memoria

«Ciao 'Bella Ciao'!», di Manuela Ghizzoni*

«Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor.

O partigiano, portami via, ché mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano, tu mi devi seppellir.

E seppellire lassù in montagna, sotto l’ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno mi diranno «Che bel fior!»

«È questo il fiore del partigiano morto per la libertà!»

O bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!»

 

“Bella ciao” è l’inno più celebre della Resistenza. Un testo tanto semplice quanto potente, che parla di dignità e di libertà dall’oppressore, non invoca odio e tantomeno menvedetta e, forse, è per questo motivo che qualche Sindaco ritiene non possa essere cantato e suonato nel giorno della Festa della Liberazione.

Da tempo assistiamo a provocazioni di questo tipo che ci indignano e che offendono la memoria delle vittime del nazifascismo, perché banalizzano la data del 25 aprile, in quanto la considerano priva di significato o, nel peggiore dei casi, la ritengono patrimonio esclusivo di una sola parte politica, così da delegittimarne la Costituzione che ne è il lascito diretto.

Due anni fa anche il sindaco di Alghero vietò di suonare “Bella ciao”, con la motivazione che fosse una canzone di parte: evidentemente ignorava che divenne inno della Resistenza solo negli anni ’50 proprio perché non era un canto comunista. In questi giorni il Presidente della Provincia di Salerno ha perfino cancellato la parola Resistenza dai manifesti del 25 Aprile. Purtroppo non sono episodi isolati, bensì espressione di una cultura diffusa che oggi, nell’attuale clima politico, trova nuovo alimento.

Alimento di cui si è nutrita la proposta di legge, presentata dalla destra al Governo, che prevede l’istituzione di una nuova onorificenza, denominata “Ordine del Tricolore”, da assegnare oltre che ai combattenti della guerra di Liberazione, ai partigiani, ai deportati, agli internati militari, anche ai soldati e ai militi della Repubblica Sociale.

La proposta di legge equipara di fatto i valori di libertà e democrazia, per i quali combatterono i partigiani e gli alleati, con gli obiettivi di nazisti e fascisti di Salò. Una proposta vergognosa, che ha l’obiettivo di conseguire la “pacificazione nazionale” mettendo sullo stesso piano Salò e la Resistenza, le vittime e i carnefici, la lotta per la libertà dei partigiani e la lotta dei repubblichini per negare la libertà. Il suo scopo è sovvertire la Storia per piegarla alle convenienze di parte del presente, è riscrivere la Storia censurando i capitoli principali che narrano della nascita della Repubblica dalla Resistenza e del riscatto della Nazione dalla vergogna del fascismo.

Siamo riusciti a fermare questo progetto di legge grazie alla protesta delle associazioni partigiane, della società civile e delle forze politiche di ispirazione antifascista, a cui si sono associati prontamente gli emeriti Presidenti della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, insieme ad altre personalità di inequivocabile valore.

In futuro dovremo essere pronti a respingere nuovi tentativi di bislacco revisionismo promossi dalla spinta ideologica verso l’archiviazione del passato, che punta a mettere sullo stesso piano vinti e vincitori affinché non si facciano i conti con gli errori e gli orrori del fascismo e del nazismo.

Sempre più spesso, questa pulsione viene giustificata con la tesi che l’argomento sia ormai da lasciare esclusivamente alla valutazione degli storici, perché viviamo in un’epoca completamente diversa.

Al contrario, noi insistiamo sulla necessità di ricordare gli anni cruciali della nostra storia nazionale, perché siamo convinti che il discorso sulla Resistenza non è, e non deve essere, solo un discorso sul passato. La riflessione sul fascismo e l’antifascismo non è solo un argomento da convegno per gli storici. Ben vengano gli studi e gli approfondimenti su quel periodo, ma deve essere chiaro che non si tratta solo di una riflessione di specialisti sul passato.

Quando parliamo di Resistenza, quando celebriamo il 25 aprile come anniversario della Liberazione, quando ricordiamo il sacrificio dei partigiani e dei tanti che ebbero il coraggio di schierarsi e di combattere contro il nazifascismo, noi non rievochiamo semplicemente il nostro passato, ma riflettiamo anche sulle radici della nostra democrazia, sui «valori» identitari della nostra Nazione e della nostra convivenza civile scritti nella Costituzione: in altre parole pensiamo all’Italia di oggi e al suo futuro.

