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"Viaggio nella zona grigia dell'immigrazione in Europa", di Sara Bianchi

Giovani tra i 20 e 40 anni con un tasso di attività molto alto, che supera l’80% e una qualifica bassa. Domestiche, badanti, braccianti, manovali soprattutto nel settore edile. L’identikit dell’immigrato è lo stesso in tutte le grandi capitali europee. Anche nello scenario di crisi economica le cose non sono cambiate e i flussi migratori non hanno arrestato la loro crescita. Ma le condizioni di vita degli stranieri cambiano molto da paese a paese, per ragioni culturali e per le differenti politiche di accoglienza messe in atto.

La Spagna resta il Paese in Europa, dove l’incidenza degli stranieri residenti sul totale della popolazione è molto elevata, all’11,7%. In Germania siamo all’8,2% con 8 milioni di immigrati, circa l’8% della popolazione, sul cui totale il 18% ha un passato migratorio. La Francia si conferma uno dei paesi con una tradizione migratoria più antica se il 23% della popolazione ha genitori o nonni di origine immigrata. In Gran Bretagna l’incidenza degli stranieri residenti sul totale della popolazione ha superato il 6,3%.
A Barcellona è il distretto di Ciutat Vella, uno dei dieci nei quali è divisa la metropoli, ad essere caratterizzato da una forte presenza di stranieri, oltre il 20% della popolazione. È la zona a maggior densità abitativa immigrata, soprattutto nel quartiere La Ribera, ed è il terzo distretto per concentrazione demografica complessiva.

Il Comune nel 2005 ha approvato un piano strategico per l’inclusione sociale che identifica i «collettivi socialmente vulnerabili». E uno dei temi su cui si basano i documenti dell’amministrazione e i piani di sviluppo locali è la partecipazione, esiste infatti un programma di attività del distretto che elenca zona per zona le risposte da dare con il contributo dei cittadini. I servizi residenziali del programma comunale comprendono appartamenti e pensioni, servizi di mensa sociale e centri diurni. Sono inoltre state stipulate convenzioni per la collaborazione con il privato e c’è una rete istituzionale che coordina gli interventio sociali.

Le attività di consorzi di cooperative comprendono centri di inserimento al lavoro, accoglienza, incontri di sensibilizzazione alla questione, inserimento degli immigrati senza documenti, assistenza in loco di coloro che abitano case occupate per offrirgli una via d’uscita. In questi centri sono attivi anche corsi di lingua per stranieri, sono presenti assistenti sociali e psicologi che promuovono incontri tematici sulle problematiche più comuni agli immigrati e attività tese a sviluppare una rete di contatti utile.
La legge prevede che se un immigrato entra illegalmente in Spagna può essere detenuto in un centro di internamento per stranieri fino a 40 giorni. Il ministero del lavoro ha poi allestito centri di accoglienza umanitaria che consentono la permanenza fino a 15 giorni.

In Germania la più numerosa è la comunità turca (2 milioni di persone), 3 milioni sono i fedeli musulmani. A Berlino gli stranieri residenti arrivano al 14% della popolazione e la maggior parte di loro è di seconda o terza generazione. Neukolln è la zona dove si concentra il maggior numero di immigrati (un terzo degli abitanti) ed è uno dei quartieri più grandi ma anche più poveri della nazione.

Nel 2004 le politiche di protezione sociale tedesca sono diventate più rigorose rispetto al passato, con l’introduzione di un sistema che ha consentito una diminuzione dei costi. Anche nel caso tedesco i criteri individuati puntano alla partecipazione, con accenti marcati però sulla responsabilizzazione. È del 2006 il piano nazionale di integrazione per gli immigrati che ha introdotto sportelli per favorire l’inserimento e istituito corsi supplementari di lingua tedesca. Ma la strategia di Berlino ha creato istituzioni che servono solo ai possessori di cittadinanza o residenza tedesca, tagliando fuori di fatto dal perimetro di assistenza gli altri.

