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8 marzo e dintorni: breve rassegna stampa

La forza delle donne fa crescere il Paese. Le donne per il governo delle regioni. La parità tra uomini e donne nelle istituzioni e nella vita economica e sociale del paese è l’obiettivo che vogliamo raggiungere. Il primo problema da affrontare è quello del perché non solo siamo agli ultimi posti in Europa per numero di occupate ma il lavoro delle donne è diventato, con la crisi, ancora più instabile e precario.
Il governo nega la crisi e non propone nulla per incentivare il lavoro femminile e per migliorare i servizi pubblici: asili, scuole,assistenza agli anziani, ai disabili. Tutto si scarica sulle famiglie.

Le regioni amministrate dal centro sinistra hanno fatto molto e molto possono ancora fare i nostri candidati e le nostre candidate. In primo luogo, per l’inserimento lavorativo delle giovani donne e per la tutela delle lavoratrici atipiche di quelle precocemente espulse dal mercato del lavoro.
Vogliamo sostenere le imprese femminili e l’accesso al credito, attraverso banche dati dei saperi e delle competenze delle donne è possibile aiutare le carriere femminili; vogliamo aiutare la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, e le aziende che adottano tempi, orari e organizzazione del lavoro “familyfriendly”.

Ci impegniamo a incrementare la rete degli asili nido e dei servizi per l’infanzia, secondo gli obiettivi che la UE ci assegna, a rilanciare le politiche di prevenzione e la medicina territoriale, a partire dai consultori; vogliamo attuare piani concreti e stanziare risorse contro la violenza sulle donne.

Dedicheremo risorse umane ed economiche alla costruzione dei percorsi di cittadinanza e lavoro per le donne immigrate.

Investiremo di più nella partecipazione delle donne alla vita pubblica e delle istituzioni, con l’obiettivo di aumentare il numero delle elette nelle prossime elezioni, di comporre giunte paritarie, di designare sempre più donne negli enti e organismi di competenza regionale.
www.partitodemocratico.it

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“L’8 marzo compie cent’anni. Tra conquiste e nuovi rischi”, di ANAIS GINORI

Buon secolo, 8 marzo. Criticato, svalutato, comunque utile. Nel 1910, durante il congresso socialista di Copenaghen, venne deciso che sarebbe stata questa la giornata da dedicare alla festa della donna. Era l’inizio di un cammino che, in pochi decenni, ha portato l’altra metà del cielo a raggiungere traguardi impensabili fino ad allora. Cento anni fa le donne non votavano, non studiavano o lavoravano come gli uomini, non potevano scegliere liberamente quando sposarsi, fare figli, separarsi. Come ogni anniversario, anche questo porta con sé la voglia di fare bilanci, di misurare le conquiste di quella che, secondo lo storico Eric Hobsbawn, è stata l’unica, vera rivoluzione del secolo breve.

“Per fortuna ci sono i compleanni: danno voce a certe cose decisive per l’umanità, servono a fare il punto sul loro sviluppo” dice con una punta di ironia la filosofa Luce Irigaray. “Ma in queste occasioni si tende a guardare al passato mentre, sull’emancipazione delle donne, purtroppo molte cose sono ancora da coniugare al futuro”. Anche la filosofa Michela Marzano, quarant’anni più giovane della sua celebre collega belga, pensa che si debba in qualche modo festeggiare. “Rispetto al 1910, la situazione è cambiata tantissimo, quindi è giusto celebrare i progressi ottenuti finora”.

“The Female Factor” ha titolato l’International Herald Tribune sull’importanza del Fattore D nel ventunesimo secolo. Oggi, le donne vanno nello spazio o al governo, brevettano invenzioni scientifiche e dirigono multinazionali. Eppure, partendo da generazioni e punti di vista diversi, sia Irigaray che Marzano intravedono il rischio di tornare indietro. “Il fatto di ricordare come stavamo prima e come ci siamo ritrovate progressivamente – spiega Marzano – è anche un monito alle giovani generazioni per fare in modo che non ci sia una regressione”. “Le giovani donne di oggi non si rendono conto del percorso compiuto – osserva Irigaray, storica del pensiero femminista – . Approfittano del cambiamento della condizione femminile senza realmente cercare di capire a quale generosità, fede e solidarietà delle donne sia dovuto”.

