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"Italia rassegnata e furba senza senso del peccato", intervista a Giuseppe De Rita di Fabio Martini

Il presidente del Censis: lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando. Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali degli ultimi mesi, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto». La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

Si comincia a dire: siamo di nuovo a Tangentopoli. L’illegalità più recente le pare diversa da quella del passato?
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso».

Tangentopoli non è stata un’occasione mancata? L’opinione pubblica, città come Milano e Palermo, hanno sostenuto con convinzione la magistratura, ma al tempo stessi tutti si sono autoassolti: non è mancato un esame di coscienza collettivo che si paga ancora oggi?
«Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica».

Se dopo Tangentopoli non c’è stata una ripresa dell’etica collettiva, la colpa non è dei politici della transizione?
«Non potevano farlo. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito».

Quando inizia questa realtà di illegalità diffusa?
«Tutto ha inizio con don Lorenzo Milani…».

Con don Milani?
«Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io. Questi tre processi iniziano 50 anni fa e arrivano ad oggi».

Con quale effetto sull’etica pubblica delle classi dirigenti?
«Che oramai si decide in proprio se si è peccato o no, se si è fatto reato o no, se quel magistrato vada bene o no».

De Rita, l’Italia è rimasta senza classi dirigenti?
«Non c’è ricambio. E una società senza ricambio, è difficile che non imploda. Ognuno recita la sua soggettività. Si sa già cosa diranno Berlusconi, Fini o Casini e la gente a quel punto non ci crede più. Ho letto l’elenco completo degli ottocento candidati per le Regionali ma io che sono nato e vissuto a Roma, ne ho riconosciuti tre. E’ gente in cerca di pubblicità, di affari, non lo so. Ma potenziali leader non possono essere dei perfetti sconosciuti».
La Stampa 03.03.10