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"Il nucleare non rilancerà l’Italia", di Enrico Galantini

L’economista Patrizio Bianchi: “Compreremo tecnologie non italiane, l’effetto di trascinamento mi sembra molto basso”. Per ripartire si deve puntare su nuove politiche agricole, energie alternative, innovazione. E senza qualità non ci sarà crescita. Incontriamo Patrizio Bianchi, ordinario di Economia e rettore dell’Università di Ferrara, a poco meno di un anno dall’intervista con cui inaugurammo il primo numero di questo inserto economico di Rassegna Sindacale. Era il marzo 2009, le borse di tutto il mondo sembravano incapaci di frenare il crollo – proprio in quei giorni si toccarono i minimi dalla fine degli anni 90 – e cominciavano anche a essere sempre più pesanti le conseguenze sull’economia reale. Poi la finanza è ripartita (anche se non sono stati fatti i cambiamenti di regole che si auspicavano e sembrano invece essere tornati in auge i vecchi vizi che ci hanno portato alla bolla e alla crisi), ma l’economia reale, ancora adesso all’inizio del 2010, sconta gli effetti di una crisi assai pesante, nonostante i facili ottimismi di chi ci governa.Un anno dopo iniziamo con la stessa domanda. A che punto siamo della crisi?

“Un anno fa – risponde Patrizio Bianchi – ci interrogavamo su come sarebbe stata la crisi: gli ottimisti dicevano che sarebbe stata a ‘v’, con una rapida caduta ma un’altrettanto rapida ripresa; quelli più cauti dicevano che alla rapida caduta sarebbe seguita una risalita molto più lenta, prolungata nel tempo, tale probabilmente da far riprendere la produzione ma non l’occupazione. Dopo un anno questa è la situazione. Stiamo scontando una crisi che è stata molto pesante e ha messo in evidenza la fragilità dei diversi sistemi produttivi, quindi anche del nostro: il sistema finanziario è andato e continua ad andare per conto suo; per evitare la crisi bancaria, tutti gli stati si sono pesantemente indebitati; l’attività produttiva non è riuscita a generare nessun nuovo modello di crescita ma sta lentamente e malamente riprendendo il vecchio corso. La crisi è come una stella cometa, la testa può anche passare, ma la coda è lunga.

Rassegna: È cambiato in quest’anno di tempo il quadro dell’economia internazionale, quella che un tempo si chiamava la divisione internazionale del lavoro?

Bianchi L’espressione “divisione internazionale del lavoro” dava in qualche modo per scontata la capacità di guidare l’organizzazione produttiva. Quello che è successo in questi due anni dimostra che questa capacità di pilotare gli aggiustamenti è venuta meno. C’è una forte ripresa della Cina e quella che abbiamo di fronte oggi non è la Cina del 2008 né tanto meno quella del 2000. Noi abbiamo l’illusione che il mondo sia fermo e che quindi, nella crisi, sia lo stesso il mondo che prima va in basso e poi risale. Ma ciò che risale non è mai quello che è andato in basso. La Cina di oggi è un paese che ha tante contraddizioni politiche e sociali, ma che dal punto di vista produttivo sta seguendo quel percorso di più ricerca, più innovazione, più organizzazione produttiva che in qualche modo era il percorso da tracciare.

Rassegna: La Cina insomma ha fatto quello che ciascun paese avrebbe dovuto fare?

Bianchi La Cina ha fatto molti passi in quella direzione. Poi, certo, la Cina è talmente grande che ha al suo interno tutte le attività a bassa produttività, un mondo rurale che deve cambiare, una serie di tensioni che deve tenere sotto controllo mantenendo alto il tasso di crescita. Però è vero che, ad esempio nel Sud della Cina, gli investimenti in Università e ricerca sono stati massicci. Ed è vero che molte delle attività produttive che un tempo erano schiacciate su bassa qualità e bassa produttività stanno per essere – e sono già in parte – sostituite da attività che inglobano più ricerca e più innovazione. Poi ci sono anche altri paesi, che magari non crescono al tasso della Cina, e che però continuano a crescere, come il Brasile, dove si stanno facendo interventi massicci in opere pubbliche – e certo bisognerà ragionare su cosa questi vogliano dire in termini di equilibrio ambientale. Il Brasile ha dimostrato, sotto la guida di Lula, una capacità di intervento che ha permesso di mantenere un alto tasso di crescita agendo in profondità sulla struttura sociale.