Pacificazione: se l’obiettivo è quello di delineare un perimetro comune e condiviso, che non può che stare all’interno della nostra Carta costituzionale, appare senz’altro utile alla causa della democrazia la riflessione sul passato e la ricostruzione di una storia comune tra memorie che possono anche essere diverse.

Deve essere chiaro però un punto: consegnato alla storia il dolore delle famiglie delle vittime e riconosciuta la pietà per tutti i morti, di una parte e dell’altra, rimane inaccettabile confondere le ragioni che dividevano i progetti e le prospettive di chi – da vivo – combatteva su fronti opposti. Gli obiettivi dell’occupante e dei fascisti di Salò non hanno la stessa dignità dei valori dei resistenti, dei partigiani, degli alleati, degli antifascisti. I primi combattevano per negare la libertà, gli altri per restituirla al Paese.

I morti sono morti – scriveva Pavese: “Ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione” -, sia che siano caduti da una parte o dall’altra, e va rispettato il dolore di chi li ricorda. Tuttavia, noi dobbiamo chiedere ragione, per riprendere Pavese, di ciò che quei giovani e meno giovani fecero da vivi, e si deve distinguere tra scelte così radicalmente diverse.

E allora, mai abbassare la guardia contro i tentativi di riscrivere la storia facendo piazza pulita della Resistenza. I tentativi spregiudicati, quanto faziosi, di condizionare politicamente la “memoria pubblica” tendono ad un pericoloso scambio di ruoli e di parti, a confondere le responsabilità, a mettere sullo stesso piano la lotta partigiana per la democrazia e la guerra del fascismo repubblichino. Non è possibile alcun relativismo su quella pagina di storia. Furono i repubblichini a combattere dalla parte sbagliata, complici dei nazisti.

Non avremmo avuto d’altra parte nessuna possibilità di riconciliazione se 65 anni fa fossero prevalsi coloro che stavano dall’altra parte e che volevano costruire un nuovo ordine europeo e mondiale antidemocratico basato sulla violenza, sulla sopraffazione, sul razzismo, sulla persecuzione di coloro che venivano ritenuti diversi, sull’odio etnico.

Invece, grazie ai partigiani e agli alleati, l’Italia è stata liberata da un’occupante che non aveva remore a commettere stragi e rappresaglie contro bambini, donne, anziani e civili, e da una dittatura ventennale che aveva negato la democrazia, sciolto i partiti e impedito la libertà di stampa e di opinione, perseguitato e incarcerato i dissidenti, approvato le leggi razziali, aggredito altri Paesi alla ricerca di un effimero quanto violento sogno imperiale, condotto l’Italia verso una scellerata guerra al fianco dei nazisti, sostenuto il macabro progetto razziale del nazismo che ha portato l’Europa nell’inferno di Auschwitz.

Qualcuno ha voluto ridimensionare l’importanza della lotta partigiana, accampando pretestuose questioni di strategia militare e puntando a ricondurre gran parte dello scontro militare alla contrapposizione tra eserciti nazionali. Ma gli studiosi concordano nell’importanza della Resistenza, che fu reale movimento di popolo. Perché se è accertato che furono 250.000 i combattenti nelle formazioni partigiane, è altrettanto vero che furono molti di più coloro che si batterono per la Libertà prendendo parte alla Resistenza civile e non armata. Efficace nel creare il vuoto intorno agli occupanti e ai fascisti della Repubblica sociale italiana, il contributo di questi resistenti anche alla lotta armata fu fondamentale, grazie alla vasta rete di solidarietà che vi creò intorno, dando rifugio ai ricercati, curando i feriti, proteggendo i clandestini e concordando con i partigiani le azioni di lotta.

Oltre al contributo militare dato alla Liberazione (documentato dagli stessi alleati che sapevano di poter contare nella loro avanzata sulle azioni compiute nelle retrovie dai ‘ribelli’), la Resistenza ha soprattutto consentito all’Italia di riscattare moralmente il peso di un passato vergognoso.

Ma per comprendere il coraggio della scelta partigiana, dobbiamo ricordare non solo cosa fecero i partigiani, ma anche chi furono.

