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"Fossoli, qui dove la memoria è un lavoro incessante", di Maria Grazia Gerina

Ci sono delle foto bellissime di Fossoli», si commuove a pensarci, Marzia Luppi, direttrice “part-time” della Fondazione ex campo Fossoli, e per il resto del tempo insegnante. «Si vedono questi bambini, i piccoli orfani di don Zeno che qui vissero dal ’47 al ’52 che abbattono i segni più evidenti di un campo di concentramento: il filo spinato, le torrette di guardia. Sono foto molto toccanti che danno l’idea di una volontà di ripresa della vita portata avanti anche riutilizzando delle strutture legate a un progetto di morte». Bisogna immaginarsi quei gesti per capire cosa è stato Fossoli e cosa è la memoria: qualcosa di vivo, tutto tranne che una strada a senso unico.

Di fatto Fossoli diventa molto tardi un luogo di memoria?
Vede, nel 1955, Fossoli è abitato da 150 famiglie giuliano-dalmate costrette ad abbandonare l’Istria, ospitate a Fossoli risistemano le baracche, le dividono in piccole abitazioni, le casette ripitturate all’interno e i frutteti risalgono a quel periodo. Il 1955 però è anche l’anno in cui si tiene a Carpi una mostra sulla Resistenza all’interno dei lager nazisti e Fossoli viene indicato come un luogo simbolo da iscrivere nella memoria dei carpigiani e degli italiani.

Quale è la storia di Fossoli?
Nel periodo ’43-’44, sotto la Repubblica di Salò, Fossoli diventa “il” campo nazionale della deportazione, da dove vengono deportati 2800 ebrei, e poi i politici, i lavoratori coatti. È la pagina più tragica. Ma Fossoli ha una storia molto lunga e stratificata, che inizia nel 1942 quando viene istituito come campo per i prigionieri alleati catturati nell’Africa del Nord e termina quando nel 1970 l’ultima famiglia giuliano-dalmata abbandona il campo-profughi e si inserisce nel tessuto cittadino. E poi c’è la storia degli “orfani” di don Zeno, quella dei profughi nel dopoguera. Ecco, la via che abbiamo scelto, da quando nell”84 il campo viene ceduto al Comune, è di preservare Fossoli come luogo dove si possano riconoscere tutte le storie che vi si sono succedute e che coincidono con i nodi nel Novecento.

Sono tanti a fare visita a Fossoli?
Tra i 30 e i 40mila visitatori l’anno. In prevalenza scuole, ormai vengono da tutta Italia. Ai ragazzi facciamo capire l’importanza di avere un luogo da cui partire per raccontare le storie. Ma anche la necessità di non fermarsi all’apparenza. Loro vedono che le baracche sono dipinte, piastrellate di azzurro e dicono: ma come non è un campo di concentramento? E poi: dove sono le camere a gas? Lo stereotipo è che esista solo il modello Auschwitz. Allora si spiega che Fossoli aveva un’altra funzione, che il fatto che non abbia le camere a gas non lo rende migliore, che qui si preparavano i convogli per Auschwitz, che c’è tutto un percorso che porta alla camera a gas. È importante che i ragazzi sappiano che la storia è fatta di tanti piccoli passi esi domandino: dove posso a un certo punto interrompere questo cammino? Che margine ho come singolo? Poi c’è la parte del lavoro storico.

Ovvero?
Ridare un nome e un percorso di vita a quanti sono passati per Fossoli. Noi ora abbiamo dei numeri: 2800 gli ebrei, oltre 2800 i politici ma non sappiamo con precisione, cosa è successo prima e cosa succederà dopo della loro vita. Questa ricerca è partita due anni fa, l’abbiamo chiamata anagrafe.

Le guide che ho visto sono soprattutto giovani.
Soprattutto per le visite e per gli aspetti didattico-divulgativi abbiamo un gruppo molto giovane di operatori, circa 15, che vengono formati e aggiornati costantemente. La memoria è un lavoro incessante, non ci si può fermare mai.

