cultura, memoria

"Ho perdonato la killer di papà", intervista a Vittorio Bachelet di Antonella Rampino

L’atrio, la grande vetrata della facoltà di Scienze Politiche a Roma, è rimasto lo stesso» dice Giovanni Bachelet. In quell’atrio lui non ha mai visto «un lenzuolo di tela grossa, e sotto qualcosa come un fagotto, o un animale abbattuto e dal quale spuntava invece una fronte e un ciuffo di capelli grigi», secondo il racconto che ne fece Giampaolo Pansa. Alle 11 e 50 del 12 febbraio 1980 il professor Vittorio Bachelet, vicepresidente del Csm di Sandro Pertini, era stato spinto in un angolo da una studentessa agitata, nell’atrio desertificato «da una telefonata con la quale i brigatisti avevano lanciato l’allarme per una bomba, per questo eravamo lì soli», racconterà poi Rosy Bindi, testimone oculare dell’assassinio.

Quella ragazza agitata e con la pistola in mano si chiamava Laura Braghetti. Strattonò il professore perché si girasse verso di lei, e gli esplose tre colpi di pistola nella pancia. «L’ho incontrata per caso qualche anno fa, in una cosa organizzata dal comune di Roma sulle carceri», racconta Giovanni Bachelet. «Non l’avevo cercata, il perdono è un’altra cosa, il perdono è un’educazione interiore. Diceva Martin Luther King che “l’amore può trasformare un nemico in amico”, e l’odio invece si può prendere noi stessi, la nostra vita».

Degli insegnamenti che gli ha lasciato suo padre Vittorio, «un luminoso giurista cattolico» come lo chiamò Carlo Azeglio Ciampi, questo è forse il più profondo, e insieme il più legato al discorso pubblico, «anche adesso che siamo sulla buona strada e la memoria fatalmente individuale del terrorismo può diventare storia condivisa, con una crescente attenzione alle vittime, con maggiore cura nel non creare eroi. Vede, dobbiamo ringraziare Giorgio Napolitano, ha avuto come alleato il nuovo tempo del distacco, le giovani generazioni che riflettono sul terrorismo, e penso alle foto “Muri di piombo”, e al volume “Sedie vuote” con i familiari delle vittime che raccontano cos’è stata la loro vita davanti a quel vuoto».

«Non ci sarà mai nella tua vita una sedia vuota di me», scriveva a quello che amava la poetessa russa perseguitata dai sovietici Marina Cvetaeva, e quella sedia – nonostante tutto – non deve mai esser stata vuota nella vita di Giovanni Bachelet. Cattolico conciliare figlio di un padre presidente dell’Azione cattolica, e deputato del Pd impegnato a difesa della Costituzione, proprio come faceva suo padre negli anni in cui la Repubblica era squassata da un omicidio politico al giorno. La lezione che resta di quella vita «è la difesa e l’impegno ad attuare la Costituzione. Per la generazione di mio padre, che viene subito dopo quella dei Costituenti, la carta comune era la forza e il simbolo di una giovinezza che rinasce dalle macerie. La Costituzione, cuore della nuova vita repubblicana. E poi l’impegno dei cattolici democratici, dopo un periodo di collusioni dei cattolici col regime fascista». Quell’impegno costituzionale «di cui c’è bisogno ancora oggi, perché la carta comune non è stata pienamente attuata, dalle carceri alle autonomie locali, dai diritti alla salute, e di certo a mio padre non sarebbe piaciuta una vita democratica che ruota attorno a una figura predominante, quasi presidenziale».

E poi l’altra Costituzione, il Concilio Vaticano II. «Alcuni lo credono superato, come fosse stato abrogato. Non è così. L’ho detto a Gustavo Zagrebelsky. C’è una Chiesa che non vive “Spes cum gaudium”, c’è una Chiesa che guarda agli orrori del mondo moderno accigliata e con sospetto. Ma quando a mio padre due Papi diedero il mandato all’Azione cattolica, sia Giovanni XXIII che Paolo VI dissero “abbiamo svolto opera di supplenza e appoggio a un partito politico, ed era la Democrazia cristiana, adesso l’Azione cattolica deve tornare alla scelta religiosa”. Quelle parole sono ancora valide, in tutte le parrocchie italiane. Impegno religioso e politico sono separati, la Chiesa non ha ucciso il Concilio, la Chiesa sta solo camminando più lentamente, in mezzo a politici che le si genuflettono davanti».

L’atrio di Scienze politiche è ancora lì, e così pure la stanza 2, quella di Aldo Moro, e la 5, quella in cui insegnava D’Antona. «E’ vero, io quel giorno non c’ero. Ho appreso della morte di mio padre in una stanza del New Jersey, ero lì per il primo lavoro della mia vita, alle sei del mattino. Mia madre aveva chiesto a due amici, Federico Capasso e Wanda Andreoni, di dirmelo di persona. Sapevamo che sarebbe potuto accadere, ne avevamo parlato anche quando lui rifiutò la scorta. Moriva ammazzato dal terrorismo rosso o nero un magistrato ogni settimana, la regola era “colpirne uno per educarne 100”, anche allora c’era chi si tirava indietro e chi no. Bisognava continuare a fare il proprio dovere, senza cambiare scelte vita. L’ultima volta che ho visto mio padre era il 23 agosto del 1979: adesso diventa bravo in fisica mi disse, sennò, tutti i tuoi ideali, il cattolicesimo e l’impegno politico, non serviranno a niente. Non so se ci sono riuscito, non ho mai potuto chiederlo a lui».
La Stampa 11.02.10