Ci furono comandanti straordinari, come il popolare ‘Armando’ (Mario Ricci), che ricevette la Medaglia d’oro al valor militare. Di lui ricorderemo sempre l’impegno per la libertà e la democrazia, il coraggio e l’intelligenza. Armando, nel momento più buio della nostra storia, ha assunto le responsabilità necessarie e, mosso da ideali e valori di libertà, ha servito la Patria con coraggio e determinazione.

Ma oltre ai valorosi comandanti, chi furono i 250 mila combattenti per la libertà?

Dietro a intellettuali, ufficiali e militanti politici delle formazioni politiche clandestine che guidavano il movimento partigiano (in primo luogo comunisti, ma anche cattolici, socialisti, repubblicani, azionisti e liberali), c’era un’Italia esausta dopo vent’anni di dittatura fascista e un popolo composto prevalentemente da contadini, braccianti, mezzadri e operai, soldati allo sbando dopo l’8 settembre, giovani renitenti in fuga dai bandi dell’esercito della Repubblica sociale.

L’esercito partigiano e dei resistenti era composto soprattutto da gente semplice, quelle che una volta si chiamavano classi subalterne. Più che il fucile, sapevano impugnare la vanga e la zappa. Più che le pistole, maneggiavano la lima e il martello. Ma trovarono la forza per usare le armi quando le ebbero in mano.

Erano persone semplici. Ma, pur non essendo eroi, fecero cose eroiche. Nutrivano una comprensibile paura, per loro e per i propri cari, ma fecero cose straordinariamente coraggiose. Misero in gioco la loro vita, rischiarono l’incolumità dei familiari. Li animava l’etica civile fondata sui valori della pace, della libertà e della giustizia che li spinse a ribellarsi al Regime: l’etica civile che Luigi Meneghello, l’autore de I Piccoli maestri, definì come “la perfetta coincidenza tra ciò che volevi fare con ciò che dovevi fare”

I resistenti appartenevano a quello che Nuto Revelli chiama il mondo dei vinti, il mondo di coloro che raramente vengono raccontati nei libri di storia. Gli ultimi. E invece, allora, la storia la fecero proprio gli ultimi.

E con loro la fecero le donne. E qui, voglio ricordare due donne straordinarie, perché fu straordinario lo sforzo di tutte le donne per la libertà.

Gina Borellini, Medaglia d’Oro della Resistenza, che ci ha lasciato tre anni fa, ma il cui ricordo è e rimarrà sempre vivo in noi. E soprattutto rimarrà viva la testimonianza civile e di libertà rappresentata dalla sua vita, interamente dedicata ai valori democratici che le hanno ispirato scelte coraggiose e dolorose, che tuttavia lei riconduce ad una pudica normalità quando scrive «la Resistenza è stata una grande lotta del nuovo contro il vecchio mondo portatore di fascismo e guerre e per questo ha visto mobilitate migliaia di giovani e ragazze».

E insieme a lei voglio ricordare la Medaglia d’Oro al Valor Militare Irma Marchiani. Anche lei era una donna normale, ma nel momento della scelta decise di stare dalla parte della Libertà dimostrando un coraggio straordinario. La sua vita prova sino a che punto possa arrivare quello straordinario sentimento di solidarietà che alimentava la lotta. Catturata durante la battaglia di Montefiorino venne seviziata e condannata a morte e poi inviata alla deportazione in Germania, ma riuscì a fuggire e rientrò nella sua formazione; ne divenne commissario, poi vice-comandante, e partecipò coraggiosamente ai combattimenti di Benedello. Catturata nuovamente, fu riconosciuta e fucilata da un plotone tedesco a Pavullo il 26 novembre 1944. Poco prima che la condanna venisse eseguita, trovò la forza di scrivere “Ho sentito il richiamo della Patria per la quale ho combattuto, ora sono qui… fra poco non sarò più, muoio sicura di aver fatto quanto mi era possibile affinché la libertà trionfasse”.

