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"Berlusconi batte il non voto", di Federico Geremicca

E così, nonostante l’astensione che avrebbe dovuto penalizzarlo, le inchieste che lo riguardano, l’esclusione della sua lista nella provincia di Roma ed una certa stanchezza nell’azione del governo, Silvio Berlusconi – un po’ a sorpresa rispetto alle ultimissime previsioni – ha largamente vinto anche questa tornata elettorale. Governava in due sole Regioni (rispetto alle 11 del centrosinistra) e da oggi ne amministra sei.

Conferma, come da pronostico, Lombardia e Veneto; guadagna, come scontato da settimane, Campania e Calabria; ma soprattutto conquista il Lazio – nonostante l’assenza di liste Pdl nella capitale – ed espugna il Piemonte, che da oggi diventa una Regione a trazione leghista.

Il Pd perde ma non frana, confermandosi partito-guida in sette Regioni. All’opposto, il Pdl mette nel carniere quattro nuovi governi regionali, ma ottiene un deludente risultato come partito, arretrando non solo rispetto alle europee di un anno fa ma anche alle elezioni regionali del 2005. E se i risultati dei due maggiori partiti in campo sono in qualche modo in chiaroscuro – e si prestano a esser dunque letti in maniera diversa (in ossequio alla nota filosofia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto) – su un dato non sono possibili divagazioni: e il dato è l’avanzata – l’ennesima – della Lega di Umberto Bossi.

Il fatto che il «partito padano» non abbia sorpassato in queste elezioni il Popolo della libertà, è circostanza francamente marginale. Quel che infatti conta sul serio sono le percentuali bulgare raggiunte in Veneto, l’ulteriore crescita in Lombardia, l’insediamento con consenso crescente in Emilia (il Carroccio è il primo partito perfino nel Comune natale di Bersani…) e soprattutto il fatto che, con un proprio candidato, abbia portato il centrodestra alla conquista del Piemonte. Il partito di Bossi governa ora due tra le più importanti e popolose Regioni del Nord, è già ben insediato alla guida di centinaia di amministrazioni e ora si accinge a chiedere il governo di Milano, e forse non solo di Milano. La lunga marcia dei lumbard dunque prosegue: e in assenza di risposte chiare e forti da parte della politica «romana», non si vede cosa possa fermarla.

E non è solo il radicalismo leghista a uscir premiato dalle urne. Se si guarda infatti a quel che accade nell’altra metà del campo, è possibile osservare un fenomeno analogo. Il «partito giustizialista» di Antonio Di Pietro, infatti, non esce ridimensionato dal voto e, anzi, importa a livello regionale le alte percentuali raggiunte un anno fa alle elezioni europee; le liste «fai da te» messe in campo da Beppe Grillo vanno quasi ovunque oltre il 3%, con punte di oltre il 6% in Emilia; e non può esser senza significato il risultato importante (e senz’altro inatteso) ottenuto da un candidato «radicale» come Nichi Vendola in Puglia e il successo sfiorato da Emma Bonino nel Lazio. Del resto, non si capisce come possa destare sorpresa il fatto che, dopo un anno di pesante crisi economica e con i partiti tradizionali impegnati in furibonde risse su tutt’altro (dalle escort ai processi brevi e alle intercettazioni), oltre la metà degli italiani abbia deciso di non votare o di sostenere forze estreme o radicali.

E al di là di chi ha vinto di più o di chi ha perso di meno, è questa la scoraggiante fotografia che il voto di ieri consegna alle classi dirigenti del Paese: il livello di sopportazione, il livello di guardia, non è lontano. E se l’altissima percentuale di astensioni ne è una spia, sarebbe errato non considerarne un effetto anche quel 20% di consensi distribuiti tra partiti estremi (come la Lega) e movimenti radicali quasi personali (Di Pietro e Grillo). Chi ha memoria, infatti, non può non ricordare come la Prima Repubblica – al di là delle successive inchieste giudiziarie – cominciò a scricchiolare proprio sotto l’incalzare del fenomeno leghista…

E’ giusto, dunque, interrogarsi sul tipo di risposta che sapranno dare a questo evidente disagio i due partiti maggiori, e le dinamiche che il risultato elettorale potrebbe avviare tanto nella coalizione di governo quanto nel fronte dell’opposizione. Ipotizzare una crescita dell’ipoteca leghista sull’esecutivo è fin troppo ovvio: ciò che è ancora difficile da immaginare, invece, è il tipo di risposta che arriverà da Silvio Berlusconi. Così come nient’affatto scontate sono le mosse che deciderà di compiere Gianfranco Fini, sempre più insofferente verso l’ «egemonia» leghista sul governo e segnalato – un giorno sì e l’altro pure – come ormai in uscita dal Pdl. Dopo questo voto, insomma, molto potrebbe cambiare: e onestamente, alla luce di quanto visto negli ultimi mesi, sarebbe davvero opportuno che molto cambiasse…
La Stampa 30.03.10

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“Il referendum del Cavaliere”, di MASSIMO GIANNINI

NON servono i tortuosi giri di parole in uso nella Prima Repubblica. Appannato dagli scandali privati, ossessionato dai guai giudiziari, logorato da due anni di non-governo del Paese, Silvio Berlusconi è riuscito in qualche modo a vincere anche queste regionali. Lo ha fatto nell’unico modo che conosce, dall’epifanica “discesa in campo” del ’94: trasformando la contesa elettorale in un altro, esiziale “referendum” sulla sua persona. Lo aveva detto lui stesso, alla vigilia di un test di medio-termine al quale si avvicinava con una ragionevole preoccupazione: “Il voto regionale è politico”. Ha avuto ragione lui.

