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"Il Presidente e l'Europa dimenticata", di Boris Biancheri

Il chiasso prodotto dalle povere vicende di casa nostra finisce con l’assordarci a tal punto che non prestiamo quasi orecchio a quel che succede nel mondo. Diamo ogni dovuta attenzione al lapidario commento lasciato cadere dal presidente della Repubblica Napolitano durante la sua visita a Bruxelles in merito al «pasticcio» Polverini – Formigoni.
Oppure restiamo colpiti dall’imbarazzato richiamo per consultazioni del nostro ambasciatore affinché chiarisca i suoi rapporti con l’ex senatore Di Girolamo. Ma finiamo col dare per scontato ciò che si è passato nei colloqui che il Presidente della Repubblica ha avuto con i vertici dell’Unione Europea, della Commissione e del Parlamento dove si giocano le sorti non di questa o quella candidatura regionale e provinciale ma del futuro dell’intera Europa. Eppure le parole pronunciate da Napolitano a Bruxelles sono di quelle che ormai si sentono raramente.

Che l’avvenire del nostro continente dipenda dalla capacità degli Stati europei di dotarsi di istituzioni comuni in grado di prendere decisioni di portata generale e che l’interesse di ogni singolo Paese vada visto attraverso quello dell’Unione nel suo complesso era, sino a qualche anno fa, quasi un luogo comune. Non sempre quelli che pronunciavano simili affermazioni ci credevano fino in fondo, molte riserve mentali, molti latenti scetticismi si nascondevano dietro la retorica europeista dei nostri politici e delle classi dirigenti. Ma, tutto sommato, quella retorica era anche il segno che gli ideali ispiratori della costruzione europea erano ormai talmente accettati che, a ribadirli, si dava prova, più che di talento politico, di buona educazione. Poi è successo quello che è successo. Prima sono stati i referendum in alcuni Paesi europei sul progetto di costituzione e sul Trattato di Lisbona che hanno rivelato la frattura esistente tra le ambizioni europeiste e il sentimento di certe opinioni pubbliche. Poi è sopravvenuta la crisi economica e finanziaria che ha indotto i governi a dare priorità agli affari di casa loro e se ne è vista una conseguenza quando quegli stessi governi hanno collocato ai vertici delle Istituzioni comuni, nella difficile fase in cui la nuova dirigenza si alterna a quella vecchia, delle personalità scelte forse più per i loro limiti che per le loro virtù, come il belga Von Rompuy (che sa bene come sopravvivere nel suo Paese tra etnie litigiose) o l’inglese Catherine Ashton che costituisce ancora un’incognita per tutti.

A loro, come al presidente della Commissione Barroso e al presidente del Parlamento Europeo Buzek, Napolitano ha ripetuto con forza che bisogna far funzionare le istituzioni quali esse sono, senza pensare a nuovi trattati o a modifiche che, anziché perfezionarle, rischierebbero di farle naufragare del tutto, ma ancor più senza permettere che esse vengano aggirate da intese dirette tra alcuni Stati nazionali che agiscono in base a loro logiche settoriali e contingenti. E l’allusione ai contatti riservati – ma neppur tanto – tra alcuni partner su come pilotare la barca europea tra le secche della crisi non poteva essere più evidente.

Mai come adesso, infatti, si ha la sensazione della scomparsa di un’Europa protagonista della scena politica ed economica mondiale, nel silenzio degli stessi europei e tra i sorrisi di chi, in America soprattutto ma anche altrove, all’Europa ha sempre voluto credere poco. Non si tratta solo della riluttanza ad assumere chiare posizioni di sostegno in ordine alla crisi della Grecia per timore delle reazioni che ciò può suscitare nella propria opinione pubblica, si tratta anche dell’assenza di una strategia e perfino dello studio di una possibile strategia nei confronti della Cina, o dei rapporti transatlantici, o della Russia, in un momento di incertezza e di riassetto globale dei rapporti internazionali. Sulla copertina dell’ultimo Time Magazine figura un globo terracqueo nel quale l’Europa addirittura non c’è e dove il mare ne ha preso il posto.

Ha ragione il presidente Napolitano quando impiega un linguaggio che ricorda quello dei tempi eroici della costruzione dell’Unione. Egli ne conosce bene le possibilità e i meccanismi, anche per essere stato per cinque anni parlamentare europeo ed è proprio al Parlamento che con maggior vigore ha fatto appello perché reagisca al ritorno di striscianti nazionalismi e tragga dai poteri che gli sono propri quegli impulsi di innovazione e di progresso unitario e democratico che tutti i governi, non escluso il nostro, sembrano incapaci di produrre.
La Stampa 05.03.10