Il femminismo non è mai stato una cosa sola. Spesso si è discusso anche su questa data simbolica, che secondo le ricerche di Tilde Capomazza e Marisa Ombra (“8 marzo, una storia lunga un secolo”, editore Iacobelli) potrebbe essere antecedente o addirittura successiva al 1910. Comunque sia, sembra impossibile abbassare la guardia. “Non cantiamo vittoria” è l’invito di Marzano, che sta per pubblicare un libro proprio sulla condizione femminile in Italia. Molte conquiste risultano tali solo sulla carta. “La donna italiana è minacciata da nuove forme di sottomissione. È ancora difficile essere riconosciuta come persona a parte intera, uguale in termini di diritti, di capacità, di presenza femminile effettiva nella vita pubblica”.

A lungo, Luce Irigaray si è confrontata a distanza con Simone de Beauvoir sulla “differenza femminile”. È convinta che cercare il proprio spazio in un mondo maschile non sia abbastanza. “Occorre anche coltivare e sviluppare identità e soggettività al femminile, senza rinunciare a se stesse. I valori di cui le donne sono portatrici – aggiunge – non sono sufficientemente riconosciuti e apprezzati, anche dalle stesse donne. Però sono valori di cui il mondo oggi ha urgente bisogno, che si tratti di una maggiore cura della natura o di una capacità di entrare in relazione con l’altro”.

Non c’è da stare tranquille, perché si assiste persino al ritorno di vecchi cliché. “Un secolo fa – ricorda Marzano – Freud notava che le donne erano separate in due categorie: spose legittime e prostitute. Da un lato, oggi, è di nuovo forte la funzione della donna come madre, dall’altro le donne che appaiono sulla scena pubblica sono piuttosto silenziose: per loro parla solo il corpo”. Conservare la memoria di tante battaglie, intraprenderne di nuove. Irigaray, nata nel 1930, vorrebbe che proseguisse la lotta per quella che definisce una “genealogia culturale al femminile”. Alle più giovani, affida qualche consiglio. “Le donne devono anzitutto imparare a situarsi rispetto agli uomini, senza sottomissione né opposizione. Ben venga il compleanno, allora, ma purché sia accompagnato da una spinta nuova, dall’invito a proseguire con decisione sulla via di una crescita”. Auguri dunque, ma anche tanto lavoro da fare, ancora.
La Repubblica 08.03.10

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“Donne, basta lamenti”, di DANIELA DEL BOCA e NADIA URBINATI

LE PROTAGONISTE dell’8 marzo celebrato oggi al Quirinale saranno quest’anno le giovani di età inferiori a 18 anni, le cittadine e le donne di domani.
A loro altre donne di altre generazioni porteranno insieme alla loro esperienza di vita un messaggio fortissimo di donne che hanno sfidato, affrontato e superato molte difficoltà anche in attività che sono tradizionalmente riserva maschile.

L’8 marzo il Quirinale sarà un forum di modelli positivi. Non è la straordinarietà del fare, l’eccezionalità degli obiettivi raggiunti quello che conterà in questo messaggio, ma il coraggio di aver osato, la caparbia determinazione a voler esprime le proprie capacità e a resistere ai contro-messaggi che vengano da ogni angolo della società.

In questi giorni sono anche usciti due volumi, unici nel loro genere, per l’Italia soprattutto, che offrono altri esempi di ruoli e che mettono a confronto esperienze di donne e società diverse: Revolution Womenomics di Avivah Wittenberg-Cox e Alison Maitland (Il Sole24 ore) e Ma le donne no. Come si vive nel paese più maschilista d’Europa di Caterina Soffici (Feltrinelli). Sono libri molto diversi nel metodo e nello stile ma simili nel messaggio. Il primo si concentra sul mondo dell’impresa e mostra con dati aggiornati le capacità e insieme le incredibili difficoltà che le donne hanno in tutto il mondo a realizzare le loro aspettative e a mettere a frutto quello che hanno appreso; ne viene fuori lo spaccato di un presente che pur nelle sue contraddizioni è gravido di futuro al femminile. Il secondo volume spazia tra vari contesti, pubblici e privati, dello spettacolo e della politica, per tratteggiare con racconti di vita l’immagine dell’utilizzo delle donne nel nostro paese, del loro corpo e della loro mente. La comparazione tra la nostra società e quella di altri paesi – occidentali e non – non lascia spazio a giustificazione alcuna: le donne italiane sembrano davvero non solo le meno pagate e riconosciute, quale che sia la loro professione, ma anche le meno rispettate. Col passare degli anni e la conquista dei diritti pare che la situazione sia non solo rimasta immutata ma anche cambiata in peggio. Eppure l’esigenza di invertire questa tendenza esiste e le proposte non mancano anche se non ricevono l’attenzione che meritano né dai media né dal mondo politico.

