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Rossi: "Il capitalismo resta malato nuove regole o sarà la fine", di Giovanni Pons

Intervista al professore già presidente di Consob e Telecom, tra i padri della legge antitrust. “Quando si è consegnata la Borsa alle banche, si doveva sapere che non fanno beneficenza”.
Professor Guido Rossi, a un anno e mezzo dal crollo di Lehman Brothers e dal collasso del sistema finanziario globale il Congresso americano e l’Europa non hanno ancora adottato alcuna nuova regola. Si va avanti come se niente fosse? “Proprio così – sottolinea il giurista, ex presidente di Consob e Telecom – e la cosa peggiore è che viviamo ancora nell’ignoranza delle ragioni profonde della crisi e delle misure necessarie per far ripartire l’economia. Almeno però in America si è sviluppato un dibattito critico e speriamo costruttivo sul grande tema del capitalismo grazie a intellettuali come Richard Posner che dopo “Il fallimento del capitalismo” ora ha scritto “La crisi della democrazia capitalista”, sostenendo cioè che la crisi economica sta diventando una crisi della democrazia”.

Non c’è proprio alcun segnale all’orizzonte che possa far sperare in un’inversione di tendenza?
“Come al solito la produzione di nuove regole deve essere sollecitata dalla giurisprudenza. Una recentissima sentenza della Corte Suprema Usa presa all’unanimità ha riaffermato la “possibilità di contestare giudizialmente l’importo degli emolumenti quando essi risultano così eccezionalmente sproporzionati da non avere alcuna ragionevole relazione con le prestazioni reali, quando non siano stati stipulati in buona fede e siano frutto di conflitti di interesse”. È una sentenza storica che ribalta quella della Corte d’appello di Chicago del 17 maggio 2008 nella quale si sosteneva che i giudici non potevano intervenire sugli stipendi ma bisognava lasciar fare al libero mercato. La decisione, che diventerà famosa, è Jones versus Harris Associates”.

Ma anche in Europa è stato fatto qualcosa di simile, sembra sia passata l’idea che gli stipendi debbano essere approvati dalle assemblea delle società.
“I tedeschi e gli inglesi hanno stabilito per legge che compensi e bonus devono passare dall’assemblea anche se il parere di questa non è vincolante. Adesso con la sentenza della Corte Suprema americana gli emolumenti dei manager dovranno risultare più equi e per questa via si arriverà probabilmente anche a un ridimensionamento del rapporto debito-capitale delle banche. Le operazioni a debito altamente rischiose hanno infatti favorito i grandi compensi”.

In assenza di regole precise le grandi banche, anche italiane, hanno ripreso a macinare utili e i banchieri ne hanno beneficiato con stipendi e bonus a livelli molto alti. È giusto?
“A questo riguardo valgono le parole del premio Nobel Stiglitz nel suo recente volume dal titolo significativo “Free fall” (Caduta libera). Il sistema bancario nel 2009 ha prodotto profitti record e ha pagato 145 miliardi di dollari in bonus ai dipendenti, il tutto in uno scenario economico in cui aumenta la disoccupazione. Stiglitz ha anche proposto che le attività rischiose delle banche debbano rimanere separate dai depositi e dal risparmio della gente o se non altro che il tutto deve essere assolutamente trasparente e non opaco come è ora”.

Le grandi lobby finanziarie stanno ostacolando una regolamentazione di derivati, credit default swap e repos, perché altrimenti diminuirebbero le loro opportunità di guadagno…
“La lobby che più agisce in questo senso è quella legata alla banca d’affari americana Goldman Sachs che vanta affiliati sia nelle istituzioni americane sia all’estero. Non è un caso che Tim Geithner e in ultima istanza anche Obama abbiano frenato, sinora, sulle grandi riforme dei mercati finanziari. Dove sono finiti i Global Legal Standard che meno di un anno fa tutti volevano approvare?”

Forse non si vuole imparare dal passato, le borse sono tornate su, l’emergenza è finita e i bilanci pubblici appesantiti dalle perdite assorbite dai privati. Quando arriverà la prossima bolla?
“Il sistema non sarà più in grado di sopportare lo scoppio di una nuova bolla. Arrivati a questo punto il problema è ancora più profondo: è la democrazia che non sa reagire allo strapotere del sistema bancario, come sostiene Posner. Ecco perché è così necessario implementare delle regole nella finanza che non si possano aggirare e che portino maggiore trasparenza pagando il prezzo, forse, di minori profitti. È vitale per la tenuta della democrazia”.

Le banche italiane hanno sopportato meglio la crisi rispetto alle big mondiali ma anche da noi non sembra cambiato molto rispetto al passato: utili da trading e bonus generosi per i banchieri.
“Una volta terminata la falsa discussione sui sistemi di governance dualistici in Italia non sono state introdotte né regole per rendere i bilanci delle banche più aderenti alla realtà né paletti per ridurre la leva finanziaria. Le banche italiane hanno retto grazie alle Fondazioni che si sono dimostrate gli unici investitori di lungo periodo in assenza dei fondi pensione”.

Sì ma ora la politica torna a premere sulle Fondazioni, che reclamano più governance a fronte di un impegno di risorse maggiore e minori dividendi.
“Io credo che finora la politica non sia entrata in modo così clamoroso nelle vicende bancarie e che comunque anche qui bisogna piantare dei paletti. Senza regole allora diventano preminenti le lotte di potere e in Italia mi pare che ultimamente sia prevalso un potere di tipo “tribale””.

Oltre a darsi lauti stipendi i banchieri si sono recentemente dedicati a cambiare i vertici di Mediobanca e Generali.
“Credo che la giostra delle nomine non risolva i problemi alla radice. In Italia le regole valgono soltanto per le questioni “bagatellari”, mentre per quelle rilevanti vale l’eccezione alla regola e quindi il potere svincolato da tutto, che si tratti della protezione civile o della presidenza delle Generali”.

Le banche non sono riuscite a far fronte comune nemmeno nel difendere la proprietà della Borsa Italiana, a questo punto è lecito pensare che sia stato un errore privatizzarla. O no?
“Anche le privatizzazioni in Italia sono state fatte senza una cornice di regole. Così oggi abbiamo Eni ed Enel ancora controllate dal Tesoro, le ex Bin in mano alle Fondazioni che hanno garantito stabilità permettendo loro di svilupparsi, mentre quelle fatte sul mercato, come la Telecom, hanno utilizzato la leva finanziaria con il risultato che oggi, malate di eccessivo indebitamento, non possono investire per fronteggiare l’innovazione tecnologica. Quindi, quando si è consegnata la Borsa alle banche, bisognava tener conto che queste non fanno beneficenza e che al momento opportuno avrebbero potuto vendere”.

Non crede che gli unici che stanno imparando dal passato siano i cinesi, i quali stanno cercando di sgonfiare le bolle con provvedimenti che raffreddano i settori a rischio, come l’immobiliare?
“Sono d’accordo, i cinesi stanno tenendo basso il cambio dello yuan per favorire le esportazioni e al contempo sviluppare la domanda interna. Quando questa sarà sufficientemente robusta rivaluteranno la moneta favorendo le importazioni che potranno risollevare la domanda mondiale. E non bisogna dimenticare che operando in questo senso detengono già oggi gran parte del debito pubblico americano, per il 45% già in mani straniere. Credo che i cinesi abbiano capito più di altri il messaggio di Keynes: nelle fasi di crisi è meglio dare meno denaro ai ricchi e di più ai poveri, perché questi hanno una maggiore propensione al consumo e possono ricreare la domanda se si vuole ottenere la piena occupazione”.
La Repubblica 07.04.10