attualità, politica italiana

"Popolo senz’anima Unito solo dal culto del capo", di Beppe Sebaste

È il Giornale di Feltri sottobraccio il mio passepartout, con la gigantografia di Berlusconi e una grafica anni Sessanta che chiama “tutti in piazza” a caratteri cubitali. E li vedo, i frammenti di questo popolo che si mette in piazza, che mi piove incontro a grappoli scendendo verso San Giovanni la via Appia Nuova, mentre io vado incontro al corteo. Guardo l’umanità di questo popolo che non riesce ad essere comunità, frammentato e un po’ alla deriva, pur unito dalle parole d’ordine. Non è disagio che provo. Ho sentito, per questa umanità sparpagliata avvolta nelle bandiere di «Berlusconi Presidente», annodate dietro come immensi bavaglini, per questo popolo degli ipermercati e delle tv commerciali, facce non belle, non solcate da pensieri o da dubbi, un’immensa tristezza. Uomini che scherzano come italiani in gita, donne dal volto imbronciato, anziani sperduti con la bandiera in mano avvolta nell’asta.

Prima, a San Giovanni, ho visto i primi indolenti corpi seduti alla bell’e meglio di fronte al megapalco, l’aria di chi aspetta che inizi lo spettacolo. E, prima ancora, al punto di partenza dell’altro corteo di fronte alle Terme di Caracalla, un nugolo di blazer blu, in forte contrasto con altri dall’aspetto dimesso di disoccupati che si affrettavano con le bandiere bianche e azzurre nei pressi del Colosseo. Ho chiesto, per interloquire, a due signori di mezz’età: la via Appia è quella dietro gli archi? «Sì, ma perché ci va?». «Vado incontro al corteo». «Beh, giusto, ha ragione». E come per giustificarsi: «Noi siamo venuti per una scorciatoia». «A noi ci frega la panza», aggiunge l’altro. E giù a ridere entrambi. Siamo complici, anche se io ho fatto la figura di bravo militante. Ho risalito quindi l’Appia sotto un cielo livido, da cui scendevano gruppetti, famiglie, comitive col nome della città sul cartello, transfughi dal corteo.

Mi fermo nel giardino di Piazza Re di Roma. Un gruppo con lo striscione del Popolo della Libertà su cui campeggia la parola Padova è in posa per farsi delle foto. Alcuni, mentre bevono, giocano a spruzzarsi con la fontanella. Tutti di Padova?, chiedo. Sì, risponde uno con orgoglio. Finita lì. Mi siedo su una panchina dove c’è una coppia dall’aria stanca, la bandiera ripiegata in mano. Chiedo alla donna vicino a me di dove siano. Sardi, risponde. Ma il viaggio ve l’hanno pagato? «Io abito a Roma, dice lei, ma agli altri e ai miei parenti sì, certo».

Lo stesso mi diranno dalla Puglia o dal Piemonte. Il corteo finalmente arriva, preceduto da altri filamenti regionali del popolo della libertà. Ma chi è questo popolo, perché lo conosco e al tempo stesso non lo riconosco? Cerco nei volti dei miei vicini di casa, di treno, di autobus, di spiaggia. Ma è proprio l’Italia di questi ultimi vent’anni, e mi è molto difficile dire la verità di quello che vedo e sento: tranne ricordarmi l’infelice dichiarazione di un esponente del Pd, quando disse che occorreva perdere la vocazione pedagogica del Pci, e «andare incontro alle aspettative della gente». Quali aspettative? Non c’è ideologia, non c’è nessuna idea, solo il riconoscersi nel Capo. Finché, nel corteo, tra il drappello dei giovani neofascisti, Giovane Italia e altre sigle, leggo questo cartello: «Nati con Berlusconi /cresciuti liberi».

È vero: un popolo neonato, senza memoria, non parlano nemmeno tra di loro, è il popolo dei parcheggi asfaltati, degli ipermercati la domenica invece di andare al mare, il popolo di quei reality televisivi in cui uomini e donne facevano finta di litigare per il pubblico, mettendosi in piazza, letteralmente. Sono gli uomini dei nuovi Bar Sport e dello stadio, sono «la gente». Il popolo nella sua forma più vera e cruda, che può riversarsi ovunque, anche negli spettacoli dei gladiatori al Colosseo. Il popolo di questa nuova iperreale e innocua marcia su Roma (anche se mi viene imperiosamente voglia di rileggere la descrizione di Emilio Lussu di quella del 1922).

Un popolo che si riversa a San Giovanni silenzioso, tranne l’unico sprazzo di voce dei giovani fascisti, slogan contro Di Pietro e i magistrati («Tonino spia / servo della Cia»; o anche, ripetuta a canzoncina, «mettila in culo / la sentenza»); oppure, il più brillante, «Bonino vattene via». Sul palco, tra i primi politici, ci attende musica altissima tra la discoteca e Broadway. Mi allontano con le note festose e congelate di I love you tender. Lo spettacolo del Capo sta per cominciare.
L’Unità 21.03.10