Le celebrazioni al Quirinale e questi due libri sono indicativi di un atteggiamento nuovo e positivo, un atteggiamento che occorre aiutare e incentivare anche perché interrompe l’abito del negativismo e ci sfida a cercare esempi di vita che siano una forza e un bene per la società, per le più giovani prima di tutto: modelli ai quali ispirarsi. Dopo anni in cui abbiamo subito, nostro malgrado, un bombardamento mediatico che ci ha spalmato sugli occhi immagini di donne incasellate all’interno di ruoli non solo tradizionali ma anche abbruttiti, c’è bisogno di porci da una prospettiva diversa per non avvilire le nostre potenzialità con un fatalismo che è umiliante e per interrompere la cultura del lamento e tornare ad essere assertive e positive.

A partire da questa prospettiva sarebbe importante cominciare a chiedersi come una società possa permettersi il lusso di non valorizzare al meglio le risorse femminili. O si tratta di una società incomparabilmente ricca o di una società oltremodo miope e improvvida. Va da sé che la seconda risposta pare la più realistica. La nostra è una società miope che investe un enorme capitale economico e sociale per formare donne e uomini, farne adulti autonomi e cittadini responsabili per poi costringere una larga parte di loro – appunto le donne – in ruoli e funzioni per coprire i quali molto spesso la loro formazione è inutile o eccessiva. Si tratta di una perdita sia per le donne che per gli uomini; per le donne soprattutto, perché hanno contribuito, direttamente e indirettamente, alla loro formazione e si vedono spesso costrette a dover deprimere le loro aspettative.

Eppure i dati ci dicono che le donne propongono un messaggio positivo: per esempio, sono quelle che escono prima dalla famiglia d’origine (almeno tre anni in media prima dei coetanei maschi) e che finiscono le scuole con voti più alti. Le donne amano e vogliono conquistare prima possibile l’indipendenza economica e anche per questo, a parità di titolo di studio e di esiti scolastici, sono disposte ad accettare lavori meno qualificati e meno pagati, con contratti più brevi, discriminate ancora prima di diventare madri, la condizione per loro più penalizzante.

Ricerche recenti mostrano come ci sia una perdita effettiva a non valorizzare i talenti femminili, come la parità di genere fra gli occupati potrebbe favorire incrementi del Pil del 13% nell’Eurozona e del 22% in Italia. Ci mostrano anche che laddove si sono fatte giuste politiche pubbliche si è anche verificata un’ampia accettazione culturale delle pari opportunità d’impiego della manodopera femminile. Le buone politiche aiutano la formazione di buoni costumi, sono un volano di cittadinanza democratica. Da noi il cammino sembra essere ancora lungo e difficile. Le donne hanno più difficoltà a conservare nel tempo il lavoro o una posizione professionale conquistata con fatica e sacrifici e la famiglia è ancora un fattore penalizzante. Ma non è il solo. Un altro fattore penalizzante viene dagli ostacoli enormi, culturali ed etici, che esistono a trasformare il posto di lavoro in un luogo dove i talenti degli individui, uomini e donne, siano valorizzati. E’ anche per invertire questa tendenza che c’è bisogno di veder proporre modelli positivi.
La Repubblica 08.03.10

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“Donne anno zero dai ’70 al sexgate piste di una mutazione”, di Ida Dominijanni
“La rappresentazione commercial-televisiva del gentil sesso nell’era berlusconiana coincide davvero con la realtà delle donne?”
«La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli». «Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza». «La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa». «Per uguaglianza delle donne si intende il suo diritto a partecipare alla gestione del potere nella società mediante il riconoscimento che essa possiede capacità uguali a quelle dell’uomo. Ma…ci siamo accorte che sul piano della gestione del potere non occorrono delle capacità, ma una particolare forma di alienazione. Il porsi della donna non implica una partecipazione al potere maschile, ma una messa in questione del concetto di potere. E’ per sventare questo possibile attentato della donna che oggi ci viene riconosciuto l’inserimento a titolo di uguaglianza». Sono solo alcune citazioni delle molte possibili dal Manifesto di Rivolta Femminile e da Sputiamo su Hegell, il testo forse più famoso di Carla Lonzi, entrambi datati 1970, ed entrambi al centro, con tutto il resto della sua opera, del partecipatissimo convegno della Casa internazionale delle donne di Roma che in questi giorni (cfr. Maria Luisa Boccia sul manifesto di giovedì scorso) ne ha ripercorso la figura di militante e teorica femminista nonché critica d’arte. Non una commemorazione né una monumentalizzazione, ma una riattualizzazione della radicalità della figura di Lonzi e della radicalità da lei impressa al femminismo italiano degli anni Settanta e seguenti, sul piano del pensiero e della pratica, nel modo di concepire la politica e la libertà femminile, la trasformazione di sé e del mondo, la relazione con le altre e il conflitto con l’altro. Una riattualizzazione tanto più tempistica dopo un anno come questo e in un momento come questo, in cui il discorso sulle donne sembra sequestrato dall’immaginario berlusconiano (e non solo berlusconiano) al potere, e il discorso delle donne rischia una risposta speculare e subalterna.

