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"Quell'ingiusta burocrazia dei sentimenti", di Michele Ainis

I numeri sono importanti, perché trasformano le impressioni in fatti. Quelli del Sole 24 Ore dimostrano che la realtà può ben essere peggiore di come ce la raffiguriamo. La prova dei numeri s’applica in questo caso al microcosmo degli affetti, o per meglio dire dei sentimenti infranti. E in conclusione racconta una storia di fatiche giudiziarie, di diseguaglianze, di diritti negati. Perché c’è anche una burocrazia dei sentimenti, non meno inetta delle altre burocrazie che ci tengono in ostaggio. Ma la sua inefficienza colpisce dove fa più male, dove c’è già una ferita aperta dal matrimonio che è fallito. E colpisce doppiamente i più deboli, economicamente e socialmente. Per loro, soprattutto per loro, i diritti restano di carta, esistono soltanto sulla carta.

Eccola infatti la cifra unificante di quest’inchiesta in cifre su separazioni e divorzi: in Italia s’apre un abisso fra il cielo delle Gazzette ufficiali e l’inferno dei rapporti quotidiani. Tuttavia i diritti vivono nella prassi, non nelle dichiarazioni normative. Altrimenti muore con loro l’autorità della legge, che nessuno prenderà più troppo sul serio. E infatti la crisi di legalità del nostro Paese ha qui le sue radici.
In secondo luogo i diritti sono di tutti, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi.
L’universalità dei diritti ne costituisce l’attributo più prezioso, insieme all’effettività. E invece vengono negate entrambe, come per l’appunto testimoniano i numeri del Sole 24 Ore. Più in particolare, questa testimonianza illumina almeno tre profili.

Primo: si sfascia un matrimonio su 3, però le separazioni superano i divorzi di gran lunga. Per quale ragione? Perché sottoporsi a un secondo giro d’avvocati è un lusso che non tutti possono permettersi.D’altronde è un lusso anche la separazione in sé: proprio il Sole, qualche anno fa (17 marzo 2003), calcolava che si spendono non meno di 8mila euro per andare in tribunale, senza contare il raddoppio dell’affitto, delle bollette, delle spese domestiche. Da qui l’aumento dei separati in casa, tanto che nel 2000 (sentenza n. 3323) la Cassazione ha dovuto arrendersi al fenomeno, estendendo a tali coppie lo status di quelle legalmente separate. Una cosa però potremmo farla: sbarazzarci di questo doppiogrado di giudizio per sciogliere il vincolo matrimoniale, quantomeno se i coniugi si dichiarano d’accordo.

Secondo:l’importo degli assegni di mantenimento balla da una regione all’altra,tanto che in Lombardia misura oltre il doppio del Molise. Insomma non c’è una sola Italia bensì almeno due, divise da un muro invisibile. Lo sapevamo già, così come sappiamo che in Valle d’Aosta il reddito medio supera i 18 mila euro, in Basilicata non arriva a 11 mila. Ma in questo caso dev’esserci dell’altro, altrimenti non si spiega perché mai nella stessa Valle d’Aosta gli assegni per il coniuge e per i figli minori siano decisamente più bassi rispetto al Lazio o alla Campania, dove girano assai meno quattrini. Giudici più avari? Più sensibili alla sorte dei mariti? O non c’è invece nel sistema un elemento imprevedibile e arbitrario, un eccesso di discrezionalità che puòtrasformare ogni divorzio in una giocata ai dadi? Nel 2003 l’Associazione nazionale magistrati diffuse a propria volta una ricerca: per accertare la capacità patrimoniale del coniuge tenuto al versamento dell’assegno, il 48% dei tribunali si limita ad acquisire la dichiarazione dei redditi, ma il 93% se ne discosta allegramente.

Terzo: la lotteria dei tempi. Tempi biblici, tanto per cambiare; soprattutto se hai avuto la disgrazia di nascere al Sud. Il mese scorso, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario,il presidente Carbone ha raccontato che a Messina servono 900 giorni per una causa di divorzio, 972 giorni a Bari. Viceversa al Nord la media è di 571 giorni: un po’ meglio, ma certamente senza la velocità degli Emirati Arabi, dove per rompere le nozze basta un Sms. E oltretutto i nostri tempi giudiziari s’allungano di anno in anno, come documenta il Sole: 617 giorni per una separazione giudiziale nel 2002, 739 giorni nel 2008. L’incapacità di somministrare in tempi ragionevoli i torti e le ragioni infligge un «danno alla qualità della vita», osserva Marcella Fortino in un bel libro appena pubblicato (I danni ingiusti alla persona, Cedam 2009); ma almeno sul fronte dei matrimoni in crisi, una via di fuga ci sarebbe. Quale? Il divorzio breve, l’abbassamento da tre a un anno del periodo di separazione prima di sciogliere il matrimonio.
Insomma il divorzio resta un diritto che gli italiani devono ancora conquistarsi, quarant’anni dopo la legge che lo aveva battezzato. Servono correttivi normativi, serve rompere l’ipocrisia che ne ostacola la concreta applicazione, in questo caso come nel caso della fecondazione assistita, della pillola abortiva RU486 e via elencando: permesse dalla legge formale, ma non dalla sostanziale.
Ma se non altro l’esperienza italiana conferma il rilievo di Oscar Wilde: «Il Libro della Vita inizia con l’immagine di un uomo e una donna in un giardino. Termina con l’Apocalisse».

