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«Obbligo di istruzione nell'apprendistato. 126 mila ragioni per essere contrari», di Fabrizio Dacrema e Anna Teselli

La nuova legge in materia di lavoro, nota per l’introduzione di norme sull’arbitrato che aggirano l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, rende anche possibile assolvere l’obbligo di istruzione nei percorsi di apprendistato. I sostenitori di questa norma, il Ministro Sacconi in testa, la giustificano come una chance data a quei 126.000 ragazzi in età compresa tra i 14 e i 17 anni (5,4%, per la precisione 125.853 su un totale di 2.326.298) che nell’anno scolastico e formativo 2008/09, secondo l’ultimo Rapporto Isfol, risultano fuori da ogni tipo di percorso di istruzione e formazione. Questi ragazzi, sulla base delle leggi vigenti, dovrebbero assolvere all’obbligo di istruzione fino a 16 anni e per questa ragione non potrebbero lavorare (anche l’età minima per l’accesso al lavoro è stata innalzata a 16 anni dalla stessa legge che ha innalzato l’obbligo di istruzione): da 16 a 18 anni dovrebbero invece essere inseriti in un percorso formativo.
Siamo di fronte ad un problema grave di dispersione scolastica e formativa che vede il nostro paese fortemente in ritardo rispetto agli standard europei, ma la risposta data dalla legge appena approvata è sbagliata, demagogica e regressiva.
L’apprendistato non è lo strumento adatto per realizzare percorsi idonei a raggiungere gli obiettivi formativi previsti a conclusione dell’obbligo di istruzione, esistono altri e più efficaci interventi per contrastare la dispersione scolastica. Questa misura invece contribuisce a vanificare il processo di cambiamento della scuola necessario per rendere effettivo l’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni.
Vediamo le ragioni.

Gli obiettivi dell’obbligo di istruzione non sono compatibili con un rapporto di lavoro

L’obbligo di istruzione e l’età minima di accesso al lavoro sono stati innalzati a 16 anni con l’obiettivo di far conseguire a tutti i giovani italiani – non uno di meno – la padronanza delle competenze chiave di cittadinanza, traguardo considerato dall’Unione Europea indispensabile per continuare ad apprendere per tutta la vita e quindi per essere cittadini consapevoli e lavoratori occupabili.
Il nuovo obbligo di istruzione è inoltre finalizzato al conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il 18° anno di età: in questo modo si assolve il diritto/dovere all’istruzione e alla formazione introdotta dalla riforma Moratti (nel 1999 il centro sinistra aveva già introdotto l’obbligo formativo fino a 18 anni, mentre l’obbligo scolastico era fino a 15 anni).
Le competenze chiave di cittadinanza (imparare ad imparare, progettare, comunicare, collaborare a partecipare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, acquisire e interpretare l’informazione) sono riferite a quattro assi culturali (dei linguaggi, matematico, scientifico–tecnologico, storico-sociale) che si articolano in abilità/capacità e conoscenze.
Le sopra descritte competenze possono essere raggiunte attraverso diversi percorsi, ma a condizione che essi siano integralmente educativi, nell’ambito dei quali sono da valorizzare anche quelli basati sull’integrazione/alternanza tra scuola e lavoro.
Siamo invece convinti che il contratto di apprendistato sia un ambito inadeguato per realizzare percorsi finalizzati all’acquisizione delle competenze chiave di cittadinanza.
Innanzitutto perché il sistema produttivo italiano è per oltre il 90% dei casi costituito da piccole imprese quasi sempre prive di capacità formativa, perché non dotate degli spazi, delle strutture e delle competenze adeguate, a partire dalla presenza di tutor formati e competenti. Proprio perché siamo consapevoli del valore formativo del lavoro e del ruolo essenziale svolto dall’apprendimento informale, riteniamo si debbano evitare le generalizzazioni e le semplificazioni. L’apprendimento che avviene in assetto lavorativo – in una situazione dove il fine è la produzione e non l’apprendimento – non può che essere prevalentemente di tipo tecnico-professionale. Di conseguenza la formazione finalizzata ai saperi di base e trasversali delle competenze chiave di cittadinanza dovrà prevedere un monte ore di formazione esterna molto consistente, cioè un periodo molto ampio in cui l’apprendista benché retribuito non lavora. Quando i vincoli di formazione esterna sono consistenti, si abbassano le convenienze degli imprenditori ad assumere giovani con il contratto di apprendistato, nonostante gli sgravi contributivi e la possibilità di sotto inquadrare di due livelli gli apprendisti.