Rassegna: Quindi tutti i paesi emergenti stanno rispondendo alla crisi. Solo il Vecchio continente fatica…

Bianchi Tutti i paesi si stanno ponendo il problema di una ripresa che veda lì l’asse centrale della crescita nei prossimi anni. Su questo noi abbiamo un’Europa che cresce meno, e all’interno dell’Europa l’Italia è il paese che, dal 1980, ha generato un modello di crescita senza crescita: un modello di assestamento del sistema produttivo, ma anche del modello dei consumi, che ha portato al più basso tasso di crescita di tutta l’Europa.

Rassegna: Prima di parlare più a fondo dell’Italia, mi piacerebbe approfondire con lei il tema della, se mi passa l’espressione, “divisione internazionale del consumo”. Che cosa provocherà nell’economia mondiale il fatto che gli Usa, culla della crisi proprio per l’enorme indebitamento da consumi, non potranno giocoforza più consumare come prima?

Bianchi Avrà conseguenze non da poco. Non dimentichiamo che nell’età di Bush gli Stati Uniti avevano sperimentato un incrocio, che non s’era mai visto così forte in nessun paese, tra debito delle famiglie e debito dello Stato. Questo comporterà una riduzione delle spese dello Stato, anche se l’ultimo bilancio di Obama necessariamente doveva essere di carattere espansivo, e una riduzione dei consumi da parte delle famiglie. Tutto ciò inciderà sui consumi mondiali, è vero, ma è anche vero che in molti dei paesi in rapida crescita si stanno generando nuove domande. In Cina ormai c’è una consistente domanda di beni privati di consumo anche di alta qualità, che sono quelli ad esempio che stanno trainando una parte importante del made in Italy.

Però quello su cui bisognerebbe ragionare è come si esce da questa crisi con un diverso – non vorrei usare l’espressione “modello di sviluppo”, che è ormai un po’ consumata – diciamo con un diverso “modello di vita”. Un tempo, all’epoca della prima rivoluzione industriale, gli economisti dicevano che giustizia e felicità erano gli obiettivi dell’economia politica. I due termini sono stati cancellati da venti anni di iperliberismo in cui si statuiva per definizione che le disuguaglianze erano la base della crescita. Io credo che il termine giustizia, come equità sociale, torni a essere rilevante. E che il termine settecentesco felicità, riferito a una crescita che comporti una forte qualità della vita individuale e collettiva, torni a essere la chiave di volta del futuro. Le faccio l’esempio di tre settori tradizionali: alimentazione, casa, energia. Realtà fondamentali e qualificanti per la vita, dei singoli ma anche della società. Questi sono i tre settori – assieme a quello della salute – che negli ultimi anni hanno sostenuto il maggior peso non di innovazione ma di ricerca. E i risultati di questa ricerca non sono stati ancor trasferiti completamente alla produzione.

Rassegna: Perché no?

Bianchi Pensi alla vicenda dell’influenza quest’inverno: ancora una volta la capacità del governo di orientare la crescita è stata inferiore a quella di alcune grandi imprese di controllarla. Tornando ai settori di cui parlavo prima, ragionare di agricoltura vuol dire ragionare anche di un’agricoltura non più iperprotetta, come quella della Comunità europea negli anni dell’Aima, ma del suo contrario. Ragionare di un sistema agricolo, sia “food” che “non food”, significa ragionare dell’Africa, capire come un continente intero può tornare a essere uno dei luoghi di produzione del sistema. Di questi tempi, i cinesi stanno comprando terre fertili un po’ dovunque, soprattutto in Africa, cosa che pare non colta dal dibattito politico. Per approvvigionarsi, certo, ma anche nell’idea che la commodity agricola torni a essere una delle fonti di ricchezza nel mondo.

Per anni in Europa abbiamo ragionato nella maniera opposta, proteggendo le nostre colture e riversando nel mondo le eccedenze. Sia l’America latina, sia l’Africa sono in attesa di un’Unione europea capace di una politica agricola davvero espansiva e di sostegno a queste aree. In Italia, invece, quando si parla di agricoltura, sembra di parlare di problemi di ordine pubblico, più che di grandi temi del mondo. Così anche il settore del nuovo modo di costruire incorpora un’enorme quantità di tecnologia. Il modo di costruire riduce i consumi, aumenta la qualità della vita ma anche la qualità urbana. Anche sull’ambiente abbiamo fatto molta ricerca. Ma ancora una volta ci vuole da parte dei governi una capacità di visione, di indirizzo, di regolazione, per promuovere buona impresa da una parte e dall’altra per mutare i consumi. E ancora. Tutta l’area dell’energia è andata in questa direzione. Oggi la Germania è il paese leader nella produzione dell’energia alternativa perché è stata la prima a crederci e ha nei fatti generato un nuovo settore produttivo.