Non ha certo ripetuto il plebiscito del 13 aprile 2008, di cui anzi ha dilapidato tanta parte dei consensi. Il suo partito ha perso centinaia di migliaia di voti, sfiorando il 27% nelle regioni in cui si è votato: 4,5 punti in meno rispetto alle regionali del 2005, e addirittura 7 punti in meno rispetto alle politiche 2008. Quasi un tracollo, per il “partito del predellino”, l'”amalgama mal riuscito” nel quale il co-fondatore Gianfranco Fini sopravvive con crescente imbarazzo. Ma pur con tutto il travaglio mediatico di questi ultimi due mesi, e con l’evidente affanno politico di questi due anni, il Cavaliere ha comunque vinto il referendum. Suo malgrado, verrebbe da dire.

Grazie alla Lega ha blindato il Nord, espugnando il Piemonte e spopolando in Veneto. Nonostante il malaffare e il Cosentino-gate ha fatto il pieno anche al Sud, strappando con margini bulgari la Campania e la Calabria. E a dispetto del basso profilo della Polverini e dell’assenza del simbolo alla provincia di Roma, ha conquistato anche il Centro, battendo nel Lazio un avversario di caratura nazionale come Emma Bonino. Al centrosinistra restano le briciole. A settentrione il piccolo presidio della Liguria di Burlando, nel Mezzogiorno la sorprendente enclave della Puglia di Vendola, e in mezzo il solito insediamento appenninico del vecchio Pci, dall’Emilia alla Toscana, dall’Umbria alle Marche.

Questo voto si può leggere in molti modi diversi. Si può decrittare in termini di milioni di cittadini “amministrati” da ciascuno dei due schieramenti. Oppure secondo la valenza “strategica” e politica delle singole regioni in cui hanno vinto l’uno o l’altro dei due poli. Oppure, ancora, in base alle “bandierine” piantate su ognuna delle 13 regioni in cui si è votato. Da qualunque punto di vista lo si osservi, il voto ci consegna un’Italia che vede la maggior parte dei cittadini governati anche a livello locale dal centrodestra, che è sbilanciata a vantaggio del centrodestra in tutte le principali macro-regioni, e che anche in termini di “bandierine” piantate sul territorio fotografa un centrodestra in forte recupero, dall’11 a 2 da cui si partiva al 7 a 6 a cui si è arrivati.

Per il governo è un risultato che va al di là di tutte le aspettative. Berlusconi ha pagato un tributo altissimo all’astensionismo, che si è avvicinato ai livelli francesi. Almeno un milione e mezzo di italiani non si è turato il naso dentro l’urna, ma ha preferito andarsene a respirare altrove. È un segnale chiaro di insoddisfazione verso la maggioranza. Ma lo è allo stesso modo anche per l’opposizione, che non ha beneficiato di alcun travaso di flussi elettorali, ma viceversa ha pagato a suo volta un dazio pesante al non voto. Ora si discuterà a lungo su questo crollo oggettivo dell’affluenza, sulle inevitabili riflessioni alle quali sarà chiamato l’intero ceto politico verboso, rissoso e inconcludente, sulla ricorrente pulsione antipolitica che ha nutrito il successo delle derive grilliste ed estremiste.

Ma per il centrodestra e per l’intero Paese il dato politico più clamoroso non è questo. È invece il trionfo della Lega, che ha compiuto la sua ennesima metamorfosi. Con la sorprendente vittoria piemontese il Carroccio ha sfondato un’immaginaria “linea del Ticino”, ridisegnando il paesaggio politico della nazione. In Lombardia non c’è stato il “sorpasso”, ma il “pareggio” dei voti con il Pdl ha un valore enorme, se si pensa che alle regionali del 2005 i lumbard avevano meno della metà dei voti dell’allora Cdl. Se a questo successo si sommano il trionfo di Zaia in Veneto e quello di Cota in Piemonte, e poi la pervasiva e costante “infiltrazione” lungo il confine tosco-emiliano, l’esito è inequivocabile.

Un centrodestra a trazione leghista quasi integrale ha messo in cassaforte tutto il Nord. Quello più dinamico e più capace di coiniugare localismo culturale e globalismo economico. Di fronte a questo risultato così netto il pur prezioso “avamposto” conservato dal centrosinistra in Liguria è davvero poca cosa. Da ieri è nata davvero la “Padania”, che non è più un’astrazione ideologica partorita dalla mente fertile del Senatur, ma è già una formazione geografica scolpita nel perimetro delle regioni più ricche e produttive del Paese, e dunque una realizzazione politica perseguita e infine perfezionata da una classe dirigente totalmente immersa e integrata nel territorio.