In un’organizzazione di Stato federale anche le questioni sociali sono gestite sui tre ambiti diversi. Le principali attività di assistenza sono a carico delle comunità locali, le normative di politica migratoria e i finanziamenti fanno capo al governo federale e al Lander è demandata la legislazione dei programmi da sviluppare localmente. Sul territorio nazionale, a Berlino in particolare, c’è una forte presenza di organizzazioni non governative, che includono progetti per migliorare la convivenza tra popolazione immigrata e tedeschi.

In Francia, proprio in questi giorni il ministro dell’Immigrazione, Eric Besson, ha annunciato una nuova stretta sugli immigrati clandestini. Si tratta di una proposta di legge per la creazione di zone speciali per gli immigrati, che consentiranno controlli maggiori alle autorità e un’organizzazione più efficiente nella gestione delle richieste di asilo. Sarà creata «una zona d’attesa speciale» che permetterà alle autorità di «mantenere un controllo per il tempo sufficiente ad esaminare eventuali domande di asilo». Queste aree consentiranno di fatto a Parigi di legittimare la privazione immediata della libertà dei clandestini ovunque si trovino.
Il ministro prevede inoltre di consentire il rimpatrio di quei clandestini che rappresentano una minaccia per l’ordine pubblico anche se in possesso del visto di soggiorno.

Per incoraggiare «l’immigrazione selettiva» cara al presidente Sarkozy, Parigi vuole anche promuovere la carta blu europea, di una durata rinnovabile di tre anni, valida per gli stranieri che hanno almeno una laurea triennale e uno stipendio superiore (di una volta e mezzo) al salario medio annuo. Besson vuole inoltre modificare il codice del lavoro per vietare
alle imprese di assumere dipendenti stranieri senza titolo di soggiorno, con l’utilizzo di sanzioni amministrative e giudiziarie.

Nella gestione attuale in Francia il rapporto tra Stato e enti locali, da una parte, e associazioni dall’altra resta a un buon livello di collaborazione. Soggetti del terzo settore e parternariato locale fanno parte integrante nel sistema che coinvolge le amministrazioni locali. Anche i settori del privato sociale sono particolarmente attivi. Allenadosi con loro le Ferrovie dello Stato, già dal 1993, hanno creato centri di accoglienza per i senza fissa dimora, che oggi sono tra le sperienze più riuscite.

A Londra resta la pesante contraddizione della contemporanea presenza di persone che percepiscono stipendi altissimi a fianco di altre che lavorano per pochi pound. Negli ultimi anni inoltre il mercato immobiliare ha visto aumentare in maniera sproporzionata i prezzi delle case rispetto ai salari. Fattori che hanno accentuato la formazione di comunità separate, aumentando e il numero di chi vive sotto la soglia di povertà. Negli ultimi anni le prestazioni sociali nel sistema di welfare sono state asciugate da necessità di riduzione delle spesa. Se solo chi si collocava al di sopra di una certa soglia poteva accedere al sistema di protezione, con i governi laburisti è stato innalzato il livello dei salari minimi e sono state promosse iniziative di formazione professionale per facilitare il reingresso nel mercato del lavoro. Oggi a progettare gli interventi di welfare non è più solo lo Stato ma anche il mondo del volontariato e quello del terzo settore. È quest’utlimo ad avere tra i propri compiti il coinvolgimento diretto dei cittadini, la sperimentazioni di soluzioni innovative, l’osservatozione attiva sulle tematiche emergenti.
Un gran numero di etnie sono concentrate a Lambeth, uno dei tredici distretti londinesi. In questa zona si trova l’ostello di Cedars Road, un ex dormitorio che oggi fornisce un servizio di medicina di base, un servizio di cure intermedie, supporto per la ricerca di un’attività lavorativa, sostegno per le attività basilari (fare la spesa, fare conoscenza con il vicinato). Non esiste più la possibilità di accoglienza gratuita in queste strutture, ma il governo fornisce dei sussidi con i quali gli utenti pagano la loro quota, un modo per incentivare il passaggio a una vita normale.
Il Sole 24 Ore 17.02.10

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IMMIGRAZIONE, VERSO L’INTEGRAZIONE. La diplomazia della birra e del cous cous

San Salvario a Torino era il simbolo del degrado. Dieci anni dopo è diventato un quartiere trendy
emanuela minucci. «Vede questa lista di interventi? La lamentela più grave riguarda gli schiamazzi serali, quelli che arrivano dalle birrerie o dai locali di tendenza. Vogliamo confrontarla con quella di dieci anni fa? Allora la gente, esasperata dallo spaccio, sfilava per strada di notte e i giornali titolavano “Tori- no: voglia di spranga contro l’immigrato”».