L’apprendistato per i minori in formazione è fallito

Questo spiega perché fino ad oggi l’apprendistato per l’espletamento del diritto dovere di istruzione e formazione, introdotto dal 2003 dalla legge 30, non è mai stato regolamentato e quindi non è operativo, perché privo dell’accordo tra Ministeri (Lavoro e Istruzione) e Regioni. I minori possono quindi essere assunti in apprendistato solo nell’ambito del quadro normativo che fa capo alla Legge !96/97 – per l’assolvimento dell’obbligo formativo erano state fissate almeno 240 ore di formazione obbligatoria esterna – e gli imprenditori sono decisamente poco propensi ad assumere minori che, pur avendo assolto all’obbligo di istruzione, devono ancora espletare il diritto dovere all’istruzione e alla formazione fino a 18 anni. Infatti i dati di fonte Inps segnalano circa 50.000 minori assunti con contratto di apprendistato per gli anni 2006 e 2007 e dati di fonte regionale indicano in soli 37.000 i minori apprendisti nel 2006. Disastrosi poi i dati sulla partecipazione alle attività di formazione esterna: nel 2006 solo 8.800 minori apprendisti hanno partecipato alla formazione esterna e nel 2007 sono addirittura scesi a 6.500.
L’unica forma di apprendistato che gli imprenditori hanno utilizzato in modo consistente è quello professionalizzante, riservato ai giovani con più di 18 anni, e anche in questo caso l’hanno trasformato in un comodo modo di ridurre il costo del lavoro, incassando la prevista decontribuzione ed evadendo in massa l’obbligo della formazione per gli apprendisti (solo il 19% degli apprendisti, secondo i dati Isfol, ha partecipato alla prevista attività formativa).
E’ evidente che queste contraddizioni, che rendono difficile realizzare un contratto di apprendistato finalizzato al conseguimento delle competenze tecnico-professionali connesse ad una qualifica, diventano ostacoli insormontabili nell’ipotesi di un contratto di apprendistato in cui si assolve all’obbligo di istruzione.

Come combattere la dispersione scolastica

Invece di far tornare indietro il paese abbassando di nuovo l’età minima di accesso al lavoro a 15 anni (cosa per altro non introdotta dalla nuova legge), è più utile mettere in campo iniziative efficaci per contrastare la dispersione scolastica e fare in modo che i 126.000 ragazzi, oggi fuori da ogni percorso formativo, raggiungano le competenze chiave di cittadinanza previste dall’obbligo di istruzione e acquisiscano successivamente almeno una qualifica professionale.
Di certo quindi la nostra critica all’assolvimento dell’obbligo di istruzione nell’apprendistato non vuole essere in alcun modo un tentativo di sfuggire alla questione della dispersione scolastico-formativa che è da diversi anni, anche se con alterne fortune, al centro dell’agenda politica e del dibattito teorico.
In Italia, infatti, la dimensione del fenomeno è alquanto rilevante rispetto agli altri Paesi europei e dell’area Ocse, ed è centrale operare per un abbassamento deciso del livello di dispersione: il tasso di abbandoni precoci è al 2007del 19,7% in Italia di contro ad una media europea pari al 14,8% e decisamente lontano dal benchmark stabilito dall’Unione Europea pari al 10% . Nei fatti, quindi, fino ad oggi numerose sono risultate le difficoltà di inserire ogni studente in un percorso di istruzione, o di formazione, o di apprendistato e di monitorarne l’esperienza. Tra le cause, ad esempio: l’eterogeneità dell’offerta di formazione professionale tra le varie Regioni, o anche i tutt’altro che scontati tentativi di far dialogare il sistema dell’istruzione con quella della formazione o ancora l’assenza di strumenti capaci di creare coordinamento tra i percorsi tradizionali di apprendimento e quelli legati ad una diretta sperimentazione nei circuiti produttivi. Nei fatti, quindi, la riforma partita nel 1999 sull’obbligo formativo, modificata ed integrata dalla successiva – n. 53 del 2003 – sul diritto all’istruzione e formazione e correlativo dovere, che ha puntato a mantenere nel circuito della formazione, intesa in senso ampio, tutti gli individui fino al compimento del 18° anno di età, non è ancora riuscita ad incidere significativamente sul fenomeno della dispersione proprio per coloro cui maggiormente si rivolge, ovvero i ragazzi che hanno tra i 15 e i 17 anni.

