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"La legalità val bene una mensa", di Valerio Onida

Prima si è verificato l’episodio di Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza, dove alcuni ragazzini si sono visti servire pane e acqua alla mensa scolastica perché i genitori risultavano da tempo morosi nel pagare le quote dovute alla scuola. Ora un altro caso simile, ad Adro, nel Bresciano. Una buona occasione per riflettere su come si possa e si debba impostare correttamente il tema della legalità e dei diritti nel nostro paese.
Alcuni punti dovrebbero essere chiari e indiscussi. Primo: il servizio della mensa scolastica è un servizio pubblico, erogato per lo più dietro pagamento di un prezzo a carico delle famiglie. Prezzo che può e forse deve essere anche differenziato, e dovrebbe essere stabilito avendo riguardo alle condizioni economiche delle famiglie oltre che alle esigenze di equilibrio del bilancio. Secondo: le famiglie che accedono al servizio sono debitrici delle quote dovute nei confronti dell’amministrazione. E dunque, se non pagano, quest’ultima ha il potere e il dovere di agire perché la morosità ingiustificata cessi. Terzo: le questioni e le controversie economiche fra amministrazione e genitori degli scolari dovrebbero essere sempre trattate in modo da non pregiudicare i diritti degli scolari stessi e da non metterli a disagio.

Ciò posto, le amministrazioni in questione non vanno criticate ma anzi lodate per avere cercato di recuperare situazioni di morosità che, a quanto pare, duravano da tempo e investivano un certo numero di famiglie. Non è giusto lasciare che utenti di servizi pubblici si sottraggano alle loro responsabilità e ai loro debiti, usufruendo di una tolleranza indiscriminata che si trasforma in un ingiusto privilegio e in definitiva in un onere per l’intera collettività. Anzi, un’azione rigorosa per correggere situazioni d’irresponsabilità e d’indebita tolleranza dovrebbe essere, in generale, più diffusa nelle pubbliche amministrazioni (viene in mente il fenomeno degli inquilini morosi di alloggi pubblici). L’idea che un debito verso un ente pubblico non sia un debito “vero” e possa essere lasciato insoluto senza conseguenze pratiche è un’idea magari diffusa, ma da combattere: fa parte della percezione secondo cui un bene pubblico è un bene di nessuno, non un bene di tutti.

Naturalmente, però, trattandosi di servizi pubblici di cui tutti hanno diritto di godere (e nel caso della mensa scolastica per di più legati al diritto fondamentale all’istruzione), le amministrazioni dovrebbero farsi carico delle situazioni di bisogno sottostanti alla morosità, anche in relazione a eventuali difficoltà contingenti (disoccupazione, stasi nel lavoro o simili), attivando i vari strumenti d’intervento sociale di cui dispongono (esenzioni, sussidi a integrazione del reddito, o altro): dovrebbero accertare le situazioni concrete e adattare ad esse la risposta, anche di propria iniziativa (senza aspettare che qualcuno “bussi alla porta”). Senza per questo tollerare che, a discrezione dei singoli utenti, il dovuto sia pagato o meno.
Ove ci si trovi di fronte a un inadempimento sistematico e non giustificato, e una volta accertato che questo non è dovuto a stati di bisogno che richiedano l’intervento del comune, l’amministrazione non solo può, ma deve adottare le misure di recupero delle somme dovute, attraverso gli strumenti amministrativi e giudiziari previsti dall’ordinamento, compreso l’invio dell’ufficiale giudiziario a casa dei debitori. Il comune non ha però diritto di far pesare sui bambini le conseguenze delle controversie, mettendoli in situazioni di discriminazione e di umiliazione, quali che siano le colpe dei genitori. C’è modo e modo anche per esercitare legittimi diritti e poteri.

Dunque, può non essere facile, ma è sempre possibile e doveroso far convivere il rigore nell’affermazione delle esigenze di legalità nei confronti degli utenti con l’esigenza preminente di rispetto dei diritti fondamentali delle persone, in particolare dei minori, nonché col dovere d’intervenire nelle situazioni di bisogno. Agli amministratori in questione va rimproverato non di avere agito, ma di avere scelto (è il caso di Montecchio) una strada sbagliata: e semmai, se fosse il caso, di non avere accertato eventuali situazioni di bisogno reale e di non avere attivato in proposito i necessari interventi di supporto. Un comune responsabile di un servizio pubblico a favore dei minori non può comportarsi come un negoziante che, se non vede i soldi sul banco, non serve il cliente.
Il Sole 24 Ore 11.04.10