Rassegna: Ma lì c’è stato un ruolo del governo…

Bianchi È questo che voglio dire. Veniamo da vent’anni di iperliberismo che hanno demonizzato l’intervento dei governi: oggi, senza un intervento dei governi l’economia non esce da questa situazione di sottoccupazione. Oggi serve un intervento che, diversamente dal passato, non sia genericamente di spesa pubblica, quanto di regola pubblica che reindirizzi la spesa verso settori che assorbono ricerca e intelligenza ma hanno anche un forte impatto sulla vita collettiva.

Rassegna: Anche perché il nostro apparato produttivo si sta lentamente impoverendo.

Bianchi L’economia italiana sta oggi scontando un problema fondamentale: la base produttiva è diventata troppo ristretta. I dati della Banca d’Italia sono chiarissimi. Ci dicono che questo paese non cresce essenzialmente perché, tra tutte le imprese che hanno più di 20 addetti, solo 5.000, che sono il 6 per cento, hanno affrontato nel 2008 la crisi avendo già ristrutturato sia la parte finanziaria che la parte produttiva. È un milione di addetti, non è una singola impresa. È un comparto produttivo, sufficiente per far crescere le esportazioni, ma non sufficiente per trainare tutto il paese. Questa cosa, in diversa forma si nota in tutta Europa, che continua a essere un’area a bassa crescita. Per questo bisogna tornare a ragionare di politica industriale, avere una visione di sviluppo, ragionando sulle cose essenziali della vita, facendo ridivenire centrale la capacità di produrre.

Rassegna: Ma sulle politiche industriali quest’anno il nostro governo non ha certo brillato…

Bianchi Quest’anno ho visto un forte trascinamento di un’idea che in quel contesto aveva un senso: quella di Industria 2015. Di quello schema ero convinto, erano in fondo i settori chiave: consolidamento del made in Italy, l’area della salute, quella dell’ambiente, quella dell’energia. Mi pare però che rispetto a quello schema siamo tornati a interventi specifici, non sempre sostenuti da una capacità vera di visione. C’è stata una forte iniziativa nel settore energetico, con la scelta di ripartire con il nucleare.

Rassegna: Che ne pensa?

Bianchi Il governo ha fatto una scelta che sposta molto in avanti la soluzione dei problemi. Il nucleare oggi non è quello di trent’anni fa. Non è la soluzione che mi piace di più però credo che tutto sommato questo non sposti il problema. Compreremo tecnologie non italiane, faremo costruzioni con attività che impegneranno molte risorse in ambiti molto specifici, l’effetto di trascinamento mi sembra molto basso. Non intervengo sulla scelta ideologica “nucleare sì – nucleare no”, intervengo sulla scelta industriale. Credo che con altrettanta forza potremmo intervenire sui diversi ambiti di un sistema produttivo che ha bisogno di ridurre i propri consumi di energia e di differenziare al massimo le proprie fonti. Dopodiché ho l’impressione che il tema delle centrali nucleari fosse più un tema da affrontare a livello europeo che non nazionale. Non a caso i padri dell’Europa, dopo la Ceca pensarono all’Euratom. Ma su questo l’Europa non c’è più, ogni paese fa le sue scelte e tutte testimoniano di come lo Stato nazionale non sia più il livello adeguato, almeno in Europa, per prendere simili decisioni, che hanno tempi di ricaduta su molte generazioni e potenzialità d’impatto che vanno ben oltre i confini dei singoli paesi.

Rassegna: Cambiamo settore. Oggi un tema d’attualità è la vendita di Telecom a Telefonica. L’Italia esce da un altro settore industriale…

Bianchi Credo che Telefonica sia da tempo il riferimento proprietario di Telecom. In un’epoca in cui parlavamo di Europa e di un mercato unico, abbiamo avuto sempre grandi difficoltà ad avere un’industria unica, europea. Il problema non è tanto, o solo, che Telecom venga venduta a Telefonica e che l’Italia esca da un altro settore produttivo, come è successo con la chimica. È che contestualmente non c’è un’iniziativa politica di rilancio dell’Europa per cui finalmente riusciamo ad avere un mercato dei capitali davvero integrato, un mercato delle imprese che abbia una connotazione europea, una proprietà delle grandi imprese che finalmente si svincoli dai governi nazionali.