Storie di vita straordinarie quelle di Armando, Gina e Irma e di tutti coloro che parteciparono alla lotta di Liberazione, a quella stagione di lotta e di passione civile che costituisce l’atto fondativo del nostro Paese. Storie che andrebbero raccontate a giovani, bambini, figli e nipoti per ostacolare il progetto di coloro che vogliono ridurre la Resistenza a mito o reperto archeologico: le storie di Armando, Gina e Irma sono prive di retorica e il ricordarle ci permette di rinnovare l’attualità dell’etica civile di cui furono interpreti, ci consente di recuperarne la carica vitale degli ideali, ci aiuta a comprendere che la virtù democratica richiede senso di responsabilità, disponibilità al rispetto delle regole, rispetto degli altri.

Dobbiamo scongiurare la perdita di memoria collettiva e sventare qualsiasi tentativo di archiviare questo capitolo di storia che non è patrimonio di una parte politica, ma della Nazione nel suo insieme. Contrastare la smemoratezza significa educare alla pratica quotidiana della democrazia, alle sue ragioni e alle sue origini; costruire un ponte tra generazioni (e tra culture) affinché le motivazioni e l’etica civile che animarono i Resistenti di allora, soprattutto giovani, siano comprese dai giovani d’oggi e ne condividano la tensione per la dignità umana, la giustizia, il progresso sociale e l’Unità d’italia, su cui siè soffermato ieri il Presidente della Repubblica e su cui dovremmo riflettere tutti noi per aver piena consapevolezza delle conseguenze della sua eventuale rottura.

A volte mi viene da pensare che se trent’anni fa l’Italia avesse spento la televisione e avesse ricominciato a raccontare a tutti i bambini, come si faceva una volta, le storie di Armando, Gina e Irma prima di metterli a dormire, forse oggi ci saremmo risvegliati in un Paese migliore, certamente diverso.

Forse ci saremmo svegliati in un Paese nel quale la generosa disponibilità di un imprenditore a pagare la retta della refezione scolastica di bambini le cui famiglie sono morose, non viene ritenuto un gesto da stigmatizzare, ma da premiare. E dopo aver premiato quell’imprenditore, ci saremmo interrogati sul fatto che tutti dovremmo in qualche modo farci carico di chi è in difficoltà, al di là del colore della sua pelle o della sua provenienza.

E invece, oggi, quanto sta accadendo non ci indigna. Ecco perché noi dobbiamo abbassare la soglia di indignazione di una società che rischia altrimenti di lasciarsi trascinare verso il degrado morale e lo sfaldamento della coesione sociale. Anche durante il Fascismo gli italiani cominciarono ad indignarsi troppo tardi.

Il rischio che corriamo è lo smarrimento dei valori su cui si basa il civismo, la convivenza, la coscienza dei singoli. Si rischia cioè di smarrire la direzione che la Costituzione individua per orientare il cammino delle istituzioni e dei cittadini: la garanzia dei diritti inviolabili e l’adempimento dei doveri inderogabili secondo il principio di solidarietà. Esattamente come fecero coloro che scelsero la Resistenza e si opposero al nazifascismo.

Nel tempo incerto che stiamo attraversando, dobbiamo sempre tenere le antenne alzate davanti al pericolo che la Storia possa ripetersi. Mi pare quindi legittima la preoccupazione a fronte delle richieste di modifica delle regole e delle nostre leggi fondamentali come la Costituzione, poiché l’impressione è quella che si voglia smantellare contemporaneamente anche i sistemi di equilibrio e di salvaguardia della democrazia che la Carta prevede. E tale preoccupazione diviene vera e propria inquietudine e allarme se consideriamo, da una parte, che i sostenitori di questi cambiamenti si sentono a disagio all’interno di un sistema equilibrato nel quale è previsto il dissenso e valutiamo, dall’altra, la difficile crescita di un’opinione pubblica critica e consapevole.

Da questo punto di vista, l’eredità morale e civile della Resistenza è fondamentale. Perché, al di fuori degli istituti di garanzia democratica previsti dalla nostra Costituzione (che dobbiamo difendere di fronte a ogni tentativo di sovvertimento), esiste un anticorpo alle minacce democratiche di cui tutti noi siamo custodi e responsabili. Questo anticorpo è la memoria, che è nostro dovere mantenere viva.

Ricordiamolo, perché gli smemorati rischiano di perdere l’orientamento, e di farlo smarrire anche al Paese.

O bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

 

Manuela Ghizzoni

* Il testo è tratto dal discorso ufficiale per le celebrazioni del 25 aprile a Pavullo nel Frignano (Domenica 25 aprile 2010)