economia, lavoro

"Lavorare meno, lavorare sempre. Ecco come cambieranno le nostre vite" , di Cinzia Sasso

Che un’ era fosse finita, Richard Donkin, già editorialista del Financial Times ed esperto di organizzazione del lavoro, se ne è accorto al funerale di un caro amico. In piena cerimonia, un collega ha sentito il bip-bip sul Blackberry: posta in arrivo. L’uomo si è messo a digitare sul tastierino per rispondere al messaggio. Non aveva più alibi, quando il dovere chiama – dovunque tu sia – non puoi più fare finta di niente. L’éra terminata era quella del lavoro in ufficio, del cartellino da timbrare, della routine professionale. Ma anche quella dell’età della pensione, della rigidissima divisione delle mansioni e, soprattutto, quella della distinzione tra lavoro e tempo libero. Quell’episodio è servito a Donkin per scrivere un saggio dal titolo significativo “The Future of Work”, nel quale ha illustrato come la vita quotidiana dei lavoratori – e cioè la nostra – sia destinata a cambiare. E non necessariamente in peggio.

Le tendenze in atto sono numerose. Ma la più rivoluzionaria riguarda il concetto stesso di luogo di lavoro. “L’orario settimanale può scendere – spiega Donkin – anche a 30 ore”. Non distribuite in modo omogeneo, se serve. Si può anche arrivare a lavorare dieci ore al giorno, in cambio di maggiore libertà il venerdì – libero dall’obbligo di presenza – e magari anche parte del giovedì. A condizione di accettare che anche i giorni fuori ufficio, weekend compresi, possano essere – in qualche modo – lavorativi. “In fondo già oggi non smettiamo di vivere quando andiamo al lavoro, e non smettiamo di lavorare quando siamo a casa”.

Le aziende che vorranno approfittare del nuovo mondo, e vincere la sfida della competitività, dovranno quindi cambiare le prassi. Più flessibilità nell’orario, ma anche più disponibilità nella scelta del personale. Se stare seduti davanti alla scrivania non è più centrale, allora anche persone in là con gli anni diventeranno una risorsa. Uno studio del Dipartimento del lavoro inglese ha dimostrato che la produttività di impiegati di mezza età e oltre non è inferiore a quella dei giovani. Lo stesso dicasi per le donne: liberate dalla necessità di presidiare l’ufficio potranno ben conciliare carriera e famiglia. Le imprese che lo hanno capito sono già un passo avanti: se si prende la classifica delle prime 500 società al mondo stilata da Fortune si scopre già che quelle che hanno più donne nelle posizioni top hanno performance migliori di quelle che si affidano esclusivamente a manager uomini.

La necessità di uscire dalla crisi richiede, poi, di reperire risorse nuove e fresche. Soprattutto di tipo umano. E così – propone ancora Donkin – bisogna limitare al minimo i lavori ripetitivi e offrire al maggior numero possibile di dipendenti la possibilità di prendere l’iniziativa. Allo stesso modo, basta gerarchie di ferro. L’organizzazione dell’azienda deve essere sempre più collaborativa. Il modello è quello dei social network tipo Facebook: dialogo fra colleghi, coinvolgimento di tutti. Non è una piattaforma sindacale. E naturalmente i pro sono affiancati dai contro (si rischia di inquinare con le preoccupazioni professionali anche la vita privata). Ma è – sostiene lo studioso – la via per creare aziende in grado di affrontare con successo le acque tempestose della crisi economica.

Il tema, va detto, non è nuovissimo. Il sociologo Domenico De Masi, in un suo testo di fine anni Novanta, che ha curiosamente lo stesso titolo (“Il futuro del lavoro”, Rizzoli editore, ristampato da poco), ipotizzava qualcosa di simile. Secondo De Masi, nella società post-industriale, l’ozio sarebbe diventato altrettanto importante che il lavoro e avrebbe finito “per fare tutt’uno con esso, assumendo le connotazioni del gioco”. Oggi il professore di Sociologia del lavoro della Sapienza non ha cambiato idea: “Adesso – dice – siamo come alcolizzati, perché siamo la prima generazione digitale, ma man mano prenderemo le distanze dalle tecnologie e impareremo a farne un uso liberatorio invece che stressante”. Se il lavoro diventa intellettuale creativo, se usa cioè il cervello come strumento primario, “non c’è più differenza tra tempo del lavoro e tempo della vita, lavoriamo 24 ore ma anche ci divertiamo 24 ore”.

