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"Arroganza al potere", intervista a Valerio Onida di Gigi Riva

Il Tar, la Commissione elettorale, il Consiglio di Stato. Il ricorso per riammettere la lista. Il ricorso contro il ricorso per riammettere la lista. Una piazza di qua, una piazza di là. Pannella per rinviare le elezioni, Bersani contrario. Il Cavaliere inferocito, Di Pietro che grida al golpe. Benvenuti a Caoslandia, cioè l’Italia del 2010. Dove va in onda l’ormai abituale scontro tra chi vorrebbe rispettare le regole e chi delle regole dice “me ne frego”. Tutto nato dal pasticcio delle liste Pdl non presentate in tempo utile. E dal rimedio peggiore del buco del decreto “interpretativo” varato dal governo e firmato da Napolitano. Che viola la Costituzione perché, dice Valerio Onida, 73 anni, presidente emerito della Consulta «impone di applicare la legge in modo diverso da come dovrebbe essere applicata». Quando l’articolo 101 della nostra Carta fondamentale recita: «La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Con il decreto il potere giudiziario non è più «soggetto soltanto alla legge» ma anche alla volontà del potere esecutivo e di quello legislativo che vorrebbero imporre non una norma per il futuro, ma una “interpretazione” (in realtà una norma diversa da quella vigente) per il passato. Conflitto c’è anche con l’articolo 3 sull’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E ha più di un fondamento la posizione della giunta regionale del Lazio che ritiene spetti alla Regione interpretare la propria legge elettorale. Per orientarsi, bisogna ripartire dall’origine del marasma, da quel decreto in cui Onida vede «l’arroganza» della maggioranza. E la conferma che «il Paese è sfasciato dal punto di vista delle regole».

Professor Onida, se il decreto è la via sbagliata, quale sarebbe stata quella giusta?
«Premessa: l’elettorato si esprime sempre, si esprimerebbe comunque, anche con l’esclusione di una lista. Ma per rimediare a un’incompletezza nata dalla mancata presentazione di una lista l’unico rimedio accettabile sarebbe quello di rinviare le elezioni. Mi riferisco al Lazio. Perché, i casi di Lombardia e Lazio sono diversi».

Spieghiamo le diversità.
«In Lombardia tutto era risolvibile con una corretta applicazione della legislazione vigente. Cosa che peraltro è successa se il Tar ha accolto il ricorso dei sostenitori di Formigoni senza bisogno di citare il decreto del governo. Ma un conto è se manca un timbro, un luogo, una qualifica, o se l’esclusione della lista è avvenuta irritualmente. Altro conto è dire che c’è stata presentazione di una lista quando non c’è stata. E siamo al Lazio».

Lì si dovrebbe rimandare il voto?
«Esatto: si tratta semmai di riaprire i termini. Cosa che non è né normale né fisiologica, ma consentirebbe di rispettare le regole in vigore senza lo strappo dell’intervento del governo. Un conto è sostenere che una lista è stata presentata quando non è vero. Un altro è prendere atto che si sarebbe andati ad una competizione incompleta e, sulla base di un larghissimo accordo, rimettere tutti in gioco».

Invece si è ricorsi al decreto “interpretativo”.
«Che, per una parte, non è interpretativo affatto. È una norma sedicente interpretativa, perché riapre i termini in una situazione concreta».

Un abuso, sostiene la giunta del Lazio, anche perché prevarica la competenza della Regione.
«Non so come sia stato argomentato il ricorso del Lazio. So però che c’è una decisione della Corte costituzionale del 2006 (numero 232) in base alla quale si dovrebbe concludere che la competenza a legiferare in materia di elezioni regionali e anche a dare l’interpretazione autentica delle norme vigenti spetta alle Regioni».

Un giudice potrebbe invalidare le elezioni se ritenesse fondate le ragioni della giunta laziale?
«Sì, potrebbe capitare. Se quel decreto legge fosse ritenuto illegittimo verrebbe meno la base normativa per la quale (in ipotesi) sarebbe ammessa la lista Pdl in provincia di Roma e si dovrebbero rifare le elezioni. È già capitato in altre occasioni. Come in Molise».
Mai prima d’ora era però intervenuto il governo.
«Mai. Lo ha fatto stavolta per una presunta “interpretazione autentica” della legge che equivale a una riapertura dei termini solo per la lista Pdl di Roma. È uscito un decreto che vale per tutta l’Italia ma che si applica solo al caso Roma perché su di esso è modellato».

Un pericoloso precedente. L’esecutivo cambia in corsa, e a suo vantaggio, le leggi. Tanto che si grida al golpe antidemocratico.
«Bisogna conservare il senso delle proporzioni. Se fosse stato negato, ad esempio un diritto fondamentale alle minoranze, allora sì che sarebbe grave. Qui c’è stato uno strappo ma nella sostanza la competizione elettorale non è alterata».