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“Una separazione ogni tre matrimoni”, di Andrea Maria Candidi e Serena Riselli

Si rassegnino i romantici: la formula del «finché morte non vi separi» sembra non funzionare più e ogni tre matrimoni celebrati uno finisce con una separazione. A dirlo sono i dati più aggiornati a disposizione (quelli del ministero della Giustizia, relativi al primo semestre 2009): quasi 300 coppie sposate ogni mille chiedono la separazione, soprattutto consensuale. E a questa media bisogna aggiungere i 234 divorzi richiesti nel frattempo. Ma qui la crisi era iniziata già da un pezzo.

I dati sulle separazioni presentano forti differenze se si scorre la cartina dell’Italia. Nel Centro-Nord ci si separa di più che al Sud; la regione che fa registrare il tasso maggiore di crisi è il Piemonte (associato alla Valle d’Aosta nella rilevazione) con 418 istanze di separazione ogni mille nozze; mentre i più fedeli risiedono in Basilicata (138 domande ogni mille matrimoni).
Sociologi ed esperti si interrogano sulle cause. La ragione principale è il mutamento della società: «L’idea della separazione è entrata a far parte del senso comune collettivo», spiega Grazia Cesaro dell’Unione nazionale camere minorili. Anche l’emancipazione femminile ha aiutato il processo. «Le donne non hanno più paura di separarsi – aggiunge Bruno Schettini, docente alla Seconda università di Napoli –, hanno più indipendenza economica e meno timore di affrontare la vita senza un compagno». Secondo Marco Albertini, ricercatore in sociologia dei processi culturali presso l’università di Bologna, il trend delle separazioni è dovuto anche al fatto che «in Italia le coppie hanno iniziato a separarsi più tardi rispetto al resto d’Europa. Ci si sposa ancora molto, mentre nel Nord-Europa si preferisce la convivenza».

Mettere fine a un matrimonio, però, non è mai facile. Ci vogliono quattro anni per divorziare, se i coniugi sono d’accordo, che diventano sette se l’intesa non c’è e il percorso diventa giudiziale. Senza considerare i costi di una separazione che, secondo Grazia Cesaro, «porta sempre a un impoverimento, dalla necessità di un’altra casa all’assegno di mantenimento».

Quando la coppia scoppia, la cosa più importante è la tutela dei figli, soprattutto se minori. «Chi si separa dovrebbe per prima cosa tenere conto del bene della prole – dice Laura Laera, presidente dell’Associazione dei giudici della famiglia e minorili (Aimmf) –. Bisognerebbe lavorare per sviluppare una cultura della conciliazione contro quella del conflitto, e le istituzioni dovrebbero farsene carico, anche attraverso strutture di tipo sociale». Per questo, molti pensano che il futuro delle separazioni passi per i centri di mediazione familiare perché, secondo Valeria Riccio, consulente tecnico del Tribunale di Napoli, «il sistema giudiziario da solo non è in grado di affrontare la coppia e la famiglia disfunzionale. Servono centri per le famiglie in difficoltà che abbiano funzioni terapeutiche e di sostegno».

Con la legge 54/06 sull’affido condiviso, il giudice può consigliare (ma non obbligare) le coppie a frequentare un centro di mediazione. Secondo Daniele Marraffa, presidente di sezione al tribunale di Caltanissetta, «sono utili per fornire un primo servizio di assistenza ai minori e alle famiglie. Ma ci sono ancora numerose resistenze di tipo culturale verso questi centri, senza contare che in molti territori mancano le strutture».

C’è chi chiede un intervento del legislatore: «Sarebbe opportuna una legge che preveda l’istituzione di centri di mediazione familiare pubblici o privati – suggerisce Bruno Schettini – e che regoli la figura del mediatore. Esiste già una legge-quadro europea, che però l’Italia non ha ancora sviluppato». Nel frattempo è ancora fermo in Parlamento il Ddl sul divorzio breve (si veda l’articolo a lato). «Oggi le coppie devono affrontare due cause: una per la separazione e una per il divorzio – spiega Bruno De Filippis, giudice presso la Corte d’Appello di Salerno e uno degli ideatori della norma – con un notevole dispendio di tempo e denaro. La nuova normativa vuole semplificare questo processo, rendendolo più veloce». Contrario Daniele Marraffa: «La legge potrebbe avere risvolti negativi per i figli. Per sveltire le pratiche, preferirei aumentare il personale nei tribunali».

La fotografia nelle regioni

Il Sole 24 Ore 15.02.10