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"Che cosa farà Fini quando sarà grande", di Eugenio Scalfari

Che cosa farà da grande Gianfranco Fini? È ancora un possibile delfino di Silvio Berlusconi? Oppure uno dei suoi competitori? Un uomo di destra? Oppure un liberale? Rilevante o irrilevante? Questo gruppo di domande sollecita risposte alcune delle quali possono essere date fin d’ora, ma altre si vedranno col tempo perché lo stesso Fini oggi non saprebbe darle, neppure dopo aver inghiottito il siero della verità. La prima risposta certa è questa: non è mai stato il delfino di Berlusconi e mai lo sarà e la ragione è semplice: Berlusconi non vuole delfini. Non soltanto perché non se ne fida, ma perché non c’è nessuno come lui nel panorama politico italiano. Lui è un’anomalia assoluta, un fantastico imbonitore, capace di indossare qualunque maschera e di compiere qualunque bassezza che gli convenga.

Quando sarà arrivato al culmine del percorso che si è prefisso, non avrà altri pensieri che godersi la felicità d’aver gustato e posseduto tutto: il potere, la ricchezza, l’ubiquità, l’immunità. Che cos’altro può desiderare chi ha il culto di se stesso come obiettivo supremo da realizzare? Perciò nessun delfino, nessun successore designato. “Dopo di me il diluvio, che io comunque non vedrò”. Perciò Fini non ha nessun avvenire dentro il Pdl dove i suoi colonnelli d’un tempo l’hanno già tradito e i suoi marescialli di campo che stanno ancora con lui finiranno con l’abbandonarlo anche loro se il percorso da lui intrapreso sarà troppo lungo e troppo accidentato.

Salvo forse Giulia Bongiorno e un Dalla Vedova e pochi altri che privilegiano le convinzioni agli interessi. La Polverini l’ha mollato il giorno stesso in cui fu eletta alla Regione; Alemanno è sulla soglia, Ronchi appena un passo indietro. Il presidente della Camera, a questo punto del suo percorso, ha assunto l’immagine d’un liberale, anzi d’un liberal-democratico, attento ai diritti e ai doveri e alla legalità. Allo Stato di diritto. Di qui il suo accordo con Napolitano. Quale avvenire politico può avere un uomo che ha scelto questa strada e questa immagine in un partito come il Pdl? Nessuno. E fuori dal Pdl? Fini è ancora rilevante perché potrebbe mettere in crisi il governo, ma nella canna del suo fucile ha soltanto quella cartuccia. Sparata quella non ne avrebbe più nessun’altra e la partita passerebbe in altre mani. A questo punto il suo futuro si potrà realizzare soltanto nelle istituzioni e non nella politica. È e potrà continuare ad essere un buon presidente della Camera o del futuro Senato federale o addirittura aspirare al Quirinale.

Non è poi un brutto avvenire anche se non è affatto facile; presuppone molta intelligenza, molta correttezza e coerenza di comportamenti ed anche un’Italia assai diversa da quella berlusconiana. Fargli gli auguri oggi significa perciò farli a tutti quelli che in un’Italia berlusconiana si trovano decisamente male. Nel breve termine può darsi che Fini giovedì prossimo formalizzi la sua rottura con Berlusconi o accetti un provvisorio armistizio per guadagnar tempo; ma la sostanza delle cose non cambierà e i voti dei quali dispone in Parlamento si faranno comunque sentire in qualche passaggio essenziale.

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L’altro protagonista è la Lega. Molto più rilevante di Fini perché ha dietro di sé milioni di voti e controlla la parte più ricca e più produttiva del Paese. Bisogna capir bene quale è il rapporto della Lega con il Pdl con il quale è alleata e il suo rapporto con Berlusconi. Può sembrare che si tratti della stessa cosa, invece non è così. L’alleato della Lega non è il Pdl ma Berlusconi in prima persona. La Lega non lascerà mai Berlusconi perché è lui il suo amplificatore su scala nazionale e anche nel Nord leghista. La Lega non ha nessun uomo che possieda le capacità demagogiche di Berlusconi; Bossi è un’icona ma non ha carisma. La Lega perciò ha bisogno di Berlusconi almeno quanto Berlusconi ha bisogno della Lega. Il Pdl dal canto suo senza Berlusconi non esisterebbe. La figura geometrica che illustra questo trinomio è dunque quella d’un triangolo rovesciato; nei due angoli superiori ci sono Berlusconi e la Lega, nell’angolo inferiore c’è il Pdl. Due padroni e un sottopadrone. Fini si ribella proprio a questa geometria ma non ha la forza per disfarla anche perché il cemento che sostiene l’intera costruzione è nelle mani di Giulio Tremonti.

