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Basta volgarità sulla storia del Risorgimento

Pubblichiamo un estratto del discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica durante l’incontro all’Accademia dei Lincei che ieri ha aperto le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Con l’avvicinarsi del centocinquantenario si vedono emergere, tra loro strettamente connessi, giudizi sommari e pregiudizi volgari sul quel che fu nell’800 il formarsi dell’Italia come Stato unitario, e bilanci approssimativi e tendenziosi, di stampo liquidatorio, del lungo cammino percorso dopo il cruciale 17 marzo 1861. C’è chi afferma con disinvoltura che sempre fragili sono state le basi del comune sentire nazionale, pur alimentato nei secoli da profonde radici di cultura e di lingua.

E chi sostiene che sono state sempre fragili, comunque, le basi del disegno volto a tradurre elementi riconoscibili di unità culturale in fondamenti di unità politica e statuale. E c’è chi tratteggia il quadro dell’Italia di oggi in termini di così radicale divisione, da ogni punto di vista, da inficiare irrimediabilmente il progetto unitario che trovò il suo compimento nel 1861.

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Noi abbiamo da fare come italiani il nostro esame di coscienza collettivo cogliendo l’occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Possiamo farlo, non ignorando certo i modi concreti della nascita dello Stato unitario, le scelte che prevalsero nel confronto tra diverse visioni del percorso da seguire e dello sbocco cui tendere; non ignorando, anzi approfondendo i termini di quell’aspra dialettica, ma senza ricondurre ai vizi d’origine della nostra unificazione statuale tutte le difficoltà successive dell’Italia unita così da approdare a conclusioni di sostanziale scetticismo sul suo futuro.

Le delusioni e frustrazioni che furono espresse anche da figure tra le maggiori del moto risorgimentale, e che operarono nel profondo dei sentimenti e degli atteggiamenti popolari, hanno sin dall’inizio costituito un problema da affrontare guardando avanti. Questo fu, io credo, l’apporto del meridionalismo che – con Giustino Fortunato, e grazie anche a illuminati uomini del Nord – si caratterizzò come grande cultura dell’unitarismo critico, impegnata a indicare la necessità di nuovi indirizzi nella politica generale dello Stato nazionale la cui unità veniva però riaffermata categoricamente nel suo valore storico.

Certo, la frattura più grave di cui il nostro Stato nazionale ha fin dall’inizio portato il segno e che ha finito per protrarsi – nonostante i tentativi, benché non del tutto privi di successo, messi in atto a più riprese – e quindi restando ancor oggi cruciale, è quella tra Nord e Sud. E ho già detto in quali termini essa ci si presenti ora e ci impegni più che mai. Ma altre fratture originarie si sono ricomposte: come quella tra Stato e Chiesa, tra il nuovo Stato, che anche con il contributo degli uomini del cattolicesimo liberale nel corso del Risorgimento era stato concepito, e la Chiesa spogliata, perdendo Roma, del potere temporale. E, come ho notato nella prima parte del mio intervento, molte altre prove, anche assai dure, sono state superate con successo dalla comunità nazionale.

Sono convinto che nell’«età della Costituente», negli anni decisivi, cioè, della ricostruzione, su basi repubblicane e democratiche, del nostro Stato unitario, venne recuperata «l’eredità del Risorgimento», dissoltasi – secondo il giudizio di Rosario Romeo – nelle «vicende della prima metà del Novecento, con le due guerre mondiali e l’avventura totalitaria». In effetti, la fine dell’epoca dei nazionalismi dilaganti e dei conflitti da essi scaturiti, consentì la riscoperta di quell’identificarsi dell’idea di Nazione con l’idea di libertà che aveva animato il moto risorgimentale. L’idea di Nazione, il senso della Patria, attorno ai quali nella prima metà del secolo scorso gli italiani si erano divisi ideologicamente e politicamente, divennero nuovamente unificanti facendo da tessuto connettivo dell’elaborazione della Carta Costituzionale.

C’è da chiedersi quanto, da alcuni decenni, questo patrimonio di valori unitari si sia venuto oscurando – anche nella formazione delle giovani generazioni – e come ciò abbia favorito il diffondersi di nuovi particolarismi, di nuovi motivi di frammentazione e di tensione nel tessuto della società e della vita pubblica nazionale. E non possiamo dunque sottovalutare i rischi che ne sono derivati e che ci si presentano oggi, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Unità.

È indispensabile, ritengo, un nuovo impegno condiviso per suscitare una ben maggiore consapevolezza storica del nostro essere nazione e per irrobustire la coscienza nazionale unitaria degli italiani. Dobbiamo innanzitutto – torno a sottolinearlo – attingere a una ricerca storiografica che ha dato, fino a tempi recenti, frutti copiosi e risultati di alto livello: come il fondamentale studio dedicato da Rosario Romeo a Cavour e al suo tempo. Uno studio dal quale emerge il ruolo preminente e innegabilmente decisivo dello statista piemontese, guidato dalla «convinzione che esistesse una sola nazione italiana e che essa avesse diritto a una propria esistenza politica»; il ruolo decisivo di quel Cavour grazie al quale, al Congresso di Parigi del 1856, per la prima volta nella storia uno Stato italiano aveva «pensato a tutta l’Italia» e «parlato in nome dell’Italia». Nello stesso tempo, è emersa ad opera degli studiosi tutta la ricchezza del processo unitario e degli apporti che ad esso vennero dai rappresentanti più alti di concezioni pur così diverse del movimento per l’Unità, come Cavour, Mazzini, Cattaneo, Garibaldi, che concorsero, dando vita allItalia unita, al maggior fatto nuovo nell’Europa di quel tempo.

Ebbene, è pensabile oggi un forte impegno per riproporre le acquisizioni della nostra cultura storica, relative a quel che hanno rappresentato il Risorgimento e la sua conclusione nella storia d’Italia e d’Europa? E per collegarvi una riflessione matura su tappe essenziali del lungo percorso successivo, fino alla rigenerazione unitaria espressasi nei valori comuni posti a base della Costituzione repubblicana? Dovrebbe essere questo il programma da svolgere di qui al 2011: un impegno che vogliamo considerare pensabile e possibile, anche perché ci sono nuove e stringenti ragioni per condividerlo.
La Stampa 13.02.10