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"Se l´Italia perde il sogno della convivenza", di Gad Lerner

Gli scontri di Milano hanno mostrato le difficoltà d´integrazione nel nostro Paese. Ma altrove le cose funzionano diversamente. A Milano le imprese registrate alla Camera di Commercio con titolari immigrati costituiscono parte insostituibile del tessuto produttivo Per la Costantinopoli ottomana come per la New York di oggi la presenza di popolazioni diverse è stata fonte di ricchezza e sviluppo. Per secoli Costantinopoli, l´odierna Istanbul, fu al tempo stesso la più grande città turca, greca, armena, curda, ebraica, romena del Mediterraneo. Era la New York del suo tempo, la capitale del mondo (ammesso che possiamo permetterci il lusso, allora come oggi, di escludere la Cina). Grazie a questa straordinaria peculiarità multietnica la metropoli plurale cresciuta sul Bosforo, al confine tra Europa e Asia, prosperava senza paragoni possibili con gli altri centri urbani europei: Parigi e Londra apparivano borghi trascurabili al suo cospetto.
Prima che sopraggiungesse l´epoca dei nazionalismi, contrassegnata da genocidi, trapianti di popolazione e pulizie etniche, la città-mosaico aveva rappresentato il più potente fattore di sviluppo economico e culturale lungo tutta la sponda sud del Mediterraneo: furono multietniche fino a non molto tempo fa Salonicco, Smirne, Antiochia, Aleppo, Haifa, Alessandria d´Egitto, Algeri, Orano, successivamente ridotte con la forza a innaturale omogeneità. È banale constatare come la brutale cancellazione dell´esperienza urbana levantina, nel giro di pochi decenni del secolo scorso, abbia contribuito decisivamente al declino delle regioni mediterranee interessate. La Istanbul monoetnica di oggi resta una grande città ma non è più una capitale. Un senso di vuoto, di mutilazione subita, infonde sentimenti di rimpianto e nostalgia nelle altre città che furono plurali e oggi sono ridotte al rango di province arretrate.
E prima ancora, l´equazione multietnicità uguale progresso era stata confermata dalla nuova potenza mondiale: gli Stati Uniti d´America, un nuovo impero generato dall´incontro fra comunità migranti. Tuttora, per fare un solo esempio, New York ha una popolazione ebraica numericamente superiore alla somma di Tel Aviv e Gerusalemme. Mentre l´estirpazione della presenza ebraica dall´est Europa può essere annoverata tra le cause del suo impoverimento.
Magari bastasse la consapevolezza storica per convincere i popoli. Le recenti contrapposizioni ideologiche su un concetto astratto come il multiculturalismo segnalano dunque come sia difficile per le leadership politiche e culturali misurarsi con il fallimento di un´illusione: far coincidere semplicemente, sulla carta geografica, gli Stati con le nazioni.
Quando un leader che è anche imprenditore globale come Berlusconi (con soci arabi e interessi sparsi oltreconfine) proclama di battersi “contro la società multietnica”, denota l´urgenza opportunistica di assecondare una spinta difensiva anacronistica lontana dal suo linguaggio originario: il format televisivo commerciale, apolide per definizione. Quando protesta contro il fatto che a passeggio nel centro di Milano s´incontrano troppi africani, nega l´abc della nuova metropoli europea di cui anche lui è figlio. Quasi mai la città multietnica è il prodotto di una politica abitativa consapevole, pianificata. Perché i flussi migratori possono essere regolati da governi responsabili, ma ben difficilmente pianificati. Accade così, con il senno di poi, che le diverse visioni culturali e soprattutto le convenienze politiche diano luogo a teorie dell´integrazione o del rifiuto che solo a parole rivendicano la dignità di un progetto.
I due “modelli” alternativi di integrazione spesso contrapposti sono oggi in Europa il “modello repubblicano francese” e il “modello comunitarista britannico”. La Francia, erede di una concezione rivoluzionaria della cittadinanza fondata sui diritti, e quindi disgiunta dal vincolo di sangue della nazionalità, ha perseguito una pedagogia delle regole che trasformi gli immigrati in concittadini su base laica. Ciò non ha impedito la formazione di agglomerati urbani separati, di problematica integrazione. Ma finora le rivolte delle banlieu, seppure violente, hanno visto prevalere la dimensione sociale e semmai criminale rispetto a quella religiosa integralista. Viceversa la storia coloniale dell´impero britannico ha favorito nel Regno Unito la crescita di vere e proprie comunità immigrate a sé stanti, dotate di leadership separate anche nell´elaborazione di codici morali e di cittadinanza, finendo per costituire entità in comunicanti. Perfino corpi estranei, talvolta “nemici interni”.
In diverse città italiane (Torino e Genova al nord, Palermo e Catania al sud) l´occupazione di vaste porzioni di centro storico da parte delle comunità immigrate è stata parzialmente gestita nel tempo con un´affannosa rincorsa di integrazione spontanea, affidata soprattutto alla scuola e al volontariato sociale, oltre che all´azione preventiva e repressiva delle forze di polizia. Diverso è il caso di Milano, governata ormai da decenni da amministrazioni di destra che rifiutano ideologicamente la nuova dimensione multietnica. Ciò naturalmente non ha frenato la vitalità dei nuovi cittadini milanesi immigrati, le cui imprese registrate presso la Camera di Commercio ormai detengono una quota di ricchezza irrinunciabile per l´economia metropolitana; senza contare la quota dell´economia illegale e della malavita. Il risultato è che la nuova forza economica degli immigrati, rifiutata a parole e boicottata con normative anacronistiche, spontaneamente cerca luoghi di residenza e d´investimento che aggirino l´ostacolo.
Fu così per la prima “casbah” di Porta Venezia, oggi non solo bonificata ma arricchita grazie alla sua nuova dimensione multietnica. È toccato poi alla non distante arteria commerciale di via Padova di divenire il ricettacolo di subaffitti senza regole e di vendite d´appartamenti e negozi alla spicciolata, con prezzi in costante ribasso.
Il laissez faire di chi rifiutava ogni pianificazione perché elettoralmente gli conveniva proclamare “no allo straniero”, di certo non era in grado di bloccare la metamorfosi in atto. Ma ha causato un´identificazione fra città multietnica e degrado che stride con la storia della civiltà.
La Repubblica 18.02.10

