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"La memoria si è fermata a Fossoli", di Maria Grazia Gerina

E all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare». Fossoli 22 febbraio 1944 data l’istantanea dell’orrore scattata da Primo Levi, un attimo prima di salire con gli altri 600 internati sul convoglio che li porterà ad Auschwitz. Sembra di vederli ancora quei pannicelli chiari che sventolano per la campagna emiliana trasformata in universo concentrazionario. Mentre si spegne il lamento che le donne tripoline avevano intonato per l’intera notte.

C’era voluta la bonifica, subito dopo la Grande guerra, per strappare quelle zolle alle paludi, evento celebrato nel giugno del ’22 con tanto di visita del re. Ma, dopo la nascita della Repubblica di Salò, nel giro di poche settimane quel fazzoletto di terra nel modenese era diventato il principale campo di transito per ebrei, partigiani, prigionieri politici, operai da deportare negli altri campi di concentramento e di sterminio del Reich. Scelto per la posizione isolata e per la ferrovia che dalla vicina cittadina di Carpi puntava verso il Brennero. «Ecco che superiamo Verona, Trento, Bolzano. Ecco il Brennero: noi guardiamo il mondo che ci circonda dalla piccola feritoia del carro bestiame», la ripercorre tappa per tappa Luciana Nissim, «partita da Fossoli di Carpi (Modena) la mattina del 22 febbraio 1944, con alcuni fra i miei più cari amici, Vanda Maestro, Primo Levi, Franco Sacerdoti». Lei e Primo, tutti e due torinesi, laureata in medicina lei, in chimica lui, si erano uniti ai partigiani ed erano stati subito catturati. Quello su cui salirono era il primo convoglio di ebrei italiani che partiva da Fossoli. «Il trasporto venne formato a Carpi: eravamo 50-60 persone in ogni carro bestiame», racconta ancora Luciana in un libriccino di fortuna, stampato già nel 1946 con un titolo eroico Donne contro il mostro. Una delle prime testimonianze della Shoah in Italia (la prima edizione di Se questo è un uomo è di un anno dopo, 1947), destinata però a restare a lungo sepolta.

Sembra già tutto scritto, tutto già ricordato, oggi, ma la memoria è stata ed è un lavoro incessante lavoro. È per questo che oggi siamo. Ad imparare come si fa memoria da Fossoli, dove sessantacinque anni dopo la Liberazione, sulle tracce dei circa 5mila ebrei, resistenti, prigionieri politici, operai, che vi furono rinchiusi, si spingono bambini, ragazzini delle scuole, uomini, donne. Quasi quarantamila visitatori l’anno. Un popolo memorioso, che qui, portato per mano dalle guide (giovani, anziani, volontari), impara di strato in strato ad aguzzare la memoria. Un lavoro di scavo. Il primo strato, subito dopo la guerra, lo posò su Fossoli la piccola comunità di Nomadelfia. Ancora una istantanea del campo, scattata nel ’47 da Norina, una delle «mamme di vocazione» che con don Zeno Saltini decise di occupare l’ex campo di concentramento per dare una casa agli orfani: «Io fui una delle prime a visitare i capannoni: tutto parlava di una grande tragedia. Le figure e le scritte sui muri, certe frasi… qualcuno aveva disegnato tragedia vissute. Mi sembrava di vedere una via crucis». Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, poi, Fossoli diventa campo per i profughi giuliano-dalmati, in fuga forzata dall’Istria. Le baracche vengono ristrutturate, fanno spazio alla scuola, all’ambulatorio, alla chiesa. Il Villaggio San Marco verrà smantellato nel 1970. E solo nell”84 il sito verrà ceduto all’amministrazione comunale, che comincia a progettarne il recupero come luogo di memoria. Dal ’96 è la Fondazione ex Campo Fossoli, promossa dal Comune e dagli Amici del Museo Monumento, a portare avanti questo preziosissimo lavoro. È grazie a loro che oggi Fossoli è cantiere permanente della memoria.

L’Unità 24.04.10

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