L’Unità 26.04.10

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Quando il rock è partigiano, di Mauro Ravarino
Germano Nicolini strizza gli occhi commosso, quando Cisco intona Al diével, la canzone che ne racconta la vita. Solo poco minuti prima, il mitico comandante partigiano Diavolo aveva scaldato di lucida ironia la piazza di Carpi, con frecciate a quei politici (Berlusconi e La Russa in testa) che vorrebbero affossare il 25 aprile e farne una festa della conciliazione. Germano, “un diével solo per i tedeschi”, c’era anche nel 1995, nella prima, e fino a ieri unica edizione, di Materiali Resistenti (15 anni anni fa declinato al singolare), una giornata di musica e memoria. All’epoca c’era pure Massimo Zamboni – anima storica dei Csi (c’era pure Giovanni Lindo Ferretti, ieri assente, giustificato da approdi politici ormai lontani) – che ne fu direttore artistico . Zamboni è tornato. Smilzo, occhialini e sguardo timido arriva in piazza a metà pomeriggio e tira un sospiro di sollievo: «Ci vorrebbe un 25 aprile ogni mese, perché il resto dell’anno mi sento solo». Poi sale sul palco, prende la sua chitarra ruvida, e con gli Offlaga Disco Pax suona Allarme, un pezzo dei suoi Cccp, di cui il gruppo di Max Collini da Reggio Emilia ha raccolto in parte il testimone. Fusioni insolite, tra musicisti di vari gruppi, che sono continuate per tutto il concertone. Come quando Mara Redighieri, ex Ustmamò, ha ricantato quindici anni dopo Siamo i Ribelli della montagna, questa volta in una versione più rock con Fabrizio Tavernelli (già con gli Afa), uno degli animatori dell’evento. Una piazza bella e resistente.

Piazza dei Martiri si è riempita lentamente di colori, bandiere ed entusiasmi. Tanti giovani: ragazzini ma anche trentenni che ricordano bene l’edizione del 1995. E, tra il pubblico, pure qualcuno che il 25 aprile di 65 anni fa l’ha vissuto davvero. Perché tutto parte da lì. Senza Retorica. «Non bisogna avere paura di partire dal passato per arrivare al futuro. Per questo ho ripreso i canti anarchici dell’Ottocento» racconta con voce lieve Mara Redeghieri, che ha portato a Carpi il suo nuovo progetto Dio Valzer. Sul palco con lei Lorenzo Valdesalici, 15 anni fa era appena nato. I Giardini di Mirò, emiliani di frontiera, hanno spezzato i tempi del concerto. La loro musica è un sali-scendi dilato, che crea un’atmosfera ipnotica. Sono stati i primi ad aver sdoganato in Italia i suoni del post-rock. E non si è potuto star fermi di fronte al piglio punk dei Tre allegri ragazzi morti, capitanati dal fumettista Davide Toffolo. Quando sono saliti gli Offlaga l’applauso è stato fragoroso. Tra il pubblico difficile trovare chi non conoscesse un verso di Robespierre, Sensibile (con dedica provocatoria a Giusva Fioravanti) e Toponomastica.

Alternati alla musica, gli interventi degli scrittori Paolo Nori e Carlo Lucarelli. E, infine, il Teatro degli Orrori, romanticamente drammatico, forte di un disco A sangue freddo, uno dei migliori album dello scorso anno. Tutto era stato, però, aperto da Cisco, ex Modena City Ramblers, con le mondine di Novi, già protagoniste del film documentario Di madre in figlio. Un’esplosione di energia, che con Bella Ciao, cantata a cappella, ha dato il via alla festa. Portano tutte il fazzoletto dell’Anpi: «Siamo sempre partigiane» spiega Giulia Contri, figlia di mondina, che dirige il coro ed è pronta a partire per il tour Terra da coltivare. Quindici anni dopo, nonostante tutto e nonostante Berlusconi, a Carpi si è visto uno spirito ancora resistente. Che sia, non solo musicalmente, di buon auspicio.
L’Unità 26.04.10

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