politica italiana

«Una politica staccata dalla realtà», di Mario Calabresi

La notizia che ha colpito di più gli italiani questa settimana è stata la morte a Ventotene di due ragazze di quasi 14 anni schiacciate da un masso. Il mondo politico, concentrato sullo scontro senza precedenti tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera, non se ne è neppure accorto. Ma i sondaggi, che commissiona quotidianamente, lo hanno ricordato ieri mattina a Berlusconi prima che entrasse in Consiglio dei ministri per essere investito dalle minacce di una crisi di legislatura lanciate da Bossi. Archiviate le elezioni regionali doveva cominciare una nuova fase di riforme costituzionali e di politiche capaci di rispondere alle necessità di un’Italia a cui mancano una bussola, una prospettiva e un disegno di largo respiro. E a cui manca una politica di difesa e di messa in sicurezza del territorio, che risolviamo con il suo contrario: i condoni.

C’era la promessa di occuparsi di federalismo, di tasse, dei costi della politica, dell’efficienza della giustizia e del rilancio dell’economia. Si ragionava sul fatto che finalmente c’era tutto il tempo – addirittura tre anni senza elezioni di portata nazionale – per affrontare nodi irrisolti da decenni. Invece si discute addirittura della possibilità di elezioni anticipate e lo slancio riformista sembra già miseramente crollato. Difficile aspettarsi che i cittadini comprendano le ragioni per tornare alle urne, più facile immaginare che il numero dei disillusi e dei disgustati cresca ancora. Alle regionali quattro elettori su dieci sono rimasti a casa o hanno lasciato la scheda bianca, ma quanto deve ancora crescere l’area dello scontento per mettere in allarme una politica che ha perso ogni contatto con la realtà? Certo è assai improbabile che si vada al voto già questo autunno – i tempi per farlo prima dell’estate non ci sono – e allora viene da chiedersi cosa dobbiamo aspettarci da questa legislatura. Il tentativo di riformare globalmente la Costituzione è già fallito tre volte e i presupposti in passato erano assai più forti.

Come pensare che possa riuscirci un Parlamento in cui maggioranza e opposizione non trovano nessun filo di dialogo e in cui la maggioranza stessa è impegnata in un duro regolamento di conti interno? Vennero affondate la commissione Iotti e la bicamerale di D’Alema, nonostante un clima bipartisan che portava a scommettere sulla loro riuscita, così come furono gli elettori a bocciare, con un referendum, la riforma federalista approvata a maggioranza dal centrodestra nella penultima legislatura. Nelle ultime settimane il dibattito si era acceso immaginando di dare all’Italia un Presidente eletto direttamente dai cittadini, ogni giorno però cambiava il modello straniero di riferimento, adesso sembra già tutto svanito. Sulla scrivania del Capo dello Stato, al Quirinale, è ancora appoggiata la cartellina gialla con la dicitura Presidenza del Consiglio dei ministri che Roberto Calderoli ha lasciato a Giorgio Napolitano. Quella cartellina, che contiene una bozza di riforme, doveva servire a far decollare il dibattito, invece è servita a farlo precipitare.

La cartellina gialla infatti è stata la goccia che ha scatenato l’ira di Gianfranco Fini nemmeno avvisato della visita al Quirinale del ministro leghista. Il presidenzialismo, poi, sembra già non interessare più né al premier che negli ultimi giorni ha confidato di averlo lanciato per provare a stanare proprio Fini (che dell’elezione diretta aveva fatto una sua storica bandiera), né alla Lega realmente interessata solo al varo del federalismo fiscale. Viene da chiedersi adesso perché proprio da lì si era pensato di cominciare. Il Capo dello Stato, in tempi in cui anche i presidenti di Camera e Senato si sono gettati nella mischia politica, sembra essere l’unico punto di riferimento istituzionale, l’unico che non partecipa alle risse, che non grida e non minaccia. Penso che così si spieghi perché nei sondaggi continua ad avere l’indice di gradimento e di fiducia più alto.

Eliminare quella che appare come l’ultima figura di garanzia del Paese, per trasformarla con l’elezione diretta nella massima espressione di una parte, non sembra un’idea geniale di questi tempi. Bisognerebbe prendere atto che non esiste un clima da Grandi Riforme, che non c’è più tempo da sprecare in dibattiti sterili, e mettere a fuoco riforme mirate puntando su quelle su cui è possibile raccogliere un consenso più ampio, su passi capaci di dare segnali positivi al Paese. Si dovrebbe avere il coraggio di discutere di cosa ha bisogno l’Italia, su quale ruolo vuole avere oggi in un mondo che è cambiato drammaticamente. Alla politica si chiedono certezze, stabilità, la capacità di non farci sconfiggere dalle sfide globali. Invece siamo qui a guardarci l’ombelico, a preoccuparci delle insegne dei negozi, a mettere in competizione gli insegnanti nati a cento chilometri di distanza, a pensare di chiuderci all’interno delle nostre regioni, dimenticando che il mondo corre e può tranquillamente passare oltre. Nel 2009 in Francia i turisti cinesi hanno speso il doppio di quelli americani e a Parigi si costruiscono in gran corsa alberghi per ospitare i nuovi ricchi orientali. Più che il dialetto lombardo dovremmo far studiare ai nostri figli il mandarino e chiedere ai nostri politici di indicarci le opportunità del mondo nuovo e preparare il Paese a prenderle al volo.

da www.lastampa.it