Quale? Quella, già in voga sui media nei mesi scorsi, che scambia la fiction berlusconiana per la realtà («siamo un paese di veline»), vede passività dove c’è stata reattività (la reiterata denuncia del «silenzio delle donne», che copre e svalorizza la parola delle donne che hanno denudato il re), prescrive ricette del tutto inadatte alla malattia (quote rosa quando è chiaro l’uso che ne fa Berlusconi e non solo lui, parità e diritti quando è chiaro che il conflitto è sulla sessualità e sull’immaginario). Non ne è esente il quadro desolato e desolante delle donne italiane che Caterina Soffici traccia nel suo Ma le donne no, sottotitolo (buono per le vendite in libreria) «Come si vive nel paese più maschilista d’Europa» (Feltrinelli, 210 pagine, 14 Euro, prefazione di Nadia Urbinati), un’inchiesta peraltro ricca di storie e testimonianze femminili interessanti che si presterebbero a un’interpretazione più complessa di quella che l’autrice ne trae: in sostanza, una generalizzata regressione, una generalizzata sottomissione a canoni etico-estetici imposti e lesivi della dignità femminile, una generalizzata incapacità di lottare e di avvalersi dei diritti. E’ davvero così? La rappresentazione commercial-televisiva del gentil sesso nell’era berlusconiana coincide davvero con la realtà delle donne? L’eccellenza femminile di cui parlano tutti i dati sulla scolarizzazione e sul mondo del lavoro è davvero annullata dalle discriminazioni salariali e dal carico del lavoro familiare non condiviso con i mariti? Davvero dopo gli anni 70 ci siamo tutte «ritirate ordinatamente e in silenzio», ciascuna per sé e il mercato o l’uomo potente per tutte? E qual è la memoria – o meglio l’immaginario, o il fantasma – degli anni 70 che sostiene questa catena interpretativa?

Scrive Soffici che la sua inchiesta parte da un disagio: «Eravamo cresciute in una bolla felice, nella certezza di essere libere, di poter vivere la vita che volevamo. Ma era solo un’illusione. Non era vero. Il cammino verso la parità dei diritti iniziato negli anni 70 si era interrotto». Una osservazione analoga si ritrova in un altro libro-inchiesta appena uscito, Pensare l’impossibile di Anais Ginori (Fandango, 160 pagine, 14 Euro, prefazione di Concita De Gregorio, vignette di Pat CArra), che però esplicita nel sottotitolo, «Donne che non si arrendono», un’intenzione di segno contrario, ed è esplicitamente attraversato in più d’una pagina dalla domanda su quale sia, se c’è, il rapporto fra la generazione del femminismo storico e quella delle trentenni di oggi, scosse dal torpore dai noti fatti di quest’ultimo anno che Ginori definisce «l’Anno Zero delle donne italiane». Anche lei scrive: «Le ragazze che ho incontrato per scrivere questo libro non sono tutte veline. Molte però provano un senso di disillusione. Sono cresciute pensando che i diritti erano tutti già conquistati, che la parità fosse un dato acquisito. Hanno scoperto che non è così». Viene da rispondere che se è così non tutti i mali, il sexgate berlusconiano compreso, vengono per nuocere.

Ma forse è più chiaro a questo punto il senso delle citazioni di Carla Lonzi all’inizio di questo articolo: servono a ricordare due cose. Primo, che non siamo all’Anno Zero. Secondo, che il femminismo degli anni 70 ha messo al mondo una pratica di libertà che non si fida della parità e non si affida ai diritti, che si conquista e si riconquista ogni giorno e in ogni contesto di vita pubblica e personale, e che non si cristallizza in leggi e garanzie. Ricordarlo non serve, spero che sia chiaro, a prescriverla ad altre donne e a un altro tempo, cui magari si addicono tutt’altre pratiche. Serve però a smontare la riduzione – tutta costruita dalla vulgata mediatica di trent’anni – del femminismo come lotta lineare e progressiva per la parità e i diritti. E a ricordare che, come si evince da questi stessi due libri, «l’illusione» dei diritti può avere una conseguenza spoliticizzante per chi ci si affida come a delle garanzie che rendono superflue le battaglie di libertà.

