economia, politica italiana

"Le città all'esame dei redditi. Dieci lombarde tra le prime", di Andrea Maria Candidi e Giovanni Parente

Un collage di mille fotogrammi ad alta risoluzione. Anzi, ottomilacentouno, tanti quanti sono i campanili italiani. E non bisogna lasciarsi tradire dalla prima sensazione – come quella che attraversa chi guarda un’istantanea vista altre mille volte – alla lettura dei redditi Irpef 2008. Perché dietro al quadro di un paese che conferma di andare avanti a due velocità, da una parte il Nord, dall’altra il Sud (si veda la cartina a fianco con le diverse intensità di colori che “pesano” i capoluoghi), si nascondono anche sorprese.
Di certo, nella hit parade dei redditi medi per città, prima di ritrovarsi al di sotto del Rubicone è necessario scendere di molte posizioni: Fiesole, nel fiorentino, arriva 51 posti dopo Medea, in provincia di Gorizia, che è prima assoluta con più di 54mila euro di media a contribuente. Mentre Roma, in testa tra le metropoli del Centro-Sud, costringe a spingersi fino al numero 108. Il divario con Milano – al 17° posto nella graduatoria generale, ma in testa nella classifica dei soli capoluoghi – è evidente: 24.500 euro contro 30mila.

Sono in Lombardia, peraltro, dieci città tra i primi venti capoluoghi, praticamente tutte, tranne Cremona e Sondrio. I numeri dei capoluoghi (si veda la tabella in alto a destra) confermano inoltre l’eccezionalità, di questi tempi, della profezia sugli ultimi che saranno i primi: le ultime province nate – ad esempio il Medio Campidano della Sardegna, o Barletta-Andria-Trani in Puglia – sono proprio nelle ultime posizioni. Il recordo del Sud e delle Isole spetta invece al capoluogo sardo: Cagliari si colloca al 28° posto in graduatoria con poco più di 22mila euro dichiarati di media, seguito da Caserta (33°) con 21.760 euro.

I dati del ministero delle Finanze sulle dichiarazioni dei redditi 2008 forniscono la possibilità di guardare, all’interno delle singole realtà, la distribuzione dei contribuenti in base al reddito. Così, ad esempio, le città che hanno il numero più alto di residenti che dichiarano oltre 100mila euro – classe massima censita – sono esattamente quelle ai primi posti nella classifica dei capoluoghi. Le prime dieci hanno tutte un numero di ricchi superiore al 2% del totale dei propri contribuenti (a Milano, addirittura il 3,5 per cento). Un’altra simulazione permette di affermare come, in linea generale, tra il 2004 e il 2007, sia diminuito complessivamente il numero di cittadini che dichiara fino a 10mila euro, mentre è aumentata la percentuale di ricconi.

Ma, ci si chiede, è proprio questa la realtà? Come fa mezzo paese ad andare avanti con livelli di reddito così bassi? «Le differenze dipendono non solo dalla capacità di produrre redditi, ma anche dalla fedeltà fiscale» fa notare Luca Ricolfi dell’osservatorio Nord-Ovest e docente di Analisi dei dati all’università di Torino. L’articolazione del quadro va oltre la distinzione Nord-Sud perché si possono registrare variazioni significative in termini di mancata dichiarazione anche all’interno di una stessa area geografica. Anche in chiave federalismo fiscale, l’invito di Ricolfi è proprio di fare attenzione a quale sarà il metro di misura utilizzato perché molto potrebbe cambiare se si considera il gettito effettivo o quello potenziale.

«Ci sono indicazioni che sottolineano come l’evasione fiscale al Sud sia più alta per Iva e Irap, probabilmente qualche ricaduta potrebbe verificarsi anche per l’Irpef» è l’impressione di Massimo Baldini, professore di Scienza delle finanze all’università di Modena. Il divario che si legge dai numeri potrebbe non essere quello che si registra nel quotidiano. «La distanza nei redditi medi tra regioni settentrionali e meridionali – riflette ancora Baldini – è maggiore di quella che si registra nei consumi. Questo dipende dagli effetti redistributivi della spesa pubblica e dall’evasione fiscale».

Oltre i dati sui valori medi, ci sono realtà consolidatesi nel tempo. Prendiamo, ad esempio, proprio le città del Sud. «Il valore medio fotografa da un lato un divario di sviluppo – precisa Luca Bianchi dello Svimez – in cui esiste una fortissima polarizzazione dei redditi con diseguaglianze marcate». Allo stesso tempo, però, c’è anche un altro lato della medaglia da considerare: «La media è portata in basso da chi dichiara zero». In sostanza, l’evasione non è solo quantitativamente, ma anche qualitativamente diversa. «Nel Mezzogiorno esiste ancora una quota di evasori totali – aggiunge – perché ci sono situazioni di sommerso che in alcuni casi possono coinvolgere tutta la filiera produttiva». Attenzione, poi, a invocare il diverso impatto della dinamica dei prezzi nei centri meridionali. «A un costo della vita che può essere più basso al Sud – conclude Bianchi – fa da controaltare un livello dei servizi erogati inferiore rispetto alle altre aree. Questo significa che imprese e cittadini devono spendere per potervi accedere».
Il Sole 24 Ore 22.02.10

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“Solidarietà federalista da inventare”, di Massimo Bordignon

I dati sui redditi medi dichiarati dai contribuenti nelle città italiane impressionano per le differenze, ma non costituiscono certo una sorpresa. Nella città più ricca (Milano) si dichiara tre volte quello della città più povera, Adria. Le prime quattro città per livello di reddito sono tutte lombarde; per trovare una città del Sud, bisogna scendere alla 33esima posizione. Viceversa, le ultime venti città sono tutte situate nel mezzogiorno. Ma il divario Nord-Sud non è l’unica chiave di lettura suggerita dai dati.

Le due grandi metropoli e capoluogo di regione, Milano e Roma, spiccano rispetto ai relativi territori. Viceversa, in altre Regioni sono le città più piccole a dominare nella classifica dei redditi. Siena e Pisa sono più ricche di Firenze, Padova e Treviso di Venezia, Novara lo è di Torino. Certo i dati vanno presi con cautela. Stupisce per esempio la posizione relativa di Trento e Bolzano, che appaiono più povere di Como e Firenze. Bisogna però ricordare che si tratta dei redditi dichiarati, con tutto ciò che ne consegue.

Ma il quadro generale che ne emerge è chiaro. Ed è un quadro su cui il legislatore dovrebbe riflettere seriamente. La legge delega sul federalismo fiscale, approvata nel 2009, è ora in via di attuazione. Non c’è dubbio che alcune cose previste nella legge mal si conciliano con la realtà fotografata dai dati sui redditi.

Per esempio, un’indicazione che si ricava dalla lettura della legge è che addizionali e sovraimposte Irpef dovrebbero diventare uno dei cardini dell’autonomia regionale e locale. I dati del Sole 24 Ore consigliano molta cautela nel perseguire questa strada.

Difficile costruire un sistema federale sostenibile quando le differenze nell’attribuzione delle risorse tributarie sono così rilevanti. Per i comuni, in particolare, è necessario ampliare la batteria dei tributi disponibili. È stato sicuramente un errore abolire l’Ici sulla prima casa, che offriva un gettito sicuro ai comuni e sui quali c’era un chiaro rapporto tra la base imponibile e le politiche svolto a livello municipale; il valore di una casa dipende dai servizi offerti dal comune.
Ma anche altre tipologie di imposte dovrebbero essere considerate. Per esempio, i consumi sono distribuiti in modo più uniforme sul territorio del reddito. E una compartecipazione all’Iva su base comunale potrebbe anche tener conto del fenomeno del pendolarismo, soprattutto per le città di grandi dimensioni. I pendolari consumano in loco, ma non pagano per i servizi di cui usufruiscono e che sono finanziati con le imposte pagate dai residenti. Una compartecipazione comunale all’Iva servirebbe a riequilibrare il sistema.

Una seconda indicazione che emerge è un auspicio a una grande attenzione nell’attuazione della legge per quanto riguarda i servizi che nel nuovo sistema i comuni dovranno offrire. La legge delega è molto rigida su questo punto; identifica un insieme di funzioni fondamentali che tutti i comuni dovrebbero offrire (circa l’80% delle spese attuali) e pretende di costruire un sistema perequativo che finanzi tutti questi servizi nella stessa misura.

Ma i comuni, anche solo limitandosi alle città di medie-grandi di questo campione, sono molto diversi tra di loro e hanno esigenze differenziate. Un’impostazione troppo rigida rischia solo di essere dannosa oltre che irrealistica. Meglio piuttosto selezionare alcuni servizi su cui c’è una forte esigenza solidaristica a livello nazionale (per esempio, la dotazione di asili nido) e concentrare su questo lo sforzo perequativo.

Infine, i dati ci dicono qualcosa anche sul tema annoso delle città metropolitane. La legge delega le identifica (sono nove, di cui otto già note, a cui all’ultimo momento è stata aggiunta anche Reggio Calabria) ma non dice cosa queste devono fare. Una recente proposta governativa risolve questo problema elencandone le funzioni, ricalcandole da quelle delle attuali Province e aggiungendone altre. Ma l’ipotesi di fondo della proposta governativa è che tutte le città metropolitane, una volta istituite debbano fare tutte le stesse cose. Alla luce delle differenze che emergono anche solo dal lato delle risorse economiche, esemplificate qui dal reddito dei cittadini, ha senso questa impostazione? O non era meglio prevedere anche in questo caso una differenziazione delle funzioni, sulla base delle esigenze diverse del territorio?

Il Sole 24 Ore 22.02.10