Le forme della dispersione dei 15-17enni

Il primo passo, a nostro avviso, per individuare in modo efficace delle strategie di intervento per arginare questa dispersione di potenzialità dei giovani a causa dei processi di selezione e mortalità scolatica è proprio approfondire le caratteristiche e le condizioni che sono alla base di questi percorsi di dispersione. Che forme assume la dispersione dei 15-17 enni italiani? Proviamo ad evidenziarne alcuni tratti principali .
a) In modo meccanico, dispersione può significare l’effettivo ‘abbandono senza ritorno’ dal circuito scolastico-formativo, ovvero quell’esperienza specifica di uscita definitiva dal sistema dell’istruzione e della formazione, talvolta anche con il mancato raggiungimento di un titolo formale, di cui spesso le stesse istituzioni pubbliche possono perdere traccia.
b) In modo differito, la dispersione può racchiudere quell’insieme di eventi, quali le bocciature, la frequenza discontinua, periodi ricorrenti di assenza, bassi rendimenti ed accumulo di esperienze di fallimento, che facilitano la composizione di percorsi di rallentamento progressivo e di interruzioni provvisorie del rapporto con il sistema scolastico-formativo.
c) In modo occulto, la dispersione può rappresentare un’inadeguata maturazione di competenze spendibili sul piano della realizzazione personale e del proseguimento di un percorso formativo e/o di inserimento lavorativo pure a fronte dell’acquisizione di un titolo di studio. Tale esperienza matura spesso all’interno di percorsi caratterizzati da un generale disinteresse o disagio scolastico, non intercettato o in ogni caso non concretamente recuperato.
d) Spesso poi la dispersione è legata a condizioni di esclusione sociale che caratterizzano specifiche culture socio-economiche territoriali e alcuni sistemi valoriali delle famiglie. In tal senso la dispersione, oltre ad essere un fenomeno strettamente connesso alle tematiche formative, è allo stesso tempo parte e/o causa dei processi di inserimento/marginalizzazione che tendono a riprodurre eredità familiari e sociali, piuttosto che a far maturare fenomeni di mobilità sociale intergenerazionale anche attraverso esiti scolastici positivi .

Le discontinuità della scuola causano dispersione

Il rischio dispersione poi non è omogeneo rispetto ai diversi ordini e tipologie di istruzione/formazione, ma ricalca alcune soluzioni di continuità tipiche del nostro sistema educativo e formativo, che assumono nei percorsi individuali la forma di eventi potenzialmente critici. La prima di queste discontinuità è il salto formativo tra l’istruzione dell’obbligo e quella superiore, esemplificata nei noti tassi di non ammissione alle classi successive quasi quadruplicati tra la scuola secondaria di I grado e quella di II grado e negli altrettanti noti tassi di ripetenza più che duplicati; così come risultano triplicate le percentuali dei ragazzi che interrompono il percorso di studi. Una conferma ulteriore di tale salto formativo è data dai picchi degli indicatori di insuccesso riscontrabili al primo anno di scuola secondaria di II grado. Una seconda discontinuità riguarda le differenze di successo/insuccesso formativo che caratterizzano all’interno delle stesso canale dell’istruzione la formazione liceale da quella tecnico-professionale: in quest’ultimo caso infatti si registrano i picchi più rilevanti di difficoltà e disagio e corrispondenti valori elevati di interruzione/dispersione. Infine la formazione professionale: come emerso da numerose ricerche condotte anche dall’Ires, questo canale educativo è spesso per i ragazzi un approdo difficile e di seconda istanza. Di fatto arrivano spesso alla formazione professionale quei ragazzi con percorsi precedenti nel canale dell’istruzione segmentati e discontinui: è un tipo di formazione che, seppure spesso viene riconosciuta dai ragazzi stessi a loro misura, costituisce una via di uscita di secondo livello da precedenti esperienze segnate da difficoltà ed insuccessi e quindi tende a connotarsi come una sorta di formazione di ‘serie b’.