Pensare l’impossibile ha comunque il merito di rendere evidente un’agenda di questioni su cui «lo scontento delle più giovani» preme con maggiore urgenza. Si apre, intanto, con una inchiesta sulla tratta delle nigeriane: meritoria, perché quello del mercato internazionale del sesso, conseguenza tutt’altro che secondaria della globalizzazione, è uno dei tasselli che mancano alla chiacchiera infinita sul sexgate di casa nostra e sull’immaginario sessuale dei tempi nostri. E prosegue indagando sull’uso del corpo femminile nell’industria della pubblicità e della televisione, rendendo evidenti due stacchi cruciali rispetto agli anni 70: lo spostamento del fuoco dal corpo all’immagine del corpo, e lo spostamento della cornice dalla politica al mercato. Che cosa diventa o può diventare, la politica della libertà femminile, quando non si tratta del corpo ma dell’immagine, e si combatte non dentro e contro un contesto segnato dalla politica diffusa com’era nei 70, ma dentro e contro la dittatura del mercato, e quando la politica diventa mero esercizio del potere?

Sono domande che varrebbe la pena di approfondire. Alain Touraine, nel libro che senza ombra di dubbio si può considerare l’unico testo maschile che abbia afferrato e registrato la qualità specifica della rivoluzione femminile novecentesca e il «cambiamento di prospettiva» sul mutamento sociale da essa indotto (Il mondo è delle donne, il Saggiatore, già recensito su queste pagine), aiuta a darsi alcune risposte. Interrogandosi sui cambiamenti generazionali nella storia delle donne degli ultimi decenni, Touraine registra uno degli spostamenti che questi libri segnalano, dalla capacità di lotta della generazione dei 70 all’idea oggi predominante «che le donne siano completamente dominante e manipolate, private di parole e di immagini proprie, e si trovino così ridotte a mera creazione del potere maschile», soprattutto il potere dei professionisti della comunicazione e della pubblicità. Una «immagine caricaturale», scrive Touraine, che rischia di diventare un’ideologia al servizio dello stesso potere maschile; per smontarla, aggiunge, è bene «cercare le attrici dietro le vittime», ovvero, con un gioco di parole, non cadere vittime della (auto)vittimizzazione e aprire gli occhi sulle strategie attive di vita, resistenza, creatività, costruzione di sé e trasformazione del mondo che sono maggioritarie nelle vite femminili di oggi successive alla «grande rivoluzione» dei 70.

Occorre anche capire, scrive Touraine, che la sessualità è diventata, nelle società contemporanee, il terreno su cui per le donne si gioca una aspra battaglia sul confine fra costruzione consapevole di sé e mercificazione. La mappatura di questa battaglia comporta strumenti fini, che non possono esaurirsi nella denuncia estemporanea della galleria degli orrori che ci è passata davanti nell’ultimo anno. Sandra Puccini, nel suo prezioso Nude e crudi. Femminile e maschile nell’Italia di oggi (Donzelli, 200 pagine, 18 Euro), si mette e ci mette sulle tracce di un cambiamento dell’antropologia italiana che ruota attorno al cambiamento dei ruoli sessuali, che oggi esplode ma che è cominciato nei primi anni 80 (con Drive In), e lo storicizza proprio in rapporto alla rivoluzione femminista dei 70: «Contro le femministe sembravano prendere corpo immagini femminili costruite pescando nelle più arcaiche fantasie maschili: con l’antica scissione fra le donne tentatrici e peccaminose dell’immaginario erotico e le altre, quelle da sposare e con cui mettere su famiglia». Da allora a oggi non ci sono state solo la tv spazzatura e la pubblicità a fare la loro parte, ma un fascio di linguaggi che vanno dalla letteratura alla fiction alla fotografia sui settimanali di moda. E non hanno operato univocamente a svilire il corpo femminile, ma più sottilmente a costruire una «tirannia della bellezza» basata su messaggi ambivalenti e su una «molteplicità di rappresentazioni» che dava anche risposte, per quanto illusorie, a un desiderio di libertà e di autonomia, o dava corpo – anoressico – ai nuovi sintomi del disagio, il narcisismo in primo luogo, di quella che altri chiamano «società del godimento»: una società in cui erotismo, sessualità, pornografia tendono a sovrapporsi, e «fare sesso» si sostituisce a «fare l’amore». Crucialmente, scrive Puccini, non si è trattato solo di una manipolazione del femminile, bensì di una riscrittura del femminile e del maschile, dominata per un verso dalla tendenza alla confusività e all’omologazione androgina, per l’altro da un ripristino di maschere sessuali tradizionali – uomini violenti, donne docili – utili a placare l’ansia dovuta alla sparizione reali dei ruoli tradizionali. Una ottima pista, che ha tra l’altro il merito di porci di fronte alla cruciale domanda: e degli uomini, che ne è stato nel frattempo?
Il Manifesto 07.03.10

