economia, lavoro

"Scommessa su un'Italia nuova", di Mario Deaglio

Attorno all’auto si intrecciano e si aggrovigliano oggi tre discorsi diversi. Il primo è quello globale, che vede il mercato dell’auto ansimare dei paesi avanzati e crescere vorticosamente nei paesi emergenti, con auto più piccole e molto meno costose. Per soddisfarli entrambi, e quindi per tener conto congiuntamente delle esigenze della sicurezza, dell’ambiente e di bassi prezzi di vendita, è necessario investire molto e produrre in grandi quantità veicoli con le medesime caratteristiche di base (le cosiddette “piattaforme”).
Per il futuro ci si deve quindi attendere un grande mercato globale con pochissimi produttori per i quali la soglia di sopravvivenza è stimata in 6-7 milioni di veicoli l’anno. Di qui ha origine la corsa delle società produttrici a fusioni e accordi. La Fiat – recentemente alla ribalta per l’acquisizione di una quota dell’americana Chrysler – non è certo la sola a cercare di crearsi una base globale: per limitarsi a notizie recenti, occorre citare l’intesa di Renault-Nissan con la tedesca Daimler per un’accresciuta cooperazione tecnica. E General Motors vende ormai più auto in Cina che negli Stati Uniti, mentre il dinamismo delle vendite della Fiat in Brasile fa fortunatamente da contrappunto alla debolezza della domanda automobilistica europea.

Il secondo discorso sull’auto, va decisamente a scontrarsi con questa visione globale e guarda invece ai luoghi di produzione in lista di possibile chiusura, ai posti di lavoro inaspettatamente diventati a rischio non solo nelle fabbriche ma anche negli uffici e tra i fornitori. Tutti gli accordi che le imprese considerano positivi sulla via della sopravvivenza nel mercato globale, ai cancelli degli stabilimenti sono guardati con intensa preoccupazione come possibili minacce di imminente cessazione dell’attività.

Ogni grande impresa automobilistica ha i suoi Termini Imerese; che possono chiamarsi Flins e Melun rispettivamente per Renault e Peugeot, oppure Anversa per la General Motors e l’elenco potrebbe continuare. Da un punto di vista tecnico-economico, queste chiusure, già effettuate o possibili, sono la contropartita dei progetti mondiali: è difficile realizzare i secondi senza procedere alle prime. Le imprese dell’auto sono quindi tirate da due parti: per finanziarle il mercato richiede piani credibili di sopravvivenza ed espansione (due obiettivi che, in tempi lunghi, si fondono perché chi non si espande non sopravviverà) mentre il territorio, sul quale, di regola, le imprese dell’auto sono fortemente radicate, richiede assicurazioni per il mantenimento dell’attuale livello di attività.

Le cifre del piano Fiat possono essere intese come un tentativo di soluzione che cerca di tener conto contemporaneamente delle compatibilità del mercato e delle esigenze del territorio. Al di là di quanto possibile a livello aziendale, è necessario l’intervento pubblico ed è questo il terzo discorso sull’auto: tale intervento è necessario nella forma di programmi assai più che di finanziamenti che devono riguardare separatamente il futuro dei lavoratori in eccesso e il futuro delle imprese impegnate in questa trasformazione. L’istanza di mantenere i posti di lavoro attuali come sono e dove sono appare in ogni caso destinata al breve periodo.

Si tratta di problemi scomodi che nessun governo è entusiasta di affrontare. Anche in Italia è sicuramente mancata a livello politico una discussione sull’industria dell’auto (e sull’industria in generale) che andasse al di là dei discorsi di piccolo cabotaggio dei bonus e del “salvataggio” immediato dei posti di lavoro e si estendesse alle nuove tecnologie del settore e alle loro ricadute occupazionali (naturalmente se l’auto continuerà a essere una struttura portante del sistema industriale italiano). Al contrario, almeno in Francia e negli Stati Uniti, questi discorsi sono stati concretamente impostati e in entrambi i paesi è stato di fatto varato una sorta di piano nazionale dell’auto.

Mentre le regole chiamano in causa i governi, le risorse per l’auto globale, a lungo andare, devono venire in prevalenza dal mercato finanziario globale. E il discorso del mercato globale – che la Fiat ha affrontato ieri con la presentazione dei suoi programmi fino al 2014 – implica quasi sempre la divaricazione delle strade dei vari rami di attività che oggi convivono all’interno dei grandi gruppi automobilistici ove questi non siano strettamente integrati da un punto di vista tecnologico. La separazione di Fiat Industrial dalle attività automobilistiche non significa inizialmente una variazione nella proprietà ma appare sicuramente come il riconoscimento di esigenze finanziarie diverse e di futuri tecnologicamente separati.