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Guardate ora alla questione delle banche del Nord. E’ stata esaminata con attenzione su vari giornali. Ne ha parlato più volte “24 Ore” con apprezzabile preoccupazione. Sulle nostre pagine sono intervenuti Massimo Riva e Tito Boeri mettendone in rilievo aspetti importanti e inquietanti ai quali ne aggiungerò uno che mi sembra il principale: la Lega vuole instaurare una sorta di autarchia finanziaria e bancaria nordista. Il senso della banca territoriale è questo. Se riescono in questo intento sarà una catastrofe per l’intero sistema economico italiano.

Bossi è stato assai esplicito e preciso su questa questione capitale. Ha detto: “La gente ci chiede di prenderci le banche e noi le prenderemo”. Infatti le prenderanno passando attraverso le Fondazioni bancarie e insediando persone fidate nei consigli e nei vertici delle banche. Fidate per la Lega e per Tremonti, due ganasce della stessa tenaglia. Ma perché la gente fa quella richiesta a Bossi? Quale gente?

La Padania è un tessuto di medie, piccole e piccolissime imprese; le grandi e le grandissime si contano ormai sulle dita di una sola mano, anzi su un solo dito. Le banche e le Casse di risparmio hanno in quel tessuto la loro clientela naturale per una parte dei depositi raccolti e degli impieghi erogati. Ma soltanto una parte. Se sono banche di grandi dimensioni i loro sportelli di raccolta sono su tutto il territorio nazionale e i loro impieghi e intermediazioni sono ovunque in Europa. Ma “la gente” di Bossi e il messaggio leghista vogliono che il grosso degli impieghi rimanga su quel territorio anche se si tratta di impieghi non garantiti e concessi a condizioni di favore.

La territorialità bancaria nella visione leghista ha questo significato: raccolta di depositi ovunque, impieghi prevalentemente nel Nord. Questa è l’autarchia finanziaria leghista. Con altre parole questa è la politicizzazione del credito. Nella famigerata Prima Repubblica, un concetto del genere non era neppure pensabile. Ai tempi di Menichella, di Carli, di Baffi, di Ciampi, di Mattioli, di Cingano, di Siglienti, di Rondelli, una concezione del genere equivaleva ad una bestemmia.

Il credito è una linfa che circola in tutto l’organismo e affluisce là dove c’è bisogno ed è il mercato a stabilire la sua locazione ottimale. Perciò suscita preoccupato stupore vedere il sindaco di Torino che discetta sulla maggiore o minore “torinesità” dei dirigenti di Banca Intesa e i presidenti leghisti del Piemonte e del Veneto occuparsi della dirigenza di Unicredit, nel mentre il ministro dell’Economia si adopera per la creazione della Banca del Sud e consolida i suoi rapporti con le Generali.

La conclusione sarà l’isolamento del sistema bancario italiano dal sistema internazionale. Un’aberrazione che basterebbe da sola a squalificare un intero sistema politico. Ho scritto domenica scorsa che la Lega somiglia per molti aspetti ad una Vandea. Questo delle banche è un elemento qualificante di una concezione vandeana dell’economia. Anche la Chiesa di papa Ratzinger sta assumendo aspetti vandeani e per questo è aumentata la sua attenzione (ricambiata) verso la Lega. Ma qui il discorso è più complesso e ne parleremo una prossima volta.

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Mentre questi fatti accadevano nell’area del centrodestra si è riunita ieri la direzione del Pd dando luogo ad un lungo dibattito privo tuttavia di apprezzabili novità e di concrete proposte. Il Pd è in attesa con le armi al piede, si direbbe in gergo militare. Nell’aria aleggia però una domanda: in tempi ormai remoti i due grandi partiti nazionali della Prima Repubblica avevano un invidiabile radicamento nel territorio. Come mai gli eredi di quelle due tradizioni politiche non sono riusciti a coniugare la concezione nazionale del partito e il suo radicamento territoriale?

