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«Il finale di partita», di Sofia Toselli*

E così siamo arrivati al finale di partita. Di fronte a quella che viene mediaticamente definita una ’”grande riforma”, quella della scuola superiore, che invece ci condurrà ad una clamorosa involuzione: culturale, democratica e produttiva.Il livello di civiltà di un paese oggi si gioca sul terreno della cittadinanza consapevole, cioè sulla capacità di tutti i cittadini di governare responsabilmente la propria esistenza, di capire e controllare i processi tecnologici, scientifici, ambientali ed economici in atto, di modificare – nell’interesse comune – stili di vita e di pensiero, di far fronte alle sfide che la contemporaneità pone, di riutilizzare in ogni contesto lavorativo e in ogni età della vita le conoscenze e le competenze apprese a scuola. E’ dunque obiettivo strategico della scuola quello di formare mentalità critiche, capaci di risolvere problemi, di abituare al dubbio, all’imprevisto, alla curiosità; e, contemporaneamente, di sviluppare il pensiero logico e razionale in grado di confrontarsi con la dimensione scientifica, tecnica, storica e con ogni altro aspetto dell’espressività umana. Oltre al compito di educare al rispetto di regole, patti e persone salvaguardando valori condivisi e l’etica nei comportamenti pubblici e privati di cui si è persa traccia.

Serviva allora un grande dibattito, serviva un confronto ampio e serio, serviva intelligenza, sapienza, lungimiranza per arrivare ad una riforma moderna ed efficace del sistema scolastico (di tutto il sistema scolastico!) capace di contenere i cambiamenti culturali e sociali, nuove modalità di apprendimento, nuove condizioni e nuovi tempi di apprendimento.
Si è invece rinunciato a dibattere e a confrontarsi sui nodi di fondo. Si è rinunciato a trovare soluzioni adatte a combattere dispersione e abbandoni. A innalzare la qualità degli apprendimenti, a incoraggiare e premiare ricerca e innovazione.
La scuola superiore resta vecchia nel suo assetto ordinamentale, nel suo impianto culturale, nel suo modo di insegnare. Non basta allora dare un nome diverso alle cose perché esse esistano; nella scuola parlare di competenze chiave europee, di nuovi assi culturali, di metodologia laboratoriale non vuol dire nulla se non si rinnovano nel profondo conoscenze, insegnamenti, ambienti, tempi, professionalità. Se cioè non si creano le condizioni perché i cambiamenti avvengano. E i cambiamenti innanzitutto avvengono quando sono condivisi.
Mentre i regolamenti di riordino della secondaria superiore irrompono nella scuola al di fuori di un progetto culturale ed educativo condiviso, capace di rimettere la scuola in sinergia con le grandi questioni tipiche della contemporaneità. Le scelte del governo sono state fatte senza confronto reale, senza alcuna preliminare verifica delle esperienze maturate nelle scuole, senza pensare alla sostenibilità delle soluzioni adottate. Senza confronto parlamentare. Mortificando il ruolo degli Enti locali e delle Regioni, del CNPI, dei Sindacati e delle Associazioni professionali. Dissolvendo l’autonomia delle scuole.
Non si è dato neppure ascolto alla ragionevole e insistente richiesta di rinviare di un anno la messa a regime del nuovo ordinamento per consentire a studenti e famiglie almeno di compiere le scelte con maggiore consapevolezza.
Senza incertezze si è andati avanti e ora siamo di fronte a cambiamenti che hanno come prevalente obiettivo il drastico risparmio di spesa. Come se la cittadinanza e la democrazia fossero diventate un costo insostenibile per il nostro paese, tanto da indurre il ministro Gelmini a superare persino i risparmi richiesti da Tremonti.
Ma non c’è solo questo: c’è in gioco anche un disegno volto a riproporre una cultura a compartimenti stagni, che segnerà profonde divisioni sociali, funzionali (e propedeutiche nello stesso tempo) a una scuola strutturata gerarchicamente, dove la separazione fra culture, tra sapere e saper fare, è il caposaldo su cui poggerà l’impalcatura culturale e organizzativa del “riordinato” sistema scolastico. Come se, in un quadro di saperi e competenze di cittadinanza, fosse ancora possibile pensare a una istruzione che si fondi solo su una cultura “disinteressata” o solo su competenze a “spendibilità” immediata.
La decantata riforma “epocale” ripropone infatti un ordinamento scolastico che vede, dopo la terza media, da una parte i Licei destinati ai ragazzi “più bravi”, con famiglie in grado di sostenere la scelta di studi prolungati (il Liceo Classico in testa), dall’altra gli Istituti Tecnici per i cosiddetti “quadri intermedi”; infine i Professionali per chi svolgerà attività puramente esecutive, scelta residuale per i ragazzi più deboli, culturalmente e socialmente.
Non è neppure previsto – se non formalmente – un biennio obbligatorio e unitario di tutti gli indirizzi, che avrebbe dovuto avere l’obiettivo di costruire percorsi culturali di equivalente valenza educativa per consentire non scelte di ripiego, connotate socialmente, ma opzioni consapevoli, determinate da personali interessi e competenze.
Non basta: il comma 4 bis dell’articolo 64 della legge 133/08 recita: “L’obbligo di istruzione si assolve anche nei percorsi di istruzione e formazione professionale”.E un emendamento approvato dalla Commissione Lavoro della Camera, terminato il suo iter legislativo, consentirà a tanti quindicenni, considerati un fastidioso e costoso ingombro per la scuola, di assolvere l’obbligo di istruzione persino nell’apprendistato. Una scelta sbagliata e ingiusta che ha l’obiettivo di “smistare” i più deboli verso un canale privo di contenuti culturali e di efficacia formativa. L’idea è sempre la stessa: selezionare ed escludere prima che si può, senza offrire alcuna possibilità di rimotivare allo studio e recuperare alla scuola gli alunni che più ne hanno bisogno.
E così mentre l’Unione Europea, l’Ocse e Bankitalia dicono che bisogna investire di più in conoscenza e istruzione, l’Italia fa il percorso inverso: taglia drasticamente risorse, tempo scuola, insegnanti, torna indietro sull’obbligo e prepara un sistema scolastico che, per l’organizzazione didattica e le indicazioni di contenuti che propone, abbasserà il profilo culturale di tutta la popolazione. E se la politica chiude gli occhi sul futuro di tanti ragazzi, gli insegnanti debbono tenerli ben aperti perché tutte le esperienze didattiche caratterizzate da spirito di inclusione, da innovazione metodologica e didattica e da cooperazione professionale possano essere rimesse sapientemente in campo, sfruttando ogni possibile spazio di autonomia. Con l’auspicio che presto si torni a dibattere di scuola e si arrivi a una riforma reale e condivisa di tutta la scuola italiana.
*Presidente nazionale CIDI
da ScuolaOggi