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“Gli immigrati senza voce. L’assenza di rappresentanza”, di Pap Khouma

Quando nel 2007 fu organizzato un grande convegno sull´integrazione, arrivarono politici ed esperti da tutta Italia e da tutto il mondo per analizzare il problema: ma non furono invitati stranieri residenti qui
Non vengono mai coinvolti, nemmeno nei quartieri

Non c´è solo via Padova. Zone simili si trovano anche nel resto della Lombardia. In alcune la convivenza non pone delle difficoltà, in altre ritroviamo dei ghetti degradati e intenzionalmente trascurati dalle amministrazioni locali, dove sono concentrate le classi più povere della società. Ci scandalizziamo soltanto quando succede il peggio.
Non sembrano invece interessare quelle trasformazioni del Paese che vedono gli immigrati essere protagonisti silenziosi di soluzioni di spontanea integrazione.
A Milano, alla fine degli anni Novanta tanti negozi di quartieri periferici stavano chiudendo. La giunta comunale guidata dal Sindaco Albertini prometteva un incentivo ai negozianti che tornavano a investire in quei quartieri. L´iniziativa del sindaco era reclamizzata dai mezzi di comunicazione e da molti manifesti. All´epoca, la città di Milano stava cambiando e viveva una delle sue tante metamorfosi. Questa era collegata all´aumento di famiglie di residenti stranieri, che andavano ad abitare in periferia. Ebbene: gli immigrati, senza pretendere gli incentivi comunali, hanno progressivamente riaperto o ripreso dei punti vendita abbandonati o in difficoltà. Nella maggior parte dei casi li hanno convertiti in negozi di prodotti etnici. Nello stesso periodo tante scuole rischiavano di essere soppresse a causa del calo demografico. I ricongiungimenti famigliari e di conseguenza le nascite di figli d´immigrati hanno risolto parzialmente il problema. Ma la forte presenza di stranieri in alcuni quartieri e nelle scuole ha spinto tante famiglie di italiani a cambiare zona di residenza.
Tutte le grandi città del mondo, dove si sono verificati dei flussi migratori, hanno dovuto vivere e anche cercare di risolvere con equilibrio dei problemi ancora più difficili, dando voce – e in parecchi casi anche il diritto di voto – agli immigrati.
In Italia sono presenti milioni di immigrati: sono residenti legalmente e regolarmente pagano le tasse. Ma non hanno voce. Le loro strutture organizzative sono emarginate persino quando sono in ballo le tematiche legate al futuro delle loro famiglie. Gli immigrati devono almeno aver il diritto di decidere nei quartieri dove vivono e dove producono benessere e cultura.
Il 21 e 22 settembre 2007, il ministero dell´interno del governo di Romano Prodi e l´Associazione Nazionale dei Comuni d´Italia avevano organizzato a Firenze la prima conferenza sull´integrazione degli stranieri.
Erano intervenuti rappresentanti delle amministratori locali e regionali, ministri, sindacalisti, datori di lavoro, esponenti di organizzazioni nazionali e internazionali impegnate nel settore dell´immigrazione. C´erano tanti esperti stranieri arrivati da Francia, Germania, Olanda, Inghilterra. C´erano circa cinquanta relatori. Ma neanche un immigrato residente in Italia era stato invitato.
Questo si chiama “noncuranza” o “disprezzo”. Ed è indice di una sfiducia assoluta e ben radicata nella possibilità di riconoscere l´immigrato come referente e non solo come eterno ospite. Le soluzioni non si trovano nella contrapposizione di posizioni politiche a livello nazionale e locale. L´immigrazione non solo è una realtà innegabile ma è una realtà che evolve e va innanzitutto conosciuta.
Il 1 marzo 2010 (per informazioni c´è il sito www. primomarzo2010. it) vari comitati di immigrati hanno organizzato a livello nazionale una giornata di protesta pacifica, per far sentire la propria voce, chiedere un po´ di rispetto. Sperando di essere ascoltati.
La Repubblica 18.02.10