La ragione è molto semplice e la storia ce la racconta. La Dc era radicata nelle parrocchie, nelle associazioni cattoliche, negli oratori, nelle cooperative bianche. Il Pci ricavava invece quel radicamento dal fatto che i comunisti erano licenziati dalle fabbriche o mandati nei reparti di confino. Occupavano le terre insieme ai contadini, morivano sotto il piombo dei mafiosi insieme agli operai scioperanti nelle zolfare siciliane e nelle cave calabresi. Leggete “Le parole sono pietre” di Carlo Levi e saprete come e perché i comunisti erano radicati sul territorio.

Il radicamento sul territorio non dipende dal numero dei circoli o delle sezioni. Dipende dalla condivisione della vita dei dirigenti con quella del popolo che li segue. Se quella condivisione non c’è e al suo posto c’è separatezza, il contenitore è una scatola vuota e il gruppo dirigente galleggia appunto nel vuoto. Non è questione di età, di giovani o vecchi, di donne o di uomini, di settentrionali o di meridionali, di colti o meno colti. È questione di creare una comunità e viverla come tale. La dirigenza del Pci era fatta di intellettuali che vivevano come proletari e in mezzo ai proletari. Se non c’è comunità, se non si sa suscitarla, non ci sono partiti ma gusci vuoti in balia della corrente. Anzi delle correnti. Questo è il problema del Pd. Mancano i don Milani e i Di Vittorio d’un tempo. Se risuscitassero sotto nuove spoglie molte cose cambierebbero in quest’Italia di maschere e di generali senza soldati.
La Repubblica 18.04.10

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“Pdl, il partito senza terra” , di ILVO DIAMANTI

C’E’ LA TENDENZA – e la tentazione – di trattare il conflitto fra Berlusconi e Fini come un caso “personale”. L’ultimo episodio di una lunga “guerra di successione” (come ebbe a definirla Adriano Sofri). D’altronde, in questa democrazia personalizzata, non può sorprendere che i conflitti politici abbiano retroscena personali – e viceversa. Tuttavia, gli argomenti critici espressi da Fini a sostegno della propria minaccia difficilmente possono essere considerati “personali”. Perché sono politicamente fondati. E, al tempo stesso, percepiti – e condivisi – in ampi settori del Pdl con inquietudine. L’egemonia della Lega sulla coalizione. Ma soprattutto, la debolezza del Pdl e il suo squilibro territoriale crescente. Non sono invenzioni polemiche. Soprattutto oggi, dopo il voto regionale. Non a caso – e non per gusto della provocazione – Bossi ha dichiarato l’intenzione della Lega di esprimere il futuro premier, nel 2013. Fra i propri leader. Interni o di riferimento (un nome a caso: Tremonti).
La polemica sollevata da Fini, anche per questo, contribuisce a svelare quante difficoltà abbiano prodotto i risultati delle elezioni regionali nel Pdl.

Anche se la ri-conquista di 3 regioni importanti, come la Campania, il Piemonte, e il Lazio, ha indotto ad attribuire la vittoria al centrodestra, nell’insieme. E, dunque, al suo leader. Al premier. Che da sempre fanno tutt’uno. Tuttavia, il voto ai partiti ha sancito un evidente insuccesso del Pdl. Si tratta di un aspetto già osservato da altri analisti (per primo, dall’Istituto Cattaneo). Eugenio Scalfari, domenica, vi si è soffermato a lungo. Il Pdl, in valori assoluti, anche considerando la Lista Polverini in provincia di Roma, ha perso consensi, rispetto alle europee del 2009 (2.600.000) e alle regionali del 2005 (400.000). In termini percentuali, si è attestato sui valori del 2005. Cioè: il più basso della seconda Repubblica, considerando tutte le elezioni dal 1994 fino ad oggi. (Si veda, al proposito, l’articolo di Luigi Ceccarini su Repubblica. it).