Che stiamo vivendo una fase di profonda trasformazione è anche l’opinione di Roberta Cocco, manager di Microsoft, responsabile del progetto Futurolfemminile, nato per diffondere la consapevolezza che la tecnologia può essere un potente alleato delle donne. “Spesso – racconta – io lavoro da casa: posso leggere le e-mail, fare telefonate, partecipare in conference call a una riunione anche mentre sono ai giardinetti coi miei figli. L’osmosi è un impagabile vantaggio, non una zavorra”. Però, appunto: ecco i piani che si sovrappongono. Il fatto è, ragiona Francesca Zajczyk, docente di sociologia a Milano Bicocca, “che la pervasività degli strumenti porta al sovrapporsi anche delle azioni: telefono mentre lavoro al computer e intanto rispondo a un sms. Non solo si sono annullati i confini, si moltiplicano anche le attività in contemporanea”.

Pare siano passati secoli, non solo pochi anni, da quando un best seller come “Buongiorno pigrizia” di Corinne Maier, che esaltava il lavorare il meno possibile per riprendersi la vita, veniva lodato da El Paìs come “una nuova Bibbia”. Perfino una come Gianna Martinengo, tra i primi in Italia a investire, con la sua Didael, sull’e-learning e sull’e-work, è preoccupata: “Io – dice – ho sempre detto: il venerdì spengo tutto e non ci sono per nessuno. Ma oggi questo non è più possibile, gli strumenti sono diventati talmente pervasivi per cui si crea una forma di ansia: se non rispondi entro un certo numero di minuti a un messaggino come minimo passi per maleducato e se quelli del tuo social network non ti vedono in linea per qualche ora si preoccupano e ti chiedono se stai male”.
Una sfida anche per il sindacato. Susanna Camusso, della segreteria della Cgil, impegnata fino ad ora in battaglie ben più materiali vede questa rincorsa infinita come “un dramma della nostra epoca” e invita a riflettere: “Mi verrebbe da suggerire a livello culturale un elogio della lentezza… e comunque è chiaro che sarà necessario introdurre dei correttivi”. Se sarà difficile parlare di orari di lavoro in un universo che li annulla; se libri di successo come “… e vinse la tartaruga” di Carl Honoré o proprio “L’elogio della lentezza” di Lothar J. Seiwert sembrano arrivare dal Pleistocene, è però vero che qualche soluzione, da qualche parte, si sta cercando. Google e Microsoft introducono il tempo libero nell’orario di lavoro. Obbligatorio, nel bel mezzo della giornata, andare a fare passeggiate coi colleghi, cucinare insieme, fare lunghi giri in bicicletta, scendere in campo per una partita a pallone, nuotare nella piscina aziendale, portare i cani in ufficio. Insomma: siccome non è più possibile separare il tempo libero dal tempo del lavoro, bisogna infilare a forza il tempo libero in quello della produzione.

Martinengo, che è appena rientrata da Stanford, racconta di aver visto “cose da spavento”: “Chip da mettere nei polpastrelli che permetteranno di fotografare con le dita, collegati a un aggeggio che porti al collo e che ti dà all’istante la tracciabilità di quello che hai ripreso; oppure Sesto Senso, la tecnologia del futuro, con i sensori direttamente sul tuo corpo che ti collegano alla rete”. Presto, insomma, le preoccupazioni di oggi potrebbero sembrare ingenue: la mail del medico che riaccende il pc e ti risponde a mezzanotte dopo aver passato la giornata in ospedale e cenato con la moglie; la sveglia mattutina anticipata perché ci sono da leggere i quotidiani sull’iPad; le partite di calcetto con gli amici interrotte dai messaggi serali sul BlackBerry; il multitasking di chi alza la cornetta, digita un sms e intanto pesta i tasti del computer. Non è escluso che, alla fine di questo percorso, bisognerà inventarsi un’altra rivoluzione. E rialzare quei confini tra le nostre due vite che la tecnologia sta cancellando.
La Repubblica 16.02.10

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Il futuro del lavoro in sei tesi. Ma attenti alle illusioni della connessione a vita. Essere disponibili al lavoro “h24” non garantisce libertà, di Luciano Gallino

L´obbligo, o il desiderio, di essere al lavoro 24 ore su 24, sette giorni su sette, grazie a mezzi di comunicazione sempre più integrati, rappresenta un´estensione al lavoro umano dell´ingegneria industrial-finanziaria sviluppata per estrarre il massimo valore da ogni unità di tempo, misurata ormai in frazioni di secondo. Il suo prototipo è la compravendita ad alta frequenza di titoli o divise: una delle ultime trovate delle borse mondiali. Il computer di una banca esplora i prezzi su diverse piazze, e in un tempo che si aggira sui 40 millesimi di secondo compra tot titoli sulla piazza dove il loro prezzo è più basso, per rivenderli subito su una piazza dove il prezzo è più alto. Anche di pochi centesimi: ripetuta migliaia di volte l´ora, un´operazione con cui si ricavano pochi centesimi per titolo fa guadagnare milioni al giorno.
Visto il successo ottenuto con la compravendita ad alta frequenza di titoli e denaro, qualcuno ha pensato di estendere una tecnologia analoga al lavoro. In questo caso, oltre che programmare i computer si sono programmate le persone. Che sono state convinte nel profondo che il massimo della vita consista nell´essere sempre connessi, senza alcun buco vuoto nello spazio o nel tempo. Risorse immani sono state mobilitate a tale scopo: la pubblicità, i cellulari che funzionano da telefono, pc, videocamera, radio, tv, gps e altro, le tariffe che permettono di usare il tutto a pochi centesimi al minuto o gratis, più i magazine che fanno sentire uno come troglodita se non possiede l´ultima versione dello strumento multitutto. Cominciando l´operazione volta a introiettare l´imperativo “sono connesso, dunque sono” dalle scuole elementari: genitori e nonni ne sanno qualcosa.
L´essere perennemente interconnesso per parlottare al telefono, chattare, scambiare Sms, twitterare, bloggare, gestire la mail inbox e outbox, significa in realtà lavorare senza tregua per qualcuno. Di certo per la propria organizzazione, ma non soltanto per essa. Ogni minuto passato in connessione comporta che flussi immani di bits e di bytes servano a scopi di cui non sappiamo nulla, e su cui non abbiamo la minima possibilità di intervenire. La prima a trarne guadagno è ovviamente l´organizzazione per la quale lavoriamo. Se siamo convinti che sia normale inviare ad essa una e-mail la domenica mattina, per mostrare che nulla ci sfugge, o premurarsi di leggere un suo Sms alle due di notte, ciò significa che abbiamo firmato un contratto che prevede 168 ore di lavoro la settimana, di cui circa 130 non pagate. Nessun rapace imprenditore di Coketown, la città del dickensiano Tempi difficili, avrebbe mai sperato tanto. In secondo luogo, l´interconnessione 7 x 24 di masse di persone fa sì che ogni secondo qualche frazione di euro venga depositata nel bilancio di differenti società che si occupano di telecomunicazione, di ingegneria del software, di produzione e vendita di apparecchi e altro. Si tratterà in ciascun caso di meno di un millesimo, meno di un decimillesimo, i quali però moltiplicati per miliardi di minuti di connessione al giorno diventano milioni, appunto come accade con lo high frequency trade.
Uno dei testi più critici dell´asservimento umano alla tecnica pilotato dall´ingegneria industrial-finanziaria, L´uomo è antiquato di Günter Anders (1956), cominciava citando un articolo di giornale: “I condannati a morte potevano liberamente decidere se i fagioli di contorno dell´ultimo pasto dovevano essere serviti dolci o sottaceto.” E´ dubbio che poter scegliere tra due tipi di caviale, senza mutare nulla della condanna, come in fondo postula chi afferma che la prossima generazione trarrà grande soddisfazione dal lavoro ad alta frequenza, sia un passo verso la liberazione.
La Repubblica 16.02.10