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"Scuola, riforma anti-immigrati", di Marina Boscaino

Il maggior ritardo si accumula alle superiori con il 24,4% degli italiani, cui si contrappone il 71,8% degli stranieri E non a caso questa legge colpisce ferocemente l’istruzione professionale. La storia che sto per raccontare potrebbe rafforzare le convinzioni di Gelmini, Cota e chi in questi anni ha lavorato, attraverso una serie di proposte indecenti, ad una (dis)integrazione del tessuto sociale e del mandato inclusivo della scuola della Repubblica. Spero, viceversa, che chi la leggerà si trovi d’accordo con me. “Semplificazione”, una delle parole-chiave della “riforma”, sbandierata per giustificare i tagli di 140.000 posti di lavoro e di ore di lezione, sapere, cittadinanza, socialità, inclusione e per assecondare il bisogno di certezze di una parte della nostra società, rappresenta il criterio più inopportuno da riferire a un progetto di scuola. La scuola, semmai, se davvero si investisse culturalmente su di essa, sarebbe da “complessificare”, per renderla più adatta di quanto non sia ad accogliere il senso della diversità e della complessità, le cifre dell’oggi. Complessificare la scuola significherebbe renderla più adatta a rappresentare il punto di partenza per sperare in integrazione sociale non subalterna di tutte e di tutti. In particolare per gli alunni stranieri, che sono passati dai 13.712 (a. s. 1999/00) ai 118.977 (2007/8) e che sono l’oggetto di un’inchiesta – L’integrazione dei ragazzi stranieri alle superiori – pubblicata da “Animazione Sociale” del Gruppo Abele di Luigi Ciotti. I minori rappresentano 1/5 di tutti i migranti: nel 2009 erano 862.453, con un trend di aumento di 100.000 unità l’anno. Occorrerà fare presto e sensatamente i conti con questi dati.
Le nazionalità presenti nella scuola italiana sono ben 191: percorsi, viaggi, storie differenti, tutte caratterizzate dallo snodo cruciale che è la migrazione e la fatica esistenziale che essa comporta. L’energia indispensabile per un riadattamento in una realtà sconosciuta, con una lingua a volte incomprensibile, modelli culturali estranei, sovente indifferenza ai saperi e al saper fare già acquisito, che vengono confinati, come il senso della vita altra, quella del “prima”. L’identikit dei più “vulnerabili”: nati all’estero e giunti da noi dopo i 10 anni; arrivano ad anno scolastico già avviato; provengono dal contesto africano; maschi. L’esperienza scolastica non è facilissima: i ragazzi italiani in ritardo sono l’11,6% della popolazione scolastica, quelli migranti il 42,5%. Il maggior ritardo si accumula proprio nella scuola superiore, con il 24,4% degli italiani, cui si contrappone il 71,8% dei ragazzi stranieri. Il 40,7% dei giovani migranti sono inseriti nell’istruzione professionale, il 37,6% in quella tecnica; le rispettive percentuali degli italiani sono 19,9% e 35%: troppo evidente ancora una volta come nel nostro Paese la scuola media abbia rinunciato a qualsiasi funzione orientativa e traghetti destini socialmente determinati nei vari segmenti delle superiori – quando ci si arriva. Appare perfettamente coerente che la “riforma” colpisca nella maniera più feroce proprio l’istruzione professionale, svuotandola ulteriormente di qualsiasi funzione acculturante, a vantaggio di una dinamica meramente addestrativa: creazione di manodopera digiuna di cittadinanza, nella miope e triste visione del mondo che caratterizza il progetto. Il dossier racconta anche illuminate esperienze felici. Ma molto più spesso integrazione – tra retorica e pratica – è diventata parola svuotata di significato, con una normativa di riferimento poco conosciuta o attuata solo in parte. Le classi-ghetto non sono state solo la macabra proposta del leghista Cota, ma rappresentano una realtà organizzativa per venire incontro alla visione ottusa e xenofoba dello straniero ostacolo ai processi di apprendimento degli altri, nati dalla parte “giusta” del mondo.
I numeri sono impressionanti. Ma ancor più le storie, gli occhi, i traumi, i sogni di ragazzi che potrebbero essere i nostri figli. Rispondere ai loro legittimi bisogni è un’emergenza assoluta. Loro, invece, non sono un’emergenza, alla quale far fronte con soluzioni improvvisate o con proposte che violino Costituzione e buon senso. Sono la nostra realtà. Occorrono investimenti – e consistenti – su questa importante e nuova dimensione della nostra identità socio-culturale. Occorre individuare strategie didattiche e di relazione, tempi diversi, aperture ed interrelazione tra apporti e contributi ugualmente significativi. Occorre la scuola dell’art. 3. Lontana mille miglia dalle classi ponte, dalla quota del 30%, dalle impronte ai bimbi rom. Dalla mistificazione di una “semplificazione” che non è altro che asfittico disinvestimento che il tempo si occuperà di dimostrare incivile.
Il Fatto 30.03.10