Una nuova generazione di dirigenti leghisti ha cambiato l’abito politico di un partito che è sempre meno di lotta e sempre più di governo. La camicia verde si indossa ormai sotto la grisaglia grigia: nelle cerimonie pagane tra le valli alpine come nei consigli d’amministrazione delle fondazioni bancarie. In pochi anni siamo passati dall’illusione di una Lega “costola della sinistra” al paradosso di un Pdl “costola della Lega”. Tutto questo, a dispetto delle dichiarazioni rassicuranti di Bossi, non potrà non avere effetti sull’equilibrio interno alla maggioranza, dalla richiesta di nuovi ministeri nell’eventuale rimpasto alla pretesa di candidare un leghista alle prossime comunali di Milano. Ma gli effetti riguarderanno forse l’intero sistema politico. Chi ne vuole una prova, legga le parole di Zaia: “Con questi risultati il bipolarismo è finito”.

Per il centrosinistra, in chiave speculare, il dato politico più doloroso riguarda non solo la perdita del Piemonte al Nord, ma anche la bruciante sconfitta al foto-finish nel Lazio. Erano considerate da tutti le regioni chiave di questa tornata, e il Pd le ha cedute tutte e due. È una realtà su cui di dovrà ragionare a fondo. Soprattutto nel Lazio, dove alla candidatura della Bonino il centrosinistra è arrivato con un percorso a dir poco avventuroso, e il Pd si è acconciato più per necessità che per convinzione. Ha pagato anche questo, nell’urna, oltre all’anatema dei vescovi che, a tre giorni dalle elezioni, deve aver giocato un ruolo ancora una volta cruciale per le scelte di molti moderati, evidentemente non ancora “cattolici adulti”. E poi c’è lo schianto in due roccaforti del Sud, la Calabria e soprattutto la Campania, dove non è bastato candidare uno “sceriffo” come De Luca per cancellare troppi anni di sfrontato strapotere del vicerè Bassolino.

Ora il Pd cerca nelle pieghe del voto qualche motivo di conforto. E in parte, legittimamente, lo trova. Il risultato dei “democrats” a livello nazionale non è disprezzabile: nel voto di lista oscilla tra il 26 e il 28%, insidia il primato al Pdl, e se segna una caduta forte rispetto al 34,1% delle politiche del 2008 riflette una flessione di appena un punto rispetto alle europee del 2009. Ma il “partito riformista di massa”, se pure tiene, non fa breccia nel cuore degli elettori che vogliono resistere al berlusconismo. Lo prova l’astensionismo, che ha eroso i consensi del Pd anche nei luoghi in cui il risultato non era in discussione (Emilia, Marche e Umbria) dove Errani, Spacca e Marini hanno vinto con percentuali molto più basse rispetto alle precedenti tornate elettorali.

Ma lo prova, oltre alla performance di Di Pietro, anche l’exploit delle liste di Grillo, dove si sono presentate come in Emilia e in Lombardia. Un’emorragia grave, che la radicalizzazione della linea politica voluta da Bersani negli ultimi giorni di campagna elettorale non è bastata ad arginare. Non solo. Anche dove ha vinto, come in Puglia o in Liguria, il Pd deve ringraziare soprattutto l’Udc, che nonostante un risultato nell’insieme negativo per le ambizioni terzaforziste di Casini ha comunque drenato voti preziosi al centrodestra con le candidature di disturbo della Poli Bortone e di Biasotti. Per Bersani, e per la sua leadership, si impone un ripensamento profondo delle strategie: sia sul profilo del partito, sia sul fronte delle alleanze.

Ci sarà tempo per il regolamento dei conti, nel centrodestra come nel centrosinistra. Ma quello che importa, adesso, è capire come sarà riempito l’abisso che separa il Paese dalla fine di questa turbinosa legislatura. “Questo voto non cambierà nulla per il governo”, aveva annunciato Berlusconi. Più che una previsione, una maledizione. Vengono i brividi, a immaginare altri tre anni come i due che sono appena trascorsi. C’è da sperare che la vittoria della Lega sia foriera di qualche novità positiva. È stato Bossi a dire che dopo il voto occorrerà ritessere il filo del dialogo tra i poli, tranciato di netto dalle intemerate del Cavaliere. Ed è stato Bossi a dire che adesso è lui “l’arbitro delle riforme”. L’Italia, insomma, è nelle mani del Senatur. Il futuro prossimo del Paese dipende da un capo che, fino a qualche anno fa, predicava la secessione, urinava sul Tricolore e imprecava contro Roma Ladrona. Oggi rappresenta invece il nuovo “fattore di stabilità” di questo centrodestra, scosso dalle spallate destabilizzanti e dalle sfuriate eversive del Cavaliere. Persino questo estremo paradosso, ci riserva il lento e carsico declino della leadership berlusconiana.
m.giannini@repubblica.it
La Repubblica 30.03.10