La crisi ci ha dimostrato che non c’è nessun paese europeo che abbia una dimensione di mercato interno e di industria interna adeguata al nuovo contesto. Nel 2000, primo anno di presidenza della Commissione europea di Romano Prodi, nel momento in cui si consolidava lo sforzo per l’euro, per la Costituzione europea, per l’ampliamento a Est, veniva lanciata una strategia di politica industriale, quella di Lisbona, che aveva un’idea di fondo molto chiara: senza un salto nei modelli organizzativi, il sistema industriale europeo non avrebbe retto ai bisogni di crescita della popolazione del Vecchio continente. Se dopo dieci anni stiamo parlando di Telefonica che si compra il controllo di Telecom, stiamo misurando come in questi dieci anni non siamo stati capaci, sicuramente non da destra, ma nemmeno nelle parentesi che abbiamo avuto di sinistra, di avere una visione europea adeguata.

Rassegna: Ma la visione europea si è appannata ovunque, se alla fine ci si ritrova con i dirigenti che sono stati messi alla sua testa…

Bianchi Per questo dobbiamo essere più coraggiosi nella richiesta di un’Europa vera e capace. Perché se no siamo sempre noi a giocare nell’angolo. Quando davanti alla crisi dell’auto, la soluzione del problema Opel è stata riportata nell’alveo della Germania, si è arrivati a una soluzione di ripiego. Perché le soluzioni nazionali per questi problemi sono sempre di ripiego. Ieri è toccato a Opel, oggi c’è il problema della Fiat e di Termini Imerese.

Rassegna: A questo proposito, che prospettive ci sono secondo lei per il settore auto in Italia?

Bianchi Non è più la dimensione nazionale che può essere risolutiva. Che cosa si può fare in questo caso? Si possono dare più incentivi, continuando ad anticipare la domanda futura. Il problema è che in Europa il numero dei giocatori si va ridimensionando in maniera nettissima. Rimarranno sì e no quattro produttori: i due francesi (con Peugeot-Citroen legata a Nissan), la Volkswagen (Bmw e Mercedes si sono riposizionate su un segmento specifico), la Fiat, che si è avventurata nell’iniziativa americana potendo vendere tecnologie prodotte in parte in Italia, in parte in Brasile. Per farcela ad andare avanti bisogna essere in grado di vendere prodotti che incorporano tecnologie sempre migliori. Ricondurre tutto ciò al solo mercato interno è suicida. Fiat, come gli altri competitor, ce la può fare solo se può considerare come suo mercato interno l’Europa, l’America latina e, si spera, gli Usa.

Rassegna: Parliamo di distretti. Lei diceva dieci mesi fa che per sopravvivere dovevano cambiare. L’hanno fatto?

Bianchi Stanno cambiando. Alcuni in positivo, altri in negativo. Ormai sono emerse medie imprese che hanno assunto la posizione di guida dei rispettivi comparti produttivi. Ci sono comparti, pensi ancora una volta all’alimentare, che hanno dimostrato una straordinaria capacità di produrre beni ad alto valore aggiunto. Pensi a che cosa è stato il settore del vino in questi dieci anni. Pensi anche agli interventi che sono stati fatti per favorire la qualità del vino, per regolarla, per diffondere il vino italiano. Sono stati molti, alcuni magari minimali, ma con una visione molto chiara di lungo periodo. Il made in Italy alimentare, come ci ricorda la Fondazione Edison, fa più valore aggiunto del settore dell’automobile francese e spagnolo messi assieme. Vi sono poi invece distretti nei quali non si è riusciti a governare non solo le dinamiche produttive ma neanche le dinamiche sociali. Pensi a Prato, in cui la non capacità di far crescere il sistema ha generato progressivamente ingressi di lavoratori, e poi strutture di proprietà, cinesi, per cui oggi Prato è governata da un sistema di riferimento basato sulla paura.

Rassegna: In che senso?

Bianchi Nel senso che lì ha vinto la Lega. Detto questo, non tutti i distretti evolvono nella stessa maniera. La crisi anche in questo caso agisce da forte selettore. Io sono convinto che l’evoluzione positiva dei distretti implichi una visione ampia, una forte attenzione alla coesione sociale, una capacità molto forte di gestire processi d’integrazione dall’esterno. In questo mi sembra che l’Emilia-Romagna abbia seguito con molta attenzione questo passaggio di fase. Non sempre con gli esiti migliori: a Carpi il settore della maglieria si è ridimensionato, anche se si è espanso quello meccanico. I distretti avevano la loro chiave in quel principio di coesione interna che per troppo tempo abbiamo pensato essere un fattore “etnico”, e invece era un fattore di politica. Laddove questo è venuto meno, si è visto subito il rischio potenziale che possiamo correre nel paese.
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