Il piano Fiat pone il paese di fronte a un’ipotesi di realtà futura. Per questo motivo potrebbe risultare il primo contributo alla messa a punto della nuova Italia economica che emergerà dalla crisi attuale, un problema per il quale sulla scena politica ben pochi sembrano avere tempo ed energie da spendere. C’è da augurarsi che si tratti di un primo passo, nell’ambito di una dialettica costruttiva, per la presa di coscienza dal parte del Paese della realtà sgradita ma inevitabile di un’economia mondiale nella quale, volenti o nolenti, dobbiamo nuotare per restare a galla.
La Stampa 22.04.10

******

Obiettivo 6 milioni di auto, raddoppio in Italia

Il progetto prevede, in Europa, il lancio di 34 nuovi modelli (13 made in Usa) e il restyling di altri 17. L´aumento dei veicoli realizzati legato al lavoro su tre turni per sei giorni. Sergio Marchionne alza l´asticella. Presenta un piano al di là di ogni prevedibile ambizione: nel 2014 il Lingotto produrrà in Italia 1,4 milioni di automobili (oltre a 250 mila veicoli commerciali). Di queste, un milione sarà destinato all´esportazione e tra le auto esportate, 300 mila verranno vendute negli Usa. In tutto la Fiat prevede di realizzare tra cinque anni 3 milioni di auto ai quali vanno aggiunti 800 mila tra veicoli commerciali e jeep. A questi si sommano 2,2 milioni di auto prodotte da Chrysler per un gruppo che nel 2014 dovrebbe produrre e vendere complessivamente 6 milioni di auto all´anno. Che cosa penseranno i concorrenti di questi obiettivi?: «Certamente moriranno dalle risate – risponde Marchionne – e poi sarà il mercato a fargli cambiare idea».
Naturalmente questo piano ha un prezzo: «Chiediamo ai sindacati italiani di rendersi conto della grande opportunità che offriamo e del fatto che è necessario avere una forza lavoro più flessibile per arrivare alla saturazione degli impianti». Se i sindacati non saranno d´accordo?: «Ho un piano B – dice l´ad del Lingotto – e non è dei migliori». Perché quel piano prevederebbe «di prendere la baracca produttiva e impiantarla altrove».
Il progetto prevede, in Europa, il lancio di 34 nuovi modelli e il restyling di altri 17. Dei modelli nuovi commercializzati nel vecchio continente, 13 saranno prodotti negli Usa. Nei quattro stabilimenti italiani è prevista una produzione più che raddoppiata (dalle 650 mila auto di oggi a un milione e 400 mila). Molto forti dovranno essere le sinergie. Secondo Harald Wester, nel 2014 si arriverà a una gamma di 38 modelli realizzati su cinque sole piattaforme per un totale di 800.000 auto prodotte a piattaforma, poco meno del milione che negli anni scorsi Marchionne aveva indicato come obiettivo.
L´aumento della produzione italiana è legato allo svolgimento di tre turni di lavoro per sei giorni lavorativi. Rispetto alle previsioni si confermano le indiscrezioni sulla produzione di Pomigliano (250 mila nuove Punto), mentre a Cassino si dovrebbero sfiorare le 350 mila auto all´anno (100 mila in più del previsto) e a Melfi le 400 mila (30 mila in più). La vera novità del piano è la produzione di Mirafiori che dovrebbe salire a 270 mila auto all´anno (150 mila in più delle previsioni). Come riuscirà Marchionne a realizzare l´obiettivo nello stabilimento torinese? «Mirafiori – risponde l´ad – sarà molto, molto Alfa». Confermata invece la chiusura di Termini Imerese e i 1.000 prepensionamenti a Pomigliano e Cassino, per un totale di 2.500 persone in meno negli organici.
In serata, dopo l´illustrazione agli analisti, Marchionne incontra i sindacati. Registrando apprezzamenti e qualche perplessità. La Cgil (Camusso) e la Fiom (Masini) apprezzano «il fatto che il piano compia un significativo passo avanti rispetto a quello presentato a dicembre, come dimostra il raddoppio della produzione italiana». Ma non gradiscono «l´ultimatum implicito nella minaccia di un piano B» (Camusso) e pur «disponibili ad ogni confronto» prevedono che quella sulla flessibilità sarà «una discussione complicata» (Masini). Per il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, «il piano può aprire una nuova stagione di relazioni industriali». «Dobbiamo cogliere la sfida lanciata da Marchionne – dice il segretario della Uilm, Rocco Palombella – perché il piano è in grado di risolvere i problemi occupazionali». Tutti i sindacalisti si rammaricano per l´ennesimo annuncio sulla chiusura dello stabilimento di Termini Imerese.
Solo nei prossimi giorni, quando si saranno svolti gli incontri tra azienda e sindacati a livello di stabilimento, sarà possibile capire quale sarà la distribuzione delle nuove produzioni nelle fabbriche italiane del gruppo. Lo stesso Marchionne ha avvisato che «si tratta naturalmente di previsioni» e che «l´ultima parola spetterà, come sempre, al mercato». Se la richiesta del mercato sarà molto alta, dice l´ad del Lingotto, «possiamo anche assumere». Poi però precisa subito che per capire se e quando questo avverrà «sarà necessario un percorso abbastanza lungo».

La Repubblica 22.04.10