Il buon risultato della Lega ha – in parte – compensato queste difficoltà. E le ha – in parte – acuite. Perché ha aumentato in misura rilevante il peso leghista. Nell’alleanza con il Pdl, infatti, nel 2005 la Lega rappresentava il 16% dell’elettorato, nel 2009 il 24%, oggi il 29%. Il fatto che fino al 2006 l’alleanza di centrodestra comprendesse anche l’Udc, peraltro, riduceva la forza contrattuale della Lega. (Che, anche per questo, considerava i neodemocristiani degli intrusi e dei nemici). Ma il peso assunto dalla Lega appare più evidente su base territoriale. Considerato insieme a quello del Pdl, nel 2005 l’elettorato leghista costituiva il 29%, nel Nord: oggi è salito al 47%. La crescita è ancora più evidente nelle regioni rosse del Centro (compresa l’Emilia Romagna). Dall’8% del 2005, oggi è salito al 26%. In altri termini: la Lega, per il Pdl, è un partner fedele. Ma anche necessario. E, al tempo stesso, un concorrente. ( Si vedano mappe e tabelle sul risultato elettorale del Pdl nel sito di Demos ), Nel Sud, la Lega non c’è, per ora. Ma il Pdl ha, comunque, incontrato difficoltà di tenuta elettorale. Certo, ha conquistato la Campania e la Calabria. In più ha strappato il Lazio. In complesso, nelle regioni meridionali, allargate al Lazio, ha recuperato 300 mila voti rispetto alle regionali del 2005, ma ne ha persi quasi un milione rispetto alle europee del 2009 e oltre due rispetto alle politiche del 2008.

Così, il Pdl continua ad apparire un partito fortemente meridionalizzato. Visto che il 41% del suo elettorato, alle recenti elezioni, proviene dalle regioni del Sud e dal Lazio. Eppure, anche in quest’area si è indebolito. Nel Sud, infatti, alle regionali ha ottenuto il 32% dei voti validi, ma alle europee del 2009 ne aveva conquistati il 42% e nel 2008 il 45%. Da ciò l’impressione che le critiche di Fini siano tutt’altro che infondate. Ma, al contrario, rivelino alcune ragioni di disagio e tensione che attraversano il Pdl. Sfidato dall’interno, più che dall’esterno. Dagli amici, più che dagli avversari. Da destra e dal centro, più che da sinistra. Nel Centro-Nord, come abbiamo già detto, è incalzato dalla Lega. Alle regionali del 2010, primo partito in 9 province, alle europee del 2009 in 6. Nel 2005 in nessuna. Mentre il Pdl nel 2005 era primo partito in 25 province, nel 2009 in 32. Oggi in 20. La concorrenza della Lega, peraltro, rimette in discussione l’accesso alle risorse e ai centri di potere. Nelle istituzioni, nel credito, nella finanza (come ha puntualmente mostrato Tito Boeri, su questo giornale).

Nel Sud, invece, il Pdl deve fare i conti con il malessere dei gruppi politici e di interesse a cui fa riferimento. Insoddisfatti e preoccupati, per il conflitto distributivo con gli “alleati” del Nord. Frustrati dall’asimmetria fra peso elettorale e politico. Dal contrasto fra un partito centromeridionale e un governo nordista. Queste tensioni hanno già prodotto strappi vistosi. Soprattutto in Sicilia, dove Raffaele Lombardo, leader del Mpa e presidente della Regione, agisce in aperto contrasto con il governo e il centrodestra. Dove Micciché e altri leader del Pdl parlano di costituire un Partito del Sud. Nel Mezzogiorno, il Pdl deve, inoltre, fare i conti con l’Udc, che ha ottenuto successi significativi. Ha, infatti, “conquistato” 15 comuni tra i 29 (a scadenza naturale) dove si è votato nelle scorse settimane. Partecipando a coalizioni per metà di centrosinistra e per metà di centrodestra.
Più che dal centrosinistra e dal Pd, quindi, l’opposizione alla maggioranza viene dalla maggioranza. L’opposizione al Pdl dal Pdl. Dalla sua – contraddittoria – presenza nella società e nel territorio. Dove appare poco radicato. Stressato da una fusione – tra Fi e An – mai del tutto compiuta, soprattutto a livello periferico. Frammentato in gruppi locali e particolaristici. Incalzato dalla compattezza della Lega. Disorientato – più che da Fini – dall’incertezza sui fini comuni e condivisi. Per comprendere le difficoltà e i conflitti nel Pdl, allora, conviene non concentrarsi solo sui gruppi parlamentari, sui dirigenti nazionali di partito, sui luoghi della “politica dell’audience”. Meglio spostare lo sguardo anche sul territorio. Dove si rischia di capire il significato della sfida di Fini a Berlusconi meglio che in un talk-show.
La Repubblica 18.04.10