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“Lavoro, due sessi e due misure. Divario di genere”, di Roberta Lisi
Negli ultimi 20 anni i differenziali salariali tra uomini e donne non sono cambiati. Non solo le donne guadagnano meno ma anche la cig è inferiore. Ma perché le donne guadagnano meno? E perché, in Italia, partecipano così poco al mercato del lavoro?
Era il 1993 quando la Commissione Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio affidò al Cespe – Centro studi di politica economica – una ricerca su “Differenziale salariale tra uomini e donne e progressione di carriera”. Il risultato fu chiaro e netto: le lavoratrici guadagnavano mediamente il 30 per cento in meno dei colleghi maschi. Oggi, a 17 anni di distanza, le cose non sembrano affatto cambiate, anzi. A fronte di una apparente parità data quasi per scontata e naturale dalle stesse donne, in realtà l’organizzazione e il mercato del lavoro sembrano in gran parte essere impermeabili alle peculiarità femminili. E, dopo quasi due anni dall’inizio della crisi finanziaria ed economica, sono proprio loro a pagare il costo più alto: non solo continuano a guadagnare meno dei lavoratori, ma anche l’assegno di cassa integrazione è inferiore, e non basta. In realtà in Italia siamo di fronte al tentativo di una vera e propria espulsione delle donne dal mondo del lavoro. Molte sono le cause che concorrono a questo, non ultima un’idea di società che il governo di centro destra afferma attraverso modelli culturali che propone, leggi che approva, disegni che delinea, a cominciare dal “Libro Bianco” sul welfare del Ministro Sacconi. Ma andiamo con ordine.

Lo scorso marzo l’Ires Cgil ha pubblicato il IV Rapporto su “Salari, produttività e distribuzione del reddito”. Il quadro che emerge è davvero allarmante non solo per le condizioni materiali dei lavoratori e delle lavoratrici, ma per le stesse basi democratiche del nostro paese. Secondo i dati elaborati dall’Istituto di ricerca della Cgil, infatti, l’Italia è una repubblica fondata sulle disuguaglianze: dal 1995 al 2006 i profitti netti sono cresciuti di circa il 75 per cento, mentre le retribuzioni sono aumentate solo del 5,5 per cento. Se guardiamo i numeri le donne sono quelle messe peggio. Sono circa 13,6 milioni i lavoratori che guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese; 6,9 milioni di occupati ne percepiscono meno di 1.000 e di questi oltre il 60 per cento sono donne! Se si osservano i dati della retribuzione mensile dei dipendenti a tempo determinato del II trimestre del 2009, si scopre che anche tra i precari esiste chi strutturalmente guadagna meno, e pure in questo caso le precarie: sono più dei loro colleghi nelle fasce salariali fino a 500 e tra i 500 e i 1000 euro mensili, sono meno nelle fasce superiori

Questa disuguaglianza salariale, ovviamente, si ripercuote e ha conseguenze drammatiche in un’epoca di crisi come quella che stiamo vivendo. Un lavoratore in cassa integrazione “a zero ore” vede il suo stipendio passare dai 1.320 euro netti in busta paga ad appena 762; una lavoratrice in cig sempre “a zero ore”, con uno stipendio mensile di 1.100, ne riceve 634 netti.

Ma perché le donne guadagnano meno dei loro colleghi? E perché, in Italia, continuano a partecipare così poco al mercato del lavoro? E ancora, perché a 18 mesi dall’inizio della crisi sono loro, in prevalenza, ad aver smesso di cercare un impiego?

Due uomini, Marco Centra e Andrea Cutillo, hanno curato per l’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) un rapporto su “Differenziale salariale di genere e lavori tipicamente femminili”, ricco di dati e di analisi della letteratura in materia. Le conclusioni sono crude e semplici: i lavori a elevata concentrazione di occupazione femminile vengono pagati meno di quelli di pari grado ma ad elevata concentrazione maschile. E in qualche modo sono proprio le donne “causa” del proprio male.