Come contrastare la dispersione: le anagrafi degli studenti

Per contrastare la dispersione occorre innanzitutto adottare strumenti adeguati di conoscenza del fenomeno: è ancora assente un sistema integrato a livello nazionale in grado di rilevare i dati in modo sistematico e continuo, monitorando insieme le informazioni relative ad istruzione, formazione professionale ed apprendistato. L’effettivo funzionamento delle anagrafi degli studenti è indispensabile per raccogliere un flusso sufficiente di dati e informazioni sui percorsi scolastici e formativi al fine di conoscere il fenomeno della dispersione e pervenire alla tracciabilità dei percorsi. Per poter operare nella lotta all’evasione dell’obbligo occorre essere in grado di intercettare i ragazzi che non vanno a scuola e di proporgli azioni di orientamento e rimotivazione finalizzati al rientro nell’istruzione o nella formazione. Occorrono per questo anagrafi degli studenti funzionanti e servizi di orientamento in ogni territorio.
Le cose, purtroppo, non stanno così. A livello regionale, solo 10 tra le 21 Regioni dispongono di un’anagrafe sull’obbligo formativo : un quadro piuttosto pesante che vede la maggioranza dei territori nella concreta impossibilità di individuare che evade l’obbligo scolastico e quello formativo. A questo si aggiunge una forte frammentazione dei servizi di orientamento, spesso non in grado di intervenire tempestivamente con colloqui, azioni recupero e orientamento, tutoraggi.
Il governo se fosse effettivamente preoccupato dei 126.000 ragazzi dispersi dovrebbe aprire tavoli di confronto con le istituzioni locali (Regione, Enti Locali, Amministrazione Scolastica, Centri per l’Impiego), in particolare con le Province viste le loro competenze in materia, per dare l’impulso centrale necessario a:
? avviare un percorso che conduca alla costituzione di anagrafi degli studenti costantemente aggiornate, capaci di individuare i soggetti che evadono l’obbligo di istruzione e formazione attraverso l’incrocio dei dati con le anagrafi generali;
? realizzare il coordinamento dei servizi di orientamento in modo da assicurare ai giovani che hanno abbandonato la scuola colloqui e azioni di orientamento, rimotivazione, accompagnamento;
? per attivare interventi ad hoc e di prevenzione della dispersione.

Come contrastare la dispersione: cambiare il sistema educativo italiano

Il secondo campo di intervento deve mettere in campo una strategia di intervento multidimensionale e sul lungo periodo a partire da una prima parola d’ordine: ‘differenziare l’offerta educativa e di formazione’ nella consapevolezza che differenti sono le intelligenze, le motivazioni e le attitudini e che quindi altrettanto tali devono essere le proposte di percorsi di istruzione/formazione ai vari livelli, nazionale e regionale. Partire da qui significherebbe riuscire a superare la storica impostazione ‘gentiliana-crociana’ del nostro sistema educativo che ha standardizzato da una parte un percorso educativo di prima scelta legato all’istruzione liceale, dall’altra un filone formativo di seconda scelta centrato sullo sviluppo di competenze tecnico-professionali. Significherebbe inoltre tenere conto delle differenti condizioni di partenza dei ragazzi segnate dai diversi contesti familiari e territoriali di appartenenza.
Una seconda parola d’ordine è ‘rendere flessibile l’offerta educativa e di formazione’, operare quindi una trasformazione funzionale dell’offerta educativa da parte delle istituzioni, consentendo ad un’offerta che si è storicamente costituita per segmenti specifici di ri-articolarsi in un sistema capace di mettere in comunicazione contenuti, metodi, attività trasversali, modalità gestionali, risorse umane e finanziarie, così da garantire quei gradi di flessibilità per entrare ed uscire dai percorsi, una delle modalità principali di contenimento della dispersione.
Il riordino Gelmini della secondaria superiore si muove invece in una direzione opposta: destruttura l’obbligo di istruzione, non trasforma il biennio iniziale obbligatorio in senso unitario e orientativo, conferma la canalizzazione precoce a 14 anni, rende praticamente impossibili i passaggi tra i diversi percorsi, rafforzando le discontinuità tra i cicli di istruzione. Non realizza inoltre un percorso continuo e progressivo dei curricula dai 3 ai 16 anni. Tutto questo, in un quadro di pesanti tagli che impoveriscono e irrigidiscono l’offerta formativa, impedendo proprio tutte quelle forme di individualizzazione dei percorsi e quelle metodologie didattiche attive che nelle migliori esperienze si sono rilevate lo strumento più efficace per promuovere il successo formativo di tutti.
Insomma, se si guarda ai dati reali e alle storie concrete dei ragazzi, fuori da ogni logica di propaganda e di semplificazione populistica, emerge con evidenza che, nel campo della lotta alla dispersione, il mix dei provvedimenti Gelmini (obbligo di istruzione anche nell’apprendistato e riordino delle superiori) va esattamente in direzione contraria a quello che servirebbe ai 126.000 ragazzi oggi espulsi dal sistema educativo italiano.
da ScuolaOggi, 26.3.2010