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“Diseguaglianza. La rabbia dei deboli”, Intervista alla sociologa Saskia Sassen di Leonetta Bentivoglio

La diseguaglianza non consiste solamente nell´avere meno soldi. Ma anche nell´essere espulsi, cacciati, respinti proprio fisicamente dalle zone più ricche, più belle, più eleganti delle città

Per ripensare l´identità di Milano e districare quell´accumularsi di tensioni che ne stanno modificando il volto, può essere utile l´idea di «città globale» elaborata da Saskia Sassen? «Per molti versi sì», replica la sociologa statunitense, e sottolinea la peculiarità di un conflitto «sviluppatosi all´interno della popolazione di immigrati», aggiungendo che gli scontri «rappresentano la forma estrema di un vecchio fenomeno: quello per cui i gruppi più deboli, in una società, scatenano una forte aggressività reciproca essendo per loro inaccessibili i livelli del potere».
Esperta di processi transnazionali, Saskia Sassen è autrice di lavori che hanno stabilito nuovi quadri metodologici nelle definizione di città come elemento strategico dell´economia globale: da Le città globali (Utet) fino a Territorio, autorità, diritti (Bruno Mondadori), che nello stravolgimento dell´accezione tradizionale di quei tre concetti identifica il motore della trasformazione epocale.
Le sue analisi sull´ineguaglianza derivante dalla globalizzazione possono applicarsi ai fatti di Milano?
«Certo. L´ineguaglianza dilaga da tempo nelle città, ma quella emersa negli ultimi anni Ottanta, e che si sta mostrando in crescita continua, è di genere diverso. In passato gli abitanti più poveri delle città, pur se discriminati, potevano sentire che era quello il loro luogo. Invece oggi il quesito centrale degli emarginati è: a chi appartiene questa città? L´ineguaglianza non consiste solo nella miseria, ma nell´essere espulsi, cacciati, respinti fisicamente dalle zone più belle, ricche ed eleganti della città».
Quando definisce i conflitti tra immigrati un fenomeno “vecchio”, a cosa si riferisce?
«A quanto è accaduto a New York negli anni Ottanta e Novanta: vi si sono insediate le nuove comunità latino-americane scontrandosi coi portoricani e altri gruppi ispanici radicati da tempo. Lo si è visto pure all´interno della comunità nera, quando sono arrivati gli haitiani e gli immigrati dei Caraibi. Ciò che si scatenerà in modo sempre più violento sarà una sorta di nazionalismo “sotterraneo” tra i vari gruppi di immigrati. Sto scrivendo un nuovo libro, Città e Nuove Guerre, dove espongo quelle che secondo me sono le cause di questo scenario di ineguaglianze ed espulsioni: la città perde la sua facoltà di trasformare la conflittualità in civiltà, che è stata una delle capacità sviluppate dalla città tanto nel tempo della storia quanto nello spazio del pianeta».
Quali sono i modi più opportuni e sperimentati per arginare le esplosioni di violenza nelle città globali?
«Difficile rispondere. Molte città globali, apparentemente, sono riuscite a controllare l´ineguaglianza e la violenza che ne risulta, ma il più delle volte è stato fatto tramite la repressione. Oggi a New York ci sono trecentomila immigrati in carcere in attesa di processo: li si imprigiona senza sapere neppure se sono colpevoli di qualcosa! E al di sotto delle immagini luccicanti di Dubai, c´è un intero mondo di immigrati che lavorano in condizioni di vergognoso sfruttamento. L´unica cosa che si può fare è adoperarsi intensamente per una vera integrazione».
La Repubblica 18.02.10