Si dice sempre che in diritto la forma è sostanza.
«Dipende. Ci sono forme essenziali, come quando, per una compravendita ad esempio, è previsto un atto scritto. Altre volte, per formalità non essenziali, vale il buonsenso nell’applicare le norme in vigore, come è successo adesso nel caso della Lombardia. Ripeto: clamoroso è il caso del Lazio perché il mancato rispetto del termine non poteva essere sanato. Qui abbiamo avuto una maggioranza arrogante che ha usato l’arma “atomica” del decreto legge per recuperare la situazione indifendibile di Roma».

C’è chi critica il presidente Napolitano per aver firmato il decreto. Di Pietro per primo. Il quale ha anche evocato il golpe.
«Il presidente emana il decreto legge la cui responsabilità è del governo. La volontà non è la sua. Non è chiamato a condividere la decisione».

Si ritiene potesse esercitare la sua “moral suasion”.
«Ma l’ha sicuramente esercitata. Ha discusso a lungo. Poi non ha ritenuto di opporre un veto assoluto. La caratteristica di urgenza del decreto è indiscutibile. Avrebbe potuto opporre un veto assoluto solo per motivi eccezionali, se avesse valutato che si producessero effetti gravi e irreparabili. L’opinione pubblica pensa che il presidente possa fare quello che vuole. Ma non ha potere di codecisione sugli atti del governo».

Poteva invocare l’incostituzionalità del decreto.
«Ma anche in questo caso un veto “assoluto” potrebbe ammettersi solo in casi estremi. Qui Napolitano ha valutato che non fosse opportuno opporsi ancora. Io credo che la norma sia incostituzionale: ma vi sono nell’ordinamento altre garanzie, quella del Parlamento chiamato a convertire il decreto e quella della Corte costituzionale. Possono essere sollevate questioni di costituzionalità in ogni giudizio relativo, su istanza di parte o anche d’ufficio. Del resto risulta che ci sia già una questione di incostituzionalità sollevata in via diretta dalla Regione Lazio. E lo stesso Tar Lazio, respingendo l’istanza cautelare del Pdl, sembra aver preso le mosse proprio dalla ritenuta incostituzionalità del decreto».

Il decreto apre una breccia. Anche in futuro, il governo potrebbe varare decreti che sanino situazioni che non gli piacciono. E si evoca il regime.
«Ogni violazione della Costituzione è un vulnus e crea precedenti pericolosi. Però in questo caso l’effetto pratico non sarà drammatico. Ci saranno le elezioni, i cittadini voteranno. Quanto al regime, manteniamo il sangue freddo. Se ci fosse stato un decreto che escludesse qualcuno dalle elezioni sì che sarebbe stato un golpe».

Ha colpito la superficialità con cui il partito più forte del Paese ha affrontato la questione della presentazione delle liste. Come se potesse permettersi tutto, anche arrivare in ritardo.
«L’impressione è che ci sia stata faciloneria e pressapochismo».

Forse sarebbe stato diverso se avessero chiesto scusa. E cercato una soluzione condivisa con le opposizioni.
«Se li immagina mentre chiedono scusa? Sarebbe stata una tattica meno arrogante. Che però mi sembra abbia poca cittadinanza da noi. Per come è fatta la politica italiana, non è previsto nemmeno il galateo».

Ora si andrà avanti a ricorsi e controricorsi. Un ping-pong tra partiti e aule di giustizia.
«In questa intricata storia, fra candidati presidenti che chiedono di essere eletti per la terza o quarta volta, partiti rissosi e incapaci perfino di darsi un’organizzazione efficiente, accuse e contro-accuse, ricorsi e contro-ricorsi, procedure collaudate da anni che sembrano andare in crisi, sembra che anche la vicenda più democraticamente fisiologica, come è una consultazione elettorale, finisca per rivelare una crisi convulsiva del nostro sistema politico. Il governo, col suo intervento a gamba tesa, ha dato un suo robusto contributo alla confusione e all’immagine di arroganza del potere che tante realtà di oggi ci trasmettono. A questo punto, sarebbe forse meglio ripartire da zero, magari con un rinvio delle elezioni nelle Regioni dove la confusione si è prodotta. Oppure andare tranquillamente al voto, nelle condizioni date, sperando che gli elettori diano segnali di maturità e non di disimpegno, e magari premino, fra partiti e candidati, non coloro che mostrano più muscoli o voglia di gridare, ma coloro che dimostrano equilibrio e sincero rispetto delle istituzioni repubblicane. Maggiore “patriottismo costituzionale”».
L’Espresso 12.03.10