Scelgono l’occupazione non innanzitutto in base allo stipendio ma privilegiano nella scelta (quando si ha la fortuna di poter scegliere), le proprie peculiarità, la flessibilità dell’orario, la compatibilità con il lavoro di cura che sono o saranno chiamate a compiere. Ma, in un’epoca nella quale sembra aver valore solo ciò che costa, questa appare come colpa grave. E poi il modello patriarcale che ancora ci pervade considera aggiuntivo e non primario il reddito femminile.

Ma lasciamo a Centra e Cutillo una riflessione che ci porta a ulteriori considerazioni: “Un aspettoche merita approfondimenti futuri – scrivono i due ricercatori – riguarda il fatto che le donne presenti sul mercato del lavoro risultano avere una produttività mediamente maggiore rispetto agli uomini, ma vengono comunque retribuite meno degli uomini. Questo dovrebbe portare i datori di lavoro a preferire l’assunzione di personale femminile. In realtà il tasso di disoccupazione femminile è storicamente più elevato rispetto a quello maschile. Questo indica l’esistenza di un’ulteriore discriminazione che opera nei confronti delle donne anche al momento dell’assunzione, verosimilmente dovuta a una valutazione che i datori di lavoro fanno sul rischio che le donne possano dedicarsi in maniera meno esclusiva al lavoro svolto rispetto agli uomini, probabilmente a causa degli impegni derivanti dalla gestione della casa e dalla cura dei figli”.

Sembra paradossale che, nel 2010 in Italia, a fronte di una scolarità femminile altissima e qualificata, a fronte di una “capacità produttiva elevata”, le donne siano ancora vittime di questa doppia discriminazione. In realtà viviamo in un paese nel quale impera la retorica della famiglia ma la fatica del lavoro di cura viene scaricata quasi integralmente sulle donne. Il libro Bianco di Sacconi disegna uno stato sociale sempre più residuale è affidato o al privato o alla famiglia cioè, appunto, alle donne. E anche il tanto sbandierato quoziente familiare per la determinazione del reddito da sottoporre a tassazione in realtà non è altro che un’istigazione alla non occupazione femminile o al lavoro nero delle donne.

Spiega Mara Nardini della Segreteria nazionale dello Spi Cgil: “Per le donne il quoziente familiare è un danno gravissimo, ed è un danno gravissimo anche per le famiglie a reddito basso o medio. Vanno rilevati due aspetti: uno che prevede un forte trasferimento di risorse a favore delle famiglie con redditi molto alti, l’altro che dà un premio alle famiglie dove la donna non lavora o ha un reddito molto basso. È quindi un meccanismo che scoraggia oggettivamente il lavoro delle donne. Questo in un paese come l’Italia, dove il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi dei paesi industrializzati, è un vero e proprio controsenso. Siamo lontanissimi dagli obiettivi di Lisbona che prevedono il 60 per cento di tasso di attività femminile”. “Scoraggiare il lavoro delle donne – conclude Nardini – significa danneggiare l’economia e danneggiare l’intera società”.
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“L’8 marzo e la violenza senza colpe”, di NAVI PILLAY*
Una ragazza che ha amici uomini. Cosa potrebbe esserci di più normale? Eppure un’adolescente turca, per essersi comportata così, è stata sepolta viva dal padre e dal nonno. Questa notizia ha destato choc e sdegno in tutto il mondo. Crimini come questo, tuttavia, non costituiscono affatto l’eccezione. Infatti, un tribunale in Arizona sta in questi giorni affrontando il caso di un uomo accusato di aver investito e ucciso la propria figlia, a suo dire troppo «occidentalizzata». L’Onu stima che ogni anno 5 mila donne in tutto il mondo vengono uccise da membri della propria famiglia, nei cosiddetti omicidi d’onore.

Quando le donne sono viste come portatrici dell’onore di famiglia esse diventano vulnerabili alle aggressioni.

Le quali implicano violenza fisica, mutilazione e anche omicidio, di solito per mano di un congiunto offeso, e spesso con il tacito o esplicito assenso delle altre donne della famiglia.

Le «aggressioni d’onore» sono perpetrate come rituale di «riparazione e purificazione» a seguito di una violazione delle norme imposte dalla famiglia o dalla comunità, in particolare quando è coinvolta la condotta sessuale. Ma le cause scatenanti potrebbero anche essere il desiderio di una donna di sposare o vivere con una persona di sua scelta, di divorziare, o di reclamare un’eredità. A volte, chi si autoproclama «vendicatore» è pronto ad agire anche sulla base di puri pettegolezzi o sospetti inconsistenti. La percezione della colpa è anche più importante della sua reale sussistenza. Le donne sono condannate a sentenze violente senza avere il beneficio di raccontare la loro versione dei fatti e senza alcuna possibilità di appello.

Questa logica perversa e la violenza che essa scatena vengono applicate anche quando le donne sono state oggetto dell’attenzione indesiderata di un uomo o vittime di uno stupro, compresa la violenza incestuosa. Di conseguenza, esse sono vittime due volte, mentre l’atteggiamento degli aggressori viene perdonato. Spesso gli autori delle violenze possono contare sulla piena o parziale assoluzione per via di leggi indulgenti o applicate in maniera non uniforme.

A volte, gli aggressori possono anche finire per godere dell’ammirazione della loro comunità per aver fermato il comportamento deviante di una donna disobbediente e averne lavato la colpa nel sangue.

Le «aggressioni d’onore» violente sono però crimini che violano il diritto alla vita, alla libertà, all’integrità del corpo, il divieto di tortura o di trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il divieto di schiavitù, la libertà dalla discriminazione di genere e dall’abuso o sfruttamento sessuale, il diritto alla privacy, il diniego delle leggi discriminatorie e di pratiche dannose per la salute delle donne.

È semplicistico e fuorviante pensare che queste pratiche appartengano soltanto a culture retrograde che disdegnano una condotta civilizzata. La realtà è che in tutti i Paesi del mondo le donne subiscono violenze nella sfera familiare nella quale esse dovrebbero aspettarsi sicurezza anziché attacchi. Le aggressioni d’onore sono intrise della stessa attitudine e nascono dallo stesso atteggiamento mentale che produce la violenza domestica. Queste aggressioni derivano dal desiderio di controllare le donne e di soffocarne voce e aspirazioni.

Le donne sono intrappolate tra le mura domestiche dall’isolamento e dall’impotenza che la violenza costruisce attorno a loro. Ne deriva che molte aggressioni perpetrate contro le donne nella sfera domestica rimangono avvolte nel silenzio e nella vergogna piuttosto che essere denunciate per ciò che sono, vale a dire, orribili abusi dei diritti umani.

Sebbene la capacità delle donne di mantenersi da sole economicamente possa offrire vie di uscita dalle costrizioni della società, dall’abuso domestico e dalla sottomissione, la violenza contro le donne è andata aumentando perfino nei Paesi dove le donne hanno raggiunto l’indipendenza economica ed uno status sociale alto. Ciò obbliga alcune donne imprenditrici di successo, così come rispettabili parlamentari, brillanti studiose e professioniste, a condurre una doppia vita. In pubblico sono considerate come modelli di riferimento tra i più alti ranghi della società. In privato, sono umiliate e aggredite.

Di solito alla violenza domestica si risponde offrendo alle donne un riparo sicuro, togliendole così dal contesto in cui vivono. Al contrario, i responsabili sono raramente costretti ad andarsene o a fuggire dalle proprie case o dal proprio ambiente sociale per la vergogna e la paura.

Tale approccio deve essere capovolto. Lo Stato ha una chiara responsabilità nella protezione delle donne, e nel punire gli aggressori e far loro carico del costo e delle conseguenze della loro ipocrisia e brutalità. Questo deve essere fatto, senza tener conto dello status sociale dei colpevoli, della loro motivazione e della loro relazione con la vittima.

Al tempo stesso, uomini e donne, ragazzi e ragazze, devono essere educati sui diritti umani delle donne ed edotti circa la responsabilità che tutti hanno di rispettare i diritti altrui. Ciò dovrebbe includere il riconoscimento del diritto delle donne di gestire il proprio corpo e la propria sessualità, nonché l’eguaglianza di accesso all’eredità, alla proprietà, alla sicurezza sociale e abitativa.

Le donne stanno combattendo per assicurarsi che tale cambio di atteggiamento avvenga e che si consolidi. Esse sfidano sempre più di frequente i propri aggressori per avere la possibilità in tribunale di spiegare il valore della loro azione. Le donne sempre più pretendono che anche i loro tormentatori affrontino le conseguenze della violenza. Noi dobbiamo sostenere queste donne coraggiose. Dobbiamo aiutare le altre a farsi avanti e a rompere il silenzio e gli schemi della connivenza sociale che hanno permesso alla cultura della violenza di attecchire.

*Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani
La Stampa 08.03.10

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