La storia della scommessa vinta da San Salvario (il quartiere più multietnico della città a due passi da Porta Nuova) è tutta chiusa nella cartellina gialla del comando dei vigili urbani: da zona calda, ad alto tasso di immigrati clandestini (oggi sono il 14 per cento degli abitanti) al quartiere più effervescente e culturalmente vivace della città. «È vero, ci sono voluti dieci anni, una grande figura sociale come il parroco Don Gallo, e soprattutto un’amministrazione che ha fatto della mixitè il punto di forza dell’area – spiega Carlo Olmo, docente di Storia dell’Architettura contemporanea – ma alla fine il quartiere ha saputo trasformare i problemi in opportunità».

Olmo indica in lontananza gli scavi del metrò, la trincea che separa San Salvario dall’appena rinnovata stazione di Porta Nuova e aggiunge: «Opere come questa, insieme con un fittissimo calendario di iniziative culturali, e un tessuto commerciale rivitalizzato: ecco il processo multiplo che ha saputo trasformare la diversità di San Salvario, con i suoi tanti stranieri in risorsa».
Una risorsa che in qualche caso, proprio in questa zona incastonata fra il Parco del Valentino e la stazione, è virata in status symbol. Si pensi soltanto a quanto accadde l’estate scorsa, all’asilo Bay, nel cuore di San Salvario, la scuola più multietnica della città: negli Anni Novanta era «l’asilo dei neri», quello dove nessun genitore italiano avrebbe voluto iscrivere il proprio bambino. Nel luglio scorso quelle stesse classi ad alto tasso di occhi a mandorla e pelle nera (il 60 per cento dei bambini è straniero) sono diventate meta ambitissima: i genitori dei bambini italiani capirono l’importanza del confronto fra culture diverse.

E dire che sino a qualche anno fa in quello che fu battezzato il «crocevia dello spaccio», fra via Berthollet e via Nizza, la gente arrivava a svendere gli alloggi e la sera, per strada, c’era il coprifuoco: oggi, invece, laddove resiste lo spaccio, molto più contenuto di allora i controlli danno buoni frutti: «Grazie ad un’intensa collaborazione con gli abitanti e la procura – spiega il comandante provinciale dei Carabinieri, colonnello Antonio De Vita – è stato possibile provare l’attività di spaccio attraverso filmati che hanno garantito la condanna dei pusher». A San Salvario i carabinieri hanno da tre anni una nuova stazione. E anche i vigili urbani hanno una sede con un’ottantina di agenti di cui una buona metà è a disposizione della gente. Gente come Laura Pagano, 44 anni, architetto che dieci anni fa, per la disperazione, voleva vendere il suo alloggio di 80 metri quadri: «La sera avevo paura a rincasare, i pusher nascondevano gli ovuli nella nostra buca delle lettere». Oggi al posto del phone center che confinava con il portone di Laura c’è una bottega di birra artigianale, e la sera un viavai di fighetti. «Altra vita – commenta lei – e l’alloggio ha raddoppiato di valore». Aggiunge, orgoglioso il presidente di quartiere Mario Cornelio Levi – ora le signore torinesi hanno imparato dai loro vicini di casa a cucinare cous cous e banane verdi fritte. La diversità è diventata punto d’incontro e, perché no, tendenza: quando mangi il cibo di un altro è perché ti fidi».

D’accordo con lui è Don Gallo, il parroco-simbolo del quartiere che nel 2002 aprì il piccolo teatro Baretti al fianco della sua parrocchia: «E’ servito parecchio – racconta – come servono tuttora gli oratori e le gallerie d’arte: la cultura e il gioco, come sempre, sono collanti meravigliosi»
La Stampa 17.02.10

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