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"Il riordino del secondo ciclo ai nastri di partenza", di Gian Carlo Sacchi

Il riordino che oggi viene inaugurato toglie tutte le aggiunte che in passato avevano contraddistinto le proposte innovative, con finanziamento statale, e apre spazi di flessibilità senza la certezza che questo rimanga, soprattutto sotto forma di personale.
Una scelta anticipata fin dal primo anno contrasta con le politiche dell’orientamento che invece muovono da progressive azioni di evoluzione/differenziazione, mentre qui siamo già in presenza di interventi di recupero/riorientamento. Questo vale in particolare per i rapporti tra istruzione e formazione professionale, che si sono voluti rendere paritari sul piano politico, pur attivandoli con finanziamenti diversificati, ma che il regolamento degli istituti professionali vede anche in termini di possibili integrazioni. Una tale opportunità era prevista già da tempo da leggi regionali o da intese tra regioni e il ministero stesso, specialmente nel primo biennio, ai fini cioè di favorire in modo più equilibrato il predetto orientamento e di conferire maggiore equità ai curricoli, nell’ambito dell’assolvimento dell’obbligo di istruzione e tra formazione generale e professionale.

Le quote di flessibilità potranno dare origine a percorsi pluridisciplinari, anche nella prospettiva del superamento dei rigidi confini delle discipline, verso “aree”, anche se questo obiettivo, pur già presente nella riforma del 2003, sembra ancora lontano. Un altro esempio eclatante a tale riguardo sono le così dette “scienze integrate”, che vengono indicate dai nuovi quadri orari, anche se accanto viene poi denominata una specifica materia. E la matematica, che rimane da sola, non entra nel percorso scientifico?

Ancora un elemento da considerare nell’ottica dell’espansione del curricolo, che va oltre una visione accumulativa dello stesso, è l’insegnamento di una o due materie non linguistiche in una lingua straniera. Ci sono limitate esperienze in tal senso nel nostro sistema e anche limitate speranze che ciò avvenga in tempi brevi in modo generalizzato, soprattutto se si agirà nella ricerca di uno specialista. Bisogna capire se si vuole rimanere nell’ottica dell’affiancamento tra le discipline, oppure mettere in atto processi di collaborazione che, come per l’informatica, colgano sempre di più la dimensione trasversale dei diversi contributi e il loro valore funzionale.

Le suddette quote possono dunque essere usate in due direzioni: per privatizzare progressivamente il sistema, o per dotare i territori delle necessarie autonomie, mantenendo obiettivi di coesione sociale.

Si parla molto dell’utilizzo dei laboratori e del loro indubbio valore formativo, sia sul piano delle motivazioni che delle acquisizioni, non solo sul versante applicativo ma anche critico. Queste attività, “per problemi e progetti”, si inseriscono bene nell’evoluzione del processo formativo per competenze, nell’apprendimento in situazioni così dette non formali, ma si vorrebbe evitare di rimanere nella pura utopia se non si interviene anche nel campo delle condizioni che favoriscono una tale metodologia. Partiamo dalle infrastrutture, che, a parte alcuni interventi sulle nuove tecnologie, è molto tempo che non vengono rinnovate. Non ci vogliono inchieste giornalistiche per dimostrare che a partire dall’edilizia tale situazione manifesta spaventose carenze; dove i laboratori sono efficienti lo si deve perlopiù agli enti locali o a efficaci collaborazioni con il mondo aziendale, a contributi delle famiglie o a sponsorizzazioni di vario genere. Proseguiamo con i tagli dei docenti tecnico-pratici e agli assistenti tecnici, che pur potrebbero essere utilizzati anche in modo migliore.

Si sa che il laboratorio, se non è semplicemente dimostrativo, ha bisogno di tempi lunghi, di percorsi coerenti e coesi, di un’organizzazione davvero flessibile che non è compatibile con gli attuali parametri contrattuali. Tutto questo oggi è sempre più necessario che si raccordi con i tirocini nelle imprese: tutor scolastico e tutor aziendale, previsti anche nei licei, anch’essi però scarsamente sostenuti finanziariamente.

La didattica laboratoriale deve essere un momento attivo, tra l’apprendimento logico-sistematico della scuola e quello empirico-problematico dei luoghi di lavoro, ma potrà senz’altro diventare una strategia per coinvolgere l’intero curricolo, tra la scuola e il territorio.

L’introduzione dei dipartimenti disciplinari, la presenza dei predetti comitati scientifici costituiti con personale esterno, mettono la scuola in un percorso di ricerca e di innovazione permanente, ma la sua organizzazione, soprattutto gli orari del personale, già oggi non consentono di utilizzare i dispositivi previsti dai provvedimenti sull’autonomia.

Il passaggio veramente epocale di cui tanto si parla non sta tanto nell’ammodernamento dei percorsi formativi, cui hanno fatto riferimento tutte le modifiche fin qui intervenute, ma nella loro gestione; se la scuola cioè debba cambiare solo dal centro o possa autoregolarsi, se “coniugare tradizione e innovazione” dipenda dall’autonomia, che quindi comprende le sperimentazioni realizzate dalle scuole stesse in armonia con i territori, o da processi di periodica normalizzazione, come sembra sia anche quello in atto, nonostante parli di flessibilità, che in pratica però sia possibile realizzare sotto forma di opzioni predeterminate per quanto riguarda le materie e i relativi docenti.

Non si può non condividere l’idea di valorizzare la qualità degli apprendimenti piuttosto che la quantità delle materie, ma non può essere questo il movente per operare in modo unilaterale un notevole sfoltimento orario; la comparazione con Paesi come la Finlandia in cui si ottengono migliori risultati nelle ricerche internazionali non dipendono certo soltanto dal minore carico per gli studenti, ma anche da politiche diverse di governo del personale e del sistema sul territorio.

Se meno sia meglio è ancora tutto da dimostrare; sul più, uniforme e centralistico, forse qualcosa da cambiare c’è!

Andare oltre si potrebbe con contratti di natura privatistica, ma occorre di nuovo domandarsi con quali risorse, per arrivare, come già si diceva nella famosa legge 59/1997, all’autonomia finanziaria delle scuole.

E qui rischia di franare anche l’attuale riordino: semplificare può voler dire impoverire, mentre la riorganizzazione fa rientrare dalla finestra ciò che ciascun istituto, anche in relazione alle altre realtà del territorio e ai risultati attesi dalle ricerche nazionali e oltre, ritiene utile per sostenere la qualità del suo percorso. Al nodo dei finanziamenti devono pensare tutti coloro che hanno responsabilità nel governo del sistema, ai diversi livelli, compresi i “premi”, anche sul piano fiscale, che derivano dai risultati ottenuti da territori così detti virtuosi e dalla consapevolezza che matura nella comunità sulla base della partecipazione all’elaborazione di standard nazionali e locali. È sempre possibile quindi intervenire con fondi perequativi statali, ma sia chiaro che ciascuno deve fare la sua parte: il federalismo non può tollerare l’assistenzialismo.

È necessario che i vari settori scolastici si riorganizzino, ma attenzione a non creare steccati; già si è visto che le “passerelle” sono perlopiù degli scivoli, perché pur articolando le metodologie si deve condividere l’equità dei curricoli. Sono in gioco i diritti di tutti, pur essendo necessario promuovere i percorsi per ciascuno, ma anche l’efficacia dell’integrazione tra formazione generale e professionale, soprattutto se l’obbligo di istruzione viene assolto attraverso “diverse” modalità.
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