attualità, politica italiana

"Il partito mai nato", di Massimo Giannini

Nello scandalo della protezione civile è racchiusa la parabola del Pdl. una felice e astuta intuizione del capo che ne riflette tutti i limiti. Nella massa gelatinosa dello scandalo sulla Protezione civile è racchiusa la parabola di un partito mai nato. Invischiato tra le logiche politiche di governo e le pratiche affaristiche del sottogoverno, il Pdl si disvela per quello che era ed è rimasto fin dal giorno della famosa “Rivoluzione del predellino”: una felice ed astuta intuizione del Capo, che ne riflette tutti i limiti culturali e ne amplifica tutti i vizi individuali. L’ennesima proiezione avventuristica del solito “partito personale”, dalla quale non si è mai generato un vero “personale di partito”.

Questo dicono i veleni spurgati dalla ferita aperta nel cuore del potere berlusconiano, che macchiano per la prima volta la camicia bianca immacolata di Gianni Letta. Questo dimostrano le vipere uscite improvvisamente dal nido scoperchiato dalle inchieste delle procure, che si mordono tra loro contendendosi quello che Giuliano Ferrara sul Foglio chiama “l’osso della successione”. Questo conferma l’ultimo scontro durissimo tra il premier e Fini, sulla lettura della nuova Tangentopoli, sulla natura delle inchieste giudiziarie in corso, sulla fattura delle cosiddette “liste pulite”.

Due anni fa la fusione “a caldo” tra Forza Italia e Alleanza Nazionale fu la cosa giusta da fare. Ma il modo in cui è stata prima concepita e poi gestita testimoniano il sostanziale fallimento al quale stiamo assistendo. In quel pomeriggio freddo di Piazza San Babila, a Milano, Berlusconi si è “annesso” un Fini alle corde, alla vigilia del voto del 13 aprile 2008. L’operazione è riuscita perfettamente dal punto di vista elettorale. Il Partito del Popolo delle Libertà, blindato dal rituale patto di sangue con la Lega di Bossi, ottenne allora un successo clamoroso, con una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana. Si disse allora, giustamente, che il Cavaliere aveva compiuto il suo capolavoro. Dopo quasi quindici anni vissuti pericolosamente, tra populismo mediatico e autoritarismo politico, era finalmente riuscito a cementare un blocco sociale largamente maggioritario nel Paese: una nuova destra. Non ancora risolta. Non del tutto europea.
Ma il dado era tratto, e il cantiere ormai aperto. L’originario “partito di plastica” lasciava il campo a un “partito di ferro”, articolato negli organigrammi e radicato nei territori. L’anchorman di Arcore non aveva più solo un suo pubblico, aveva finalmente un suo popolo. Su tutto questo, dopo aver fatto Forza Italia, avrebbe dovuto fare i “suoi” italiani. Moderati e conservatori, ma nel cambiamento. Su tutto questo, in altre parole, avrebbe dovuto costruire un nuovo progetto politico, culturale, identitario. Per poi farlo vivere attraverso l’azione di governo e la comunicazione dei ministri, la formazione dei gruppi dirigenti e la selezione degli apparati locali, l’integrazione tra i ceti sociali e l’interazione con le opinioni pubbliche.

Tutto questo, da quel lontano 18 novembre 2007, è clamorosamente mancato. Aveva ed ha ragione Gianfranco Fini, che già allora e poi al congresso fondativo del Pdl avvertì: non basta uscire dalla casa del padre per dire “abbiamo fatto un partito”. A quel partito occorreva ed occorre dare una struttura, un’organizzazione e poi una missione. In una parola: a quel partito bisognava e bisogna dare “un’anima”. Se tutto questo manca, un partito muore. Oppure, come nel caso del Popolo delle Libertà, nasce all’anagrafe, ma non alla politica, e meno che mai alla società. O meglio: può anche nascere, può persino sopravvivere, ma a tenerlo in vita non è un disegno unitario, non sono valori comuni e ideali condivisi. È invece nella fase statica la pura giustapposizione degli interessi, e nella fase dinamica la strenua difesa dei medesimi. Ma niente più di questo.

Infatti, oggi, è proprio questo nulla ad essere rivelato tangibilmente, nelle pieghe politiche che hanno mandato in crisi, stavolta sì per via giudiziaria, il governissimo Berlusconi-Bertolaso. E in questo nulla, che sembra preludere o sottintendere quello che i giornali di famiglia chiamano un più o meno strutturale “difetto di conduzione che risale al Principe”, deflagrano le guerre intestine, il fuoco amico, le veline al curaro “di chiara fabbricazione interna”. Esplodono i conflitti tra sub-potentati nazionali e cacicchi locali, tra potenziali “delfini” e sedicenti “successori”. Dalle politiche fiscali alle candidature regionali, dalle nomine nell’establishment alle Spa pubbliche: non c’è fronte aperto, dopo la pubblicazione dei materiali d’indagine delle procure di Firenze o di Roma, sul quale non impazzi la lotta fratricida.

È il tutti contro tutti: Fini contro Berlusconi, Tremonti contro Letta, Ghedini contro Verdini, Cicchitto contro Fitto, Cosentino contro Bocchino. E via a scendere, per li rami di un’improbabile albero “dinastico”. Qualcosa di più complesso della semplice “degenerazione cortigiana”. E di meno nobile dell’antica dialettica interna ad un vero partito di massa come la Dc, dove i leader si scannavano, ma alla fine trovavano una sintesi, più o meno compromissoria, all’insegna di una constituency visibile, ancorché discutibile: lo statalismo assistenziale, il solidarismo cattolico, l’economia sociale di mercato all’italiana, il proporzionalismo clientelare.

Nel Pdl questi ingredienti sono mancati e mancano in radice. C’è un’altra idea della destra, laica e costituzionale, incarnata dal presidente della Camera. Ma le istanze del “co-fondatore” non hanno diritto di cittadinanza, o sono palesemente ininfluenti perché largamente minoritarie. Per il resto c’è l’anchilosi delle politiche e la paralisi delle culture. Questo centrodestra non offre agli italiani un’idea di Paese possibile. Dal Welfare alle tasse, dalla recessione alle istituzioni, non è in grado di proporre riforme, e meno che mai di attuarle. Tutto si gioca e si consuma nel perimetro asfittico, intermittente e inconcludente del vitalismo leaderistico di Berlusconi, che ormai da tempo regna ma non governa. Mentre, sotto di lui, la corte si dilania.

Da questo punto di vista, lo scandalo della Protezione Civile apre uno squarcio ulteriore, e ancora più inquietante, sul futuro che ci aspetta. Quello che ha innescato, in termini politici, è un’illuminante epifania su ciò che potrebbe accadere (o forse accadrà) nel dopo-Berlusconi. Una scissione atomica, dove le “particelle”, piccole o grandi che siano, rischieranno di disperdersi nel caos entropico. Per cui – salvo soluzioni “imperiali” e di matrice cesarista, assurde ma coerenti con la biografia dell’uomo, tipo la figlia Marina – la vera domanda da farsi domani non è tanto “chi”, ma “che cosa” succederà a Berlusconi. Quanto all’oggi, non resta che constatare l’insostenibile “acedia del potere berlusconiano” (ancora Il Foglio). Il vero “amalgama mal riuscito” sembra il Pdl, persino più che il Pd.
La Repubblica 23.02.10