprio per sviluppare i suoi progetti di ricerca. La vicenda offre alcuni insegnamenti. Il primo è che le grandi multinazionali – in campo farmaceutico, ma non solo – sono di fatto irresponsabili: nel senso che non rispondono a nessuno dei loro comportamenti. Possono chiudere una fabbrica che produce in attivo o un centro di ricerca di grande prestigio – come quello di Verona – per motivi che sfuggono alla logica, compresa la logica economica. Il secondo insegnamento è che i privati portano sì risorse ingenti, talvolta molto ingenti, alla ricerca scientifica (i due terzi delle risorse finanziarie a disposizione della ricerca nel mondo vengono da privati): ma queste risorse alimentano una ricerca senza serenità. Perché è una ricerca che deve produrre risultati immediati e rispondenti a esigenze che possono essere difficili da capire. Il terzo insegnamento riguarda la geografia della ricerca. Secondo voci, peraltro smentite a Verona, la Glaxo chiuderebbe i cinque centri di ricerca in Europa e in Nord America, per aprirne di nuovi in Cina. Non sappiamo se questa voce sia vera. Certo è verosimile. L’Europa e il Nord America stanno perdendo appeal per la ricerca industriale, a tutto vantaggio dell’Asia. E della Cina in particolare, Paese dove lo sviluppo della scienza e dell’innovazione tecnologica prosegue da un decennio a ritmi impressionanti. È lì la nuova frontiera. E le imprese vi si affollano. Occorre che l’Europa prenda atto della nuova geografia della ricerca. E sviluppi politiche conseguenti, se non vuole restare fuori dall’economia della